Filosofia del viaggio

Siamo nell’era di Internet, tutto, e subito, ci viene messo a disposizione con un click. Così, grazie alle nuove tecnologie, le immagini di luoghi lontani diventano familiari.
In questo tempo dell’istante può esistere ancora il viaggio? Cioè quell’essere nomade che ti consente, ancora, di stupirti della vita? Chi è il viaggiatore? Che cos’è il viaggio?
A queste domande cerca di rispondere Michel Onfray, uno dei più popolari filosofi francesi contemporanei, con questo suo libro: Filosofia del viaggio. Poetica della Geografia, Ed. Ponte Alle Grazie, 2010.
Il libro è una vera e propria “fenomenologia” del viaggio.
Con una passione, che potremo definire “neoepicurea” (“l’arte del viaggio induce un’etica ludica, una dichiarazione di guerra alla quadrettatura e al cronometraggio dell’esistenza”), l’autore scandaglia gli attimi in cui una voce, che nasce dall’interiorità, ti sprona a decidere per quel luogo scelto. Il viaggio, però, non è improvvisazione: “La ricchezza – scrive Onfray – di un viaggio necessita, a monte, della densità di una preparazione: come ci si predispone alle esperienze spirituali esortando l’anima ad aprirsi, ad accogliere una verità in grado di infondersi. La lettura agisce sotto forma di rito iniziatico, rivela una mistica pagana. L’accrescersi del desiderio sfocia in seguito in un piacere raffinato, elegante e singolare. (…) Nel viaggio si scopre soltanto ciò di cui si è portatori. Il vuoto del viaggiatore crea la vacuità del viaggio, la sua ricchezza ne produce l’eccellenza”.
Così ogni strumento (Atlanti, guide, libri ecc) arricchisce il desiderio, per cui, per dir così, “ogni viaggio vela e disvela una reminescenza”.
Il viaggio è un’esperienza totale.
Infatti “il viaggio fornisce l’occasione per dilatare i cinque sensi: sentire e comprendere in modo più profondo, guardare e vedere in modo più intenso, assaporare e toccare con maggiore attenzione. Teso e pronto a nuove esperienze, il corpo in subbuglio registra più dati rispetto al consueto (…). Viaggiare intima il pieno funzionamento dei sensi. Emozione, affezione, entusiasmo, stupore, domande, sorpresa, gioia e sbalordimento, ogni cosa si mescola nell’esercizio del bello e del sublime, dello spaesamento e della differenza”.
Ora il viaggiatore è diverso dal turista. Il viaggiatore è un artista. Infatti “Il viaggiatore ha bisogno più di una attitudine alla visione che di una capacità teorica. Il talento nel razionalizzare è meno utile della grazia. Quando lo possiede il nomade artista conosce e vede come un visionario, comprende e coglie senza spiegazioni per impulso naturale”.
Il viaggio, quindi, è una esperienza umana integrale.
“Sé stessi, questa è la grande questione del viaggio. Sé stessi, e nient’altro.(…) Una quantità di pretesti, di occasioni e di giustificazioni, certo, ma, di fatto, ci si mette in cammino spinti soltanto dal desiderio di partire incontro a se stessi nel  disegno, molto ipotetico, di ritrovarsi, se non di trovarsi”. Viaggiare, quindi, conduce in modo inesorabile verso la propria soggettività. Alla fine è questo che conta….

Dalla parte degli zingari

Il governo Sarkozy, con un provvedimento del tutto strumentale (legato cioè a problemi di consenso del suo governo in caduta dopo lo scoppio dello scandalo Bettencourt) e per nulla efficace sul piano della cosiddetta “sicurezza” (visto che sono cittadini di Stati membri della Unione Europea e quindi, a meno di non commettere reati in quegli stati, nessuno potrà impedire a loro di ritornare in Francia), espelle 700 rom dal territorio francese.
Domani ci sarà il primo volo di “rimpatrio” per la Romania.
E’ un provvedimento che l’UE guarda con preoccupazione, i governi di Romania e Bulgaria  (i paesi d’origine dove saranno “riaccompagnati” i Rom) denunciano il rischio di una deriva “populista e sul generarsi di reazioni xenofobe” (così si è espresso il Ministro degli Esteri rumeno).
Ancora una volta, come se la lezione della storia non bastasse, si riduce tutto, si semplifica tutto nel nome di una stupida ideologia securitaria (cui, anche, il nostro Paese è infestato grazie alla propaganda leghista). Sulla pelle dei deboli e dei  marginali si costruisce la “fortuna” dei governi.
Così gli zingari, dice la volgare opinione diffusa, sono un grave problema di sicurezza. Invece, come scriveva qualche tempo fa lo storico Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, “l’atteggiamento verso di loro è espressione dei nostri problemi (quelli dei gagé, per usare l’espressione dei rom che indica i non nomadi). Non solo loro sono un problema, ma su di essi si scaricano (e si rivelano) quelli che sono i nostri problemi”.
 Così avere un nemico è rassicurante, ed avere, poi, “un nemico della nostra sicurezza, come gli zingari (tanto deboli), è rassicurante e, alla fine, poco minaccioso”. Combattere qualcuno dà la sensazione di presidiare attentamente le nostre barriere sociali e quelle del futuro.
Allora ecco che occorre una politica capace di entrare alla radice del problema.
La nostra società, infatti, ha un debito di memoria nei confronti di questa popolazione.
Presente nel nostro Paese fin dal Trecento, nel resto d’Europa anche prima, la loro esistenza è stata attraversata da persecuzioni (di carattere razziale al tempo del fascismo), fino ad arrivare al  folle genocidio ad opera del nazismo. Una miscela di stereotipi, pregiudizi diffusi, violenze perpetrate senza remore hanno costituito la base per il folle progetto di sterminio nei lager nazisti. Si calcola che il numero di sinti e rom uccisi varia tra i duecentomila e cinquecentomila. E’ questo  il “buco nero” della memoria europea.
“Sospeso tra terrore e poesia,  lo zingaro è un immagine piuttosto che un uomo concreto” (Impagliazzo),  così si continua sapere poco su di loro, sulla loro cultura e su molto altro.
Allora lo sforzo deve essere su più livelli. In particolare culturale. Il “diverso” fa paura solo alle società deboli e la nostra Europa, per non dire dell’Italia, deve camminare ancora tanto per essere la patria rappacificata delle alterità.

Se Super-Mario ci lascia…

E così super Mario Balotelli ci ha lasciati.

Tutto, purtroppo, com’era nelle previsioni.

Francamente lo trovo, da italiano e da interista, un giorno triste. Certo è l’ennesima prova che questo Paese non sa gestire un talento, anzi se può ne facilita l’uscita dall’Italia.

Ebbene questo campione “controverso e post-moderno” , come qualcuno lo ha definito, se ne va perché stanco del clima, insopportabile, che durante la scorsa stagione – trionfante – ha segnato la sua avventura calcistica.

“Lascio alle spalle – scrive nella sua lettera d’addio all’Inter – un anno difficile: ho riconosciuto i miei sbagli, ma credo di essermi trovato spesso al centro di pressioni e critiche che in alcuni casi mi hanno esasperato” e conclude con “ho bisogno di un ambiente più sereno intorno a me”.

Come si può dargli torto? Al di là di alcuni suoi comportamenti censurabili sul piano sportivo (la maglia gettata per terra a San Siro in un gesto di stizza alla fine di Inter-Barcellona) e di un carattere forte ( certo alcune sue spacconerie forse sono state eccessive), Balotelli è stato fatto oggetto di cori razzisti, di continue provocazioni dentro e fuori dallo stadio.

Anche all’interno dell’Inter, purtroppo, si sentiva uno “fuori”. Tant’è che Moratti , il presidente della società neroazzurra, lo ha definito “non indispensabile”. Temo, però, che Moratti questa volta si sbagli di grosso. Ne riparleremo tra qualche tempo.

Alla fine si scoppia.

Personaggi “complicati” il calcio italiano ne ha avuti in passato, eppure costoro facevano la ricchezza del nostro calcio. Solo lo stupido conformismo può trovare uno come Mario Balotelli un problema da gestire. Ci fossero ancora allenatori come Nereo Rocco, Nils Liedholm o Helenio Herrera saprebbero gestire talenti così.

Ora inizia la sua nuova avventura al Manchester City guidato da Mancini, che lo ha fermamente voluto. Gli auguriamo , ovviamente, grandi successi. A noi resta l’amaro di una sconfitta enorme per il calcio italiano. Ciao Mario!

L’oblio della nazione

I tempi furiosi della politica ci consegnano ogni giorno “materiale” su cui riflettere.
Tralasciando, per un attimo, la stretta attualità politica ma guardando, invece, nel “sottosuolo sociologico” della storia politica italiana,  emergono con nitida chiarezza i nodi “strutturali” della debolezza del nostro Paese.
Ebbene uno di questi è l’oblio della nazione.
“La nazione, affermava il francese Ernest Renan, è un plebiscito di tutti i giorni. In Italia, nell’ultimo mezzo secolo, le frequenti elezioni politiche sono state simili a un plebiscito di tutti i giorni. Ma quasi tutte hanno fomentato aspre divisioni fra gli italiani, perché sono state vissute come una scelta di regime in una sfida mortale fra il Bene e il Male”.
Così lo storico Emilio Gentile, grande studioso di fama internazionale del totalitarismo fascista, nel suo ultimo saggio  (Né stato né nazione. Italiani senza meta, Laterza Bari 2010, pag. 110) sul senso nazionale degli italiani, mette in evidenza subito, fin dalle prime righe del suo libro, una, tra le tante, debolezze del nostro Paese: appunto l’oblio della nazione.
E’ un saggio importante che esce alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità dell’Italia e che sicuramente aiuterà a prendere coscienza dei limiti della nostra memoria collettiva.
“Una nazione, scrive ancora il discusso Renan, è una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso a continuare a vivere insieme”.
Stando così le cose, per lo storico Gentile, gl’italiani non hanno mai avuto il sentimento comune dei sacrifici compiuti insieme. E si sa quanto il passato ha diviso, e divide, gli italiani. E qui torna strategica la funzione della storia. Senza storia non si vive, si vive come gli animali (come ben ricordava il filosofo Nietzsche : “gli animali dimenticano subito e vagano in un presente senza storia”).
E qui l’analisi dello storico si fa spietata.
Riprende l’analisi, scritta sei anni dopo l’Unità d’Italia, da Massimo D’Azeglio. Il grande piemontese, infatti, non ha mai scritto nei suoi ricordi “fatta l’Italia bisognava fare gli italiani” , per lui gli italiani c’erano già quando fu fatta l’Unità d’Italia, ma proprio per questo egli pensava che gli italiani fossero i “più pericolosi nemici d’Italia”.  Perché gli italiani “hanno voluto fare una Italia nuova e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima” con tutte le loro lacune culturali e morali: “pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirvi, bisogna prima che si riformino loro”.
E 150 anni dopo i “nuovi italiani” auspicati dal D’Azeglio non ci sono ancora…ancora “vizi” antichi persistono e non si è mai visto nella storia costruire una nazione sull’arte di arrangiarsi o sui gol della Nazionale di Calcio.
Insomma la Nazione rischia di essere un vuoto simulacro portato in scena per copione, ma incapace di suscitare emozioni.
Ora Il mondo in cui viviamo è diviso in Stati nazionali. Ma l’Italia  sembra andare controcorrente: alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità, il nostro paese è afflitto  da una grave crisi di sfiducia nella propria esistenza. Molti cittadini pensano che la nascita dello Stato unitario sia stato un errore e che una nazione italiana non sia mai esistita (vedi la propaganda leghista). E vorrebbero prendere un’altra strada; ma non sanno quale.  Così in un mondo di Stati nazionali, gli italiani rischiano di vagare, litigiosi e divisi, verso un futuro incerto e senza meta.
E’ ancora lunga , nonostante gli sforzi di Ciampi e Napolitano, l’opera di formazione della memoria storica italiana.