Il Capitalismo italiano sta vivendo un periodo di turbolenza. Ad esempio la tensione che sta vivendo ora il gruppo “Generali”, al suo interno, ne è la cifra, insieme alla vicenda di Parmalat (senza dimenticare Fiat ed altre ancora ), più eclatante. Tensioni dovute ad una “un’ offensiva – come afferma Giulio Sapelli in questa nostra intervista – per arginare dalla sua vocazione il più potente gruppo del capitalismo italiano” . Così siamo ad un passaggio delicatissimo per la Compagnia. E questo, sempre per usare le parole di Sapelli, s’ intreccia con la “Campagna d’Italia”, cioè con la scesa in campo tanto dei tedeschi quanto dei francesi nel nostro Paese per fare shopping, per impadronirsi dei gioielli della corona dell’economia italiana. Così i rappresentanti del capitalismo francese guardano attentamente a quello che succede in “Generali” per ulteriori sviluppi. Forse per utilizzare “Generali” per scalate interna alla roccaforte del Capitalismo italiano e quindi di Mediobanca. Insomma tensioni che, immancabilmente, interesseranno anche la politica. Di questo, ed altro, parliamo con un osservatore attento ed esperto dell’economia e dell’industria italiana. Si tratta del professor Giulio Sapelli, storico dell’economia e uomo d’impresa.
Giulio Sapelli ha svolto attività di ricerca alla London School of Economics, all’Università di Barcellona ed all’Università di Buenos Aires. È stato direttore di studi alla Ecole des hautes etudes en sciences sociales a Parigi. È Ordinario di Storia Economica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Ha insegnato e svolto attività di ricerca in molte università e imprese italiane e straniere. I suoi lavori scientifici hanno avuto per oggetto il capitalismo italiano, le grandi imprese, le compagnie assicuratrici, le medie imprese d’eccellenza, l’associazionismo imprenditoriale, i trasporti, l’energia, lo sviluppo tecnologico, la teoria dell’impresa, la cultura organizzativa, le patologie dei mercati e la “corporate governance”, i sistemi economico-sociali territoriali, la crescita economica e la modernizzazione nell’Europa del Sud, l’antropologia economica, l’etica d’impresa.
Allora Professor Sapelli, in sintesi, cosa sta succedendo in “Generali”, che per i noti intrecci azionari, in primis Mediobanca, è la Cassaforte del “Salotto buono” italiano?
Sta succedendo che c’è uno scontro tra quello che è il management ed alcuni azionisti che vorrebbero continuare una politica tipica delle “Generali”, cioè di prudenza negli investimenti, di oculatezza nella patrimonializzazione e di rafforzamento di quello che è lo “spirito” assicurativo e naturalmente una parte di rappresentanti di un capitalismo più avventuroso di un segmento delle classi politiche, impersonificate soprattutto dal suo Presidente il Cavaliere Geronzi, che vorrebbero invece fare di Generali più che una “Cassaforte” della stabilità, una “cassaforte” che serva ad adempiere ad altre funzioni che non sono quelle tipiche della compagnia di assicurazione. Ad esempio come quella improvida intervista data al Financial Times dal Cavalier Geronzi dove si auspicava investimenti del ponte di Messina.
“Affari e Finanza”, l’inserto di economia di Repubblica, ha pubblicato una interessante analisi di Marco Panara in cui si afferma che oggi, in Italia, molti imprenditori hanno venduto le loro aziende facendo grossi introiti. Con il risultato che mancano imprenditori italiani disposti a comprare (Bulgari e Parmalat) e comprano i francesi, tedeschi. Insomma nei nostri imprenditori, in quelli che possono investire, c’è una generale diffidenza nei confronti del paese. E’ così?
Questa diffidenza deriva soprattutto dal fatto che è difficile fare impresa in Italia: alta tassazione, l’accesa burocratizzazione, la scarsità di liquidità (periodo di bassa liquidità: le banche sono molte restie a dare capitali, se non con elevate garanzie che molto spesso le imprese più dinamiche non sono in grado di dare), tutto questo naturalmente indebolisce le fasce del capitalismo medio italiano e lo espone o alla tentazione di vendere o alla eventualità di essere scalati. Comunque mi sembra che siamo ancora lontani da una generalizzata fuga, diciamo che ci sono ancora un buon numero di imprese che vogliono lavorare in Italia e fanno del loro meglio per continuare a farlo e continuare ad esportare.
Secondo lei ha senso fare una legge anti Opa per difendere l’italianità delle nostre imprese?
Ma no, diciamo che abbiamo già una legge sull’Opa che funziona molto bene. Mi pare che piuttosto che fare leggi bisognerebbe rendere il contesto italiano più competitivo e più facile per l’attività imprenditoriale. E poi non bisognerebbe avere, diciamo così, generici patriottismi. Il problema di fondo non è la composizione dell’azionariato ma se investimenti tecnologici, capacità direzionale e l’occupazione rimangono nel Paese. Se ci sono queste tre garanzie ben venga anche un azionariato straniero.
Le nostre aziende, quelle che contano, sono gestiste da “patti di sindacato” e le piramidi societarie sono applicate nel 45% dei casi delle imprese italiane. Non trova grave questa anomalia italiana?
Questa è una anomalia che appartiene al capitalismo europeo ed asiatico fondata su legami parentali, conflitti di interesse che non su competizione. In questi ultimi anni invece che diminuire, nonostante le liberalizzazioni, si è accentuato, questo è favorito dal fatto che le dimensioni delle imprese sono piccole e quindi si unificano, si apparentano più imprese piccole che non imprese medio-grandi o imprese grandi, quindi questo dipende dal fatto che abbiamo una piccola dimensione d’impresa.
Non rende il nostro “capitalismo” poco trasparente (ovvero pieno di conflitti d’interessi)?
Si, diciamo che l’Italia è il Paese del conflitto di interessi, della scarsa trasparenza nonostante le leggi sull’Opa, nonostante tutto c’è un costume italico che fa si ché gli stessi bilanci sono scarsamente attendibili e sappiamo quanta diffidenza hanno i fondi d’investimento stranieri se devono basare l’impresa sulla documentazione dei bilanci, e come gli strumenti di controllo funzionino malamente.
Guardiamo un attimo alla vicenda Fiat, che ha fatto e ancora farà discutere l’opinione pubblica italiana. Secondo lei Marchionne è un manager o un giocatore di poker?
Non è né l’uno né l’altro. E’ un “politico”, è una persona che risponde al Dipartimento di Stato americano che ha avuto una carriera tra la finanza e l’industria. Però la vicenda Fiat più che essere una vicenda industriale, come si è ritenuto per molto tempo, è una vicenda politico-diplomatica da un lato per garantire agli Stati Uniti un rapporto con l’Italia attraverso la Fiat, per altro lato per conservare, diciamo così, il patrimonio degli Agnelli liberandoli dal peso devastante dell’Auto, ciò che sta avvenendo con l’accordo con la Chrysler, quindi la Fiat è destinata a diventare una impresa americana e non sarà più un’impresa italiana.
Lei è ottimista che possa farcela?
Non sono né ottimista né pessimista. Penso che Marchionne sia un mandatario di un gruppo di interesse che vuole far sì che Chrysler sopravviva, il Dipartimento di Stato americano, i sindacati americani, che hanno coraggiosamente investito, e con contratto che andrebbe esaminato (è tra i più difficili da interpretare al mondo) e che consente alla Fiat di scalare questa Chrysler cedendo in cambio delle tecnologie, in questo modo Fiat sarà di fatto assorbita da Chrysler e il marchio sarà Chrysler. Già i nuovi modelli sono tutti Chrysler, sono stati presentati al Salone di Ginevra gran parte di modelli che sono adattamenti di modelli Chrysler al mercato europeo e questo spiega perché Fiat non riesce a vendere auto, così come fanno le altre imprese.
Ultima domanda: qual è la prima riforma da fare per rendere efficiente il nostro sistema economico?
Non fare più nulla. Meno lo Stato interviene è meglio è. Bisogna detassarle le imprese e bisognerebbe fare una forte politica sindacale per aumentare i salari, ma questo non spetta allo Stato, spetta alle organizzazioni sindacali che devono finalmente ritornare ad essere dei sindacati e devono ricominciare a difendere i lavoratori.
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In economia i confini geografici contano sempre meno, attenzione a non fare sì che siano autolesionisti, se non c’è una sistema paese quando lo stesso si è seduto e non lo ammette, vuoi per interessi di parte vuoi per superficialità di un’opinione pubblica direzionabilissima con mezzi di distrazione di massa, tutto ciò che viene spacciato con l’Italianità si ripercuote sugli italiani e in un contesto in cui il costo del lavoro tra carico fiscale e costo energetico fa uscire lo stesso dal paese ho paura che sia meglio cominciare a pensare in termini di Europa oppure non sperare di trovare lavoro a bassa specializzazione che permetta di vivere con standard che attualmente si considerano minimi. Fiat: ipotesi assurda e dietrologica, anche qui comunque non conta la nazionalità in quanto è già ora un gruppo multinazionale e come tale va considerato, Geronzi, il suo passato è troppo incerto in trasparenza per dargli affidabilità al livello a cui è approdato….
Grazie
Saluti
Un po’ di stupore, ma cose, secondo me, vere.