Il dramma della Fincantieri. Intervista ad Alberto Monticco.

Sono giorni di grande tensione per gli operai della Fincantieri. “La forza della rivolta al sud è stata accompagnata da una violenza che è il simbolo di una rabbia che c’è nel cuore della gente e che non è più contenibile, Quanto sta avvenendo è come la mano di Dio che ci avverte: prepariamoci alla collera dei poveri”. Così monsignor Bregantini, presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro e arcivescovo di Campobasso, commenta con parole forti, riprendendo le parole di Paolo VI, la vicenda Fincantieri e la protesta degli operai. La CEI ha voluto così testimoniare la “grande preoccupazione” dei vescovi per quanto sta avvenendo sul piano sociale e il loro “rammarico per la decisione” dei vertici di Fincantieri “‘di licenziare un numero così alto di lavoratori”( sono 2551, secondo il piano dell’azienda). Una preoccupazione condivisa da tutta la società italiana. Della vicenda parliamo con Alberto Monticco, Segretario Nazionale della Fim-Cisl. Triestino, 46 anni, è stato anche lui un tecnico di Fincantieri. Segue per la sua organizzazione tutta la delicatissima partita della cantieristica. Continua a leggere

Leggendo Gaber…

Sono passati più di otto anni dalla sua morte, avvenuta il 1 gennaio del 2003 a Camaiore (in provincia di Lucca), e bene ha fatto il bravo giornalista Guido Harari a curare questa antologia del suo pensiero, pubblicata da Chiarelettere, Quando parla Gaber (pagg. 147, € 12,00) . Lo stesso autore ha pubblicato, sempre per la stessa casa Editrice, anche “l’autobiografia” del grande cantautore milanese dal titolo assai raffinato: Gaber.L’illogica Utopia.

Ora, con questo volume, continua la sua esplorazione dell’“universo” gaberiano. Lo fa prendendo in analisi il periodo intensissimo, in parallelo al suo “Teatro Canzone” fatto insieme al suo grande amico Sergio Luporini, che va dal 1970 al 2002. Sono un periodo “infinito” per la storia sociale, politica e morale dell’Italia. Trentadue anni in cui il nostro Paese ha vissuto, in maniera drammatica, le stagioni dell’impegno, delle grandi lotti sociali, del decadimento delle “utopie”, del riflusso e infine dell’individualismo radicale di stampo berlusconiano.

Queste stagioni Gaber le ha attraversate senza ipocrisie, cercando con i suoi paradossi, le sue canzoni di proporre un “nuovo umanesimo” alla società italiana. E questo ha fatto sì che in lui si rispecchiasse quella fetta, importante, dell’Italia inquieta che non voleva, e non vuole, rassegnarsi ad un futuro fatto di mediocrità consumista.

Il curatore, nella sua prefazione, scrive che questo libro “va usato come una specie di ‘breviario irreligioso’, per ritrovare sani dubbi e abbandonare false certezze, per uscire dall’anestesia da cui l’Italia pare non voler destarsi”. Si è così questo è un “breviario” (perché poi definirlo irreligioso?) , da “ruminare” nei momenti della quotidianità in cui siamo in preda alla noia.

“Perché odiate per frustrazione e non per scelta? Perché spargete così male la rabbia che vi consuma? Perché vi rassegnate a questa vita mediocre, senza l’ombra di un desiderio, di uno slancio, di una proposta qualsiasi?”. Ecco quello di Gaber non è sterile “contemplazione” dell’esistente ma un lucido richiamo all’azione senza dogmatismi, certo, ma sempre proiettato verso il futuro: “Sono uno che ci crede ancora. Non so bene in cosa, ma credo. E sono malato di conoscenza, di voglia di cambiare le cose.

Di credere che sia possibile vivere in modo non imbecille. E non è detto che gli anni della speranza non ritornino”. Gaber, quindi, è contro la dittatura della stupidità sapendo perfettamente che “adesso è forse più difficile sembrare controcorrente, ma solo perché oggi non c’è nessuna corrente”.

Eppure la sua “santa” anarchia si scagliava contro il nichilismo consumistico, senza sconti : “Per molti aspetti sono gli oggetti che sono saliti al potere e questa ascesa ci trasforma in ‘barbari’”.

Anche sugli italiani ha una sua idea:” “Secondo me, gli italiani e l’Italia hanno sempre avuto un rapporto conflittuale. La colpa non è certo degli italiani ma dell’Italia che ha sempre avuto dei governi con uomini incapaci, deboli, arroganti, opportunisti, troppo spesso ladri, e in passato, a volte, addirittura assassini.

Eppure, gli italiani, non si sa con quale miracolo, sono riusciti a rendere questo Paese accettabile, vivibile, addirittura allegro. Complimenti!”. Insomma come si vede Gaber graffia ancora. I suoi interrogativi e il suo pensiero fotografano l’Italia di ieri e anticipano quella vuota di oggi del berlusconismo (“Io non ho paura di Berlusconi in sè, ho paura di Berlusconi in me”) . Sapendo “che c’è una fine per tutto. E non è detto che sia sempre la morte”.

C’è speranza per l’Italia? Intervista a Romano Prodi

Romano Prodi sta andando a Shangai dove, periodicamente, tiene corsi di Economia Industriale in quella Università. Lo prendiamo mentre si sta imbarcando per la Cina. Sono rapide ma puntuali considerazioni sull’Italia e sull’Europa.

Presidente Prodi, L’arresto, per stupro, di Dominique Straus-Kahn getta il Fmi in una grave crisi. Quali saranno le conseguenze per l’Europa nel breve periodo?

Naturalmente è chiaro che ogni giudizio va sospeso fino a che non abbiamo tutti gli aspetti chiari della vicenda. Gli osservatori di tutti i paesi pensano che la vita politica sia finita, e se questo è, certamente si è perduto un uomo politico di una straordinaria intelligenza. Straus-Kahn conosceva e conosce le cose ed è una vera mancanza per il Fmi e per l’Europa però nulla si può dire, perché troppo recenti sono gli avvenimenti che sono accaduti.

Professore, la scorsa settimana l’Ufficio Centrale di Statistica della Germania ha reso noto che quest’anno il Pil tedesco crescerà del 4,9%. Un dato impressionante, visto che la crisi mondiale è ancora in atto. In Italia, ad essere ottimisti, forse riusciremo ad arrivare ad una crescita dell’1 %. Qual’ è il “segreto” del successo tedesco?

Se uno va ad analizzare dove si concentra il grande sviluppo tedesco vede che è la manifatturiera; vede che sono prodotti di alto livello d’impresa, di alta gamma, di alta raffinatezza, prodotti in cui è stato applicato un fortissimo aumento di produttività negli ultimi anni. In poche parole la Germania lavora sul futuro e riorganizza il suo passato, cambiando le strutture e i modi di lavoro, non con una mobilità selvaggia, ma una mobilità che, soprattutto all’interno dell’impresa, si realizza attraverso una ristrutturazione del lavoratore stesso, attraverso corsi di formazione,attraverso una riorganizzazione dei modi di operare, cioè guardando avanti. Si utilizzano le risorse esistenti, quelle del passato ma le si portano verso il futuro. Questo è il segreto della Germania: ricerca, innovazione, scuola, mobilità, con garanzie per il lavoratore.

Lei, per ragioni di lavoro, viaggia spessissimo (dagli Usa alla Cina). Che immagine hanno dell’Italia i suoi interlocutori?

L’Italia è sempre meno interlocutore, è un’Italia che è ripiegata al suo interno, un paese che non è stato protagonista nemmeno nelle vicende del Mediterraneo degli ultimi mesi: è difficile che possa essere interlocutore con l’Asia. Il problema del nostro provincialismo è uno dei pesi del nostro futuro. l’Italia ha un avvenire solo aprendosi al mondo con coraggio, senza avere paura: quando l’Italia si guarda all’ombelico è finita.

Parliamo del PD.  È pronto per l’alternativa?

Il PD è l’unica alternativa, nel senso che solo il PD può prendere l’iniziativa di riorganizzare in modo vincente le forze dell’opposizione.

L’Europa in questo periodo non ha dato una bella immagine di sé (dall’immigrazione alla politica estera). E’ ancora valido il sogno europeo?

L’Europa è l’unica nostra speranza: nel mondo globalizzato non abbiamo alternative, andando separati siamo finiti, come successe agli stati italiani nel rinascimento, separati perdiamo il nostro primato. Però debbo dire che non vedo leader europei che abbiano nella loro testa come problema principale  di agire come europei e non come leader nazionali.

Allora c’è speranza per l’Italia?

C’è sempre speranza per i Paesi: le persone muoiono, i Paesi no. Il problema è che c’è speranza solo se si capisce che bisogna lavorare insieme per fare un salto in avanti, cioè, di fronte ad una gestione politica che guarda agli interessi propri e non a quelli del paese, di speranze ce ne sono poche se non si cambia ritmo, direzione.

Gli anni di piombo. Intervista a Gian Carlo Caselli

Oggi al Quirinale si celebra la Giornata della Memoria delle vittime del  terrorismo, quest’anno è dedicata ai 10 magistrati uccisi tra il 1976 e il 1980. Degli anni di piombo, del ruolo determinante della Magistratura italiana nella lotta al terrorismo ne parliamo con il Procuratore Capo della Repubblica di Torino Gian Carlo Caselli ( infatti dalla metà degli anni settanta sino alla metà degli anni ottanta, ha trattato, come giudice istruttore, reati di terrorismo riguardanti le Brigate Rosse e Prima Linea). Caselli, come si sa, è stato anche Procuratore Capo a Palermo. Due impegni contro il terrorismo e la mafia che fanno di lui un protagonista e testimone autorevole della lotta dello Stato contro queste gravissime forme di criminalità.

Procuratore Caselli, lei è stato un protagonista nella lotta al terrorismo. Da diversi anni, in Italia, la ricerca storica sta affrontando quel periodo buio per la nostra società. E questo non può che far bene per consolidare la nostra memoria. Pensa che nel nostro Paese sia consolidata questa memoria?

Penso che questa memoria sia ancora in fase di consolidamento. Per lunghi anni vi è stata una specie di rimozione, se non proprio di amnesia, degli anni di piombo. È  stata la stagione durante la quale a parlarne erano soltanto i terroristi, che offrivano una visione a dir poco parziale, deformata dei fatti. C’è voluta la tenacia dei familiari delle vittime che hanno saputo trasformare il loro dolore da fatto privato in testimonianza pubblica, per recuperare la memoria e questo recupero, con la giornata del nove maggio, vive un momento importante da sviluppare e  da consolidare.

Andando a quegli anni, ci sono stati innumerevoli processi che hanno portato alla condanna di terroristi sia di destra che di sinistra.  Lei pensa che ormai “tutto” ci sia chiarito oppure ci sono ancora zone d’ombra nella ricerca della verità su quel periodo? Se si quali?

Debbo premettere che io mi sono occupato soltanto di terrorismo cosiddetto  di sinistra,  Brigate Rosse e Prima Linea; ma anche in questo ambito è mia abitudine, del resto si tratta più che di una abitudine, di una specie di DNA del magistrato, parlare solo dei fatti che ho potuto constatare, vedere come sufficientemente riscontrati.  Le ipotesi sociopolitiche, le dietrologie, che sono esercizi di analisi spesso importanti, non appartengono a me in quanto magistrato, appartengono ad altri: al giornalista d’inchiesta, al sociologo, al politologo, allo storico. Mi fermo a questa constatazione

Quanto è stata determinante la posizione internazionale dell’Italia nello scatenarsi del fenomeno terroristico?

Posso dire soltanto che le manifestazioni criminali terroristiche, il terrorismo in generale, hanno costituito il “piatto sporco” in cui molti hanno cercato di mettere le mani o hanno messo davvero le mani. Molti anche diversi fra loro, per quanto riguarda le Brigate Rosse, per esempio, si è parlato, ipotizzato di CIA con specificazione di Servizi israeliani, o KGB con specificazione servizi cecoslovacchi o di servizi palestinesi. Questo “piatto sporco” nel quali alcuni possono aver avuto la tentazione, o più che la tentazione, di metterci le mani, certo la posizione geografica del nostro Paese può aver avuto il suo ruolo.

Il 9 maggio del 1978 le BR assassinarono Aldo Moro. Quella data segna lo spartiacque per l’Italia. Il martirio di Moro resta ancora sullo sfondo della nostra storia politica. Ci siamo riconciliati con Aldo Moro?

La riconciliazione con Aldo Moro, temo, non sia ancora definitiva e voglio citare un libro recentissimo di Miguel Gottor, “Il Memoriale della Repubblica” (pubblicato dalla Casa editrice Einaudi) che torna sul problema del “memoriale” di Moro. Memoriale scritto da Aldo Moro durante la prigionia cui fu costretto dalle B.R . I punti interrogativi che suscita in maniera documentata, scientifica, questo libro sono tanti, e per una riconciliazione definitiva occorrerebbe che almeno alcuni  di questi interrogativi trovassero adeguate risposte.

La magistratura è stata una protagonista fondamentale nella lotta al terrorismo. Se l’Italia non ha conosciuto derive antidemocratiche nella lotta al terrorismo lo si deve anche al grande impegno dei magistrati. Qual’è stato, nel suo impegno personale, il valore  più forte che la guidava?

Si, la magistratura è stata co-protagonista della lotta al terrorismo. Rivendico, orgogliosamente, forse presuntuosamente, essendo stato piccola parte di questo processo, il merito della magistratura italiana di aver saputo con fatica, con alti e bassi, con difficoltà contribuire a sconfiggere il terrorismo nell’assoluto rispetto delle regole dello stato di diritto e persino della identità politica degli imputati. Torino: processo ai capi storici delle BR, agli imputati viene consentito di controinterrogare le loro vittime in particolare il magistrato Sossi che era stato sequestrato da loro. Rispetto delle regole processuali e rispetto, ripeto, della identità politica degli  imputati. Il massimo dei massimi. Soltanto il nostro Paese è riuscito, nel panorama mondiale, a sconfiggere il terrorismo senza mai rinunziare a questi principi. Ma la magistratura è stata co-protagonista, un altro protagonista, di fondamentale importanza, è stato il popolo italiano, che, anch’esso dopo momenti di difficoltà, superando l’iniziale incertezza, ad un certo punto ha capito che il terrorismo era nemico non solo delle vittime colpite ma di tutti, delle libertà e dei diritti di tutti e ha progressivamente sempre più e alla fine irreversibilmente isolato politicamente i terroristi, che in questo modo sono entrati in crisi. Entrando in crisi hanno finito di credere o di sperare di essere le avanguardie di qualcuno e hanno cominciato a sfaldarsi, questa linea di pentimenti e poi di dissociazioni nasce anche da qui.  Quanto al valore che guidava me e gli altri magistrati, la risposta senza retorica è: la fedeltà alla Costituzione, la fedeltà alla democrazia, la necessità di contribuire, per quanto di nostra competenza, alla difesa della democrazia e alla riconferma dei valori della Costituzione.

Nel giorno della memoria, però, non si può dimenticare il presente. Le chiedo: può una democrazia matura sopportare quotidiane offese alla magistratura (fino a parlare di “brigatismo” giudiziario)?

Queste offese sono insopportabili, di più sono oscene dovrebbero vergognarsi i mandanti,  gli esecutori, i complici e gli utilizzatori finali di questi manifesti. E con loro dovrebbero vergognarsi quanti restano indifferenti, impassibili di fronte ad un fatto ripugnante che però nella giornata del nove maggio merita non più di un accenno per non correre il rischio di guastare la purezza del ricordo,  che questa giornata rappresenta.

Ultima domanda: Della nostra Costituzione cosa salverebbe?

Della nostra Costituzione credo che debba essere salvato il metodo con cui ci si è arrivati. Voglio citare uno dei Padri Costituenti, Calamandrei, il quale ha scritto che sotto questa Costituzione ci sono tre firme che sono un simbolo: De Nicola, Terracini, De Gasperi. Tre nomi, tre idee, tre concezioni che costituiscono le correnti più importanti del nostro Paese. Cosa vuol dire?  Vuol dire che intorno a questo statuto si è formato il consenso dell’intero popolo italiano, di tutti. Questo è il valore fondamentale della nostra Costituzione. Non è l’imposizione di qualcuno sugli altri a colpi di maggioranza, è il consenso, lo ripeto, di tutti. E poi salverei, chi non lo fa non conosce la Costituzione o come dire “trucca le carte”,la struttura stessa della Costituzione. Che si può leggere in tanti modi, uno di questi è il catalogo di diritti ma accanto la previsione di strumenti per la tutela effettiva di questi diritti, la traduzione di questi diritti in realtà viva, vera. Prendiamo il diritto alla salute, se esso è presidiato dalla magistratura autonoma e indipendente che non ha timore reverenziale nei confronti di nessuno se non la legge, ecco che possono esservi processi come sulla Tissen, sulla Eternit che sono, quale che ne sia l’esito definitivo, segnali importanti di una tutela effettiva sul versante della sicurezza e della salute sui posti di lavoro in attuazione dei principi della Costituzione ad opera di una magistratura autonoma ed indipendente.

“Giovanni Paolo II è stato un carismatico innovatore”.

Intervista ad Andrea Riccardi.

Da ieri Giovanni-Paolo II è beato. Per la Chiesa Cattolica si tratta di un avvenimento importantissimo. Sul piano storico, ovvero sui molteplici della storia (religiosa e geopolitica) l’avvenimento farà ancora discutere l’opinione pubblica italiana e mondiale. Al di là delle discussioni, tante, che ha scatenato questa beatificazione, si tratta di cogliere in profondità l’eredità di Papa Wojtyla per il cattolicesimo contemporaneo. E’quello che abbiamo cercato di fare con il prof. Andrea Riccardi. Riccardi è storico del Cristianesimo ed è il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, una delle realtà più importanti del cattolicesimo italiano ed europeo. L’ultima sua fatica è una biografia su Giovanni-Paolo II pubblicata dall’Edizioni San Paolo.

Professor Riccardi, dalla lettura della sua biografia su “Giovanni-Paolo II” emerge un profilo complesso della figura del Papa. Una figura, lei scrive, poco inquadrabile sia nella categoria dei progressisti sia in quella dei conservatori. Dove si può cogliere maggiormente, perdoni il termine, il “riformismo” di Wojtyla?

Wojtyla non fu un riformatore in senso stretto, ma fu un carismatico innovatore. Non c’è in lui nemmeno l’idea di un programma dominante da realizzare; “la linea del papa è la fede” disse a Belluno, dove andò ad onorare Giovanni Paolo I. Risposta semplicistica? Ma con gli anni se ne è vista la portata! Paolo VI aveva cercato di realizzare una profonda riforma del governo della Chiesa: la sua riforma della Curia aveva inteso modernizzare il governo vaticano. Al contrario, alla complessità dei problemi della vita della Chiesa Giovanni Paolo II risponde non solo e non tanto con il governo, ma con altri aspetti del suo ministero, come l’insegnamento, la liturgia, i viaggi, con un governo “carismatico”, come l’ho definito. E le novità che introdusse furono dirompenti. Voleva dare alla Chiesa qualcosa di più ampio del governo ordinario.

Veniamo al rapporto “Chiesa e modernità”. Tutti sanno il grande cammino della Chiesa cattolica nel XX secolo per cercare, con il Concilio Vaticano II, di aprire un dialogo con le istanze profonde della modernità. In questo il documento “Gaudium et Spes” è fondamentale. Quale è, secondo lei, l’originalità della lettura wojtyliana, lui di formazione fenomenologica, della modernità?

Un’analisi del rapporto di Wojtyla con la modernità non può non cominciare dai grandi mali del Novecento: nazismo, comunismo e totalitarismi tutti. E’ una visione aderente alla biografia di Wojtyla: quella di un polacco, figlio di un’Europa considerata periferica, che ha attraversato per intero i grandi drammi del secolo scorso. Certo Giovanni Paolo II conosceva benissimo la filosofia occidentale, ma non ne era stato del tutto impregnato, lui così innestato invece sull’humus slavo. Per definire la Chiesa di Wojtyla ho parlato anni fa di intransigenza e modernità: le due espressioni in lui si tengono e, in una certa misura, si compongono. Il cristianesimo non deve necessariamente adattarsi al sentire “moderno”; pensiamo all’inappellabile condanna dell’aborto. Tuttavia, non si può rinunciare allo spirito di incontro e di confronto, alle grandi aperture verso gli uomini, insomma alla “simpatia” che scaturisce dalla Chiesa del Concilio.

Giovanni-Paolo II è stato il Papa che ha, per certi versi, rilanciato la dottrina sociale della Chiesa. Ovvero una visione non ideologica dell’insegnamento sociale. “La dottrina sociale della Chiesa è teologia morale”, scriveva in una sua enciclica il Papa. Affermazione assai notevole. Eppure nel confronto-scontro con i teologi della liberazione l’impressione che si aveva era quella di una contrapposizione senza possibilità di una mediazione. Non è stato questo un errore di Giovanni Paolo II?

No, affatto. Io credo che riposizionare al centro del pensiero cristiano la dottrina sociale della Chiesa sia stato un fatto decisivo. Il papa non ha fatto sconti al comunismo ed è ben noto. Tuttavia ricordo bene che a Castel Gandolfo, eravamo agli inizi del suo pontificato, nel 1980, mi disse: “Non si può dire che io non abbia gli anticorpi nei confronti del regime comunista. Eppure più conosco l’Occidente e più io resto perplesso”. C’è una “terzietà” wojtyliana tra anticomunismo e anticapitalismo molto esplicita. Lo sarà sempre di più dopo l’Ottantanove. La sua critica al capitalismo consumistico non è stata meno spietata di quella rivolta al marxismo. La Chiesa di Wojtyla non accetta il sistema marxista, ma non è certo appiattita sul capitalismo. Per lui la dottrina sociale della Chiesa, su cui scrive ben tre encicliche, deve essere un’istanza critica nei confronti dei due sistemi economici vigenti e non un’utopica terza via. Wojtyla è convinto che la Chiesa, “esperta di umanità” – come diceva papa Montini – abbia una larga esperienza storica e sociale, e visioni maturate nel tempo, da proporre. Quanto alla teologia della liberazione, le due istruzioni della congregazione per la dottrina della fede, nel 1984 e nel 1986, hanno una duplice funzione: la prima intende limitare l’influenza del marxismo sulla teologia cristiana, la seconda affermare il valore della liberazione per il cristianesimo. Corrispondono a due preoccupazioni fondamentali di Wojtyla. Non va sottovalutata la seconda perché, nel pensiero di Giovanni Paolo II, la Chiesa ha un messaggio di liberazione da proporre a tutti come vera liberazione dell’uomo.

Quali sono gli elementi principali, secondo Wojtyla, della liberazione umana?

Wojtyla sente che il cristianesimo è una grande forza di cambiamento del mondo e di liberazione umana. Ma è una forza “debole”, perché ripudia la violenza e si serve della mitezza, della via del cuore. L’uomo è la via della Chiesa afferma Giovanni Paolo II con la sua prima enciclica, la Redemptor hominis. La libertà religiosa è centrale in questo processo di liberazione umana. Ma non solo. “Nell’argomentare wojtyliano – nota il cardinale Etchegaray – la ‘libertà’ è parola-chiave, ma mai disgiunta dal riconoscimento della ‘verità’ e della ‘solidarietà’. Il papa è molto sensibile al tema della liberazione degli oppressi, ma intende proporre un percorso di liberazione opposto a quello ispirato dal marxismo. E poi ribadisce che il primo compito della Chiesa non è la liberazione politica, ma creare uomini liberi.

Una frontiera importante di Giovanni Paolo II è stata quella del dialogo interreligioso. La visita alla Sinagoga di Roma, l’incontro di Assisi tra i leader mondiali delle religioni, insieme ad altri episodi, restano come due “gemme” del pontificato wojtyliano. Continuerà, nella Chiesa, questa “estroversione” di Karol Wojtyla?

Sono due “gemme”, come dice lei; ma non isolate. Anzi, esse si incastonano in un disegno complessivo, storico, di amicizia e di dialogo, fortemente voluto da papa Wojtyla anche se non da lui iniziato (non si possono dimenticare i primi gesti di apertura in questo senso dei due papi del Concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI). Oggi questo disegno è stato confermato dal suo successore. Basti solo ricordare la recente visita di Benedetto XVI alla comunità ebraica romana o la sua decisione di commemorare con solennità il venticinquesimo anniversario della giornata di Assisi, con un nuovo incontro mondiale di preghiera per la pace, a cui saranno invitati di nuovo i leader delle grandi religioni, sempre ad Assisi. Del resto, in tutti questi anni, sia Giovanni Paolo II che papa Ratzinger hanno costantemente incoraggiato la Comunità di Sant’Egidio a proseguire il cammino di dialogo interreligioso iniziato nella città umbra. Proprio a Napoli, in una di queste tappe nel 2007, Benedetto XVI presente all’incontro, affermò: “La Chiesa cattolica intende continuare a percorrere la strada del dialogo per favorire l’intesa fra le diverse culture, tradizioni e sapienze religiose. Auspico vivamente che questo spirito si diffonda sempre più soprattutto là dove più forti sono le tensioni, là dove la libertà e il rispetto per l’altro vengono negati e uomini e donne soffrono per le conseguenze dell’intolleranza e dell’incomprensione”. Questa “estroversione” non si è fermata nella Chiesa.

Wojtyla e l’Italia. Cosa lascia in eredità ai cattolici italiani il Pontificato di Giovanni-Paolo II?

Le affido un ricordo inedito, risale ai primi anni Novanta, era d’estate ed eravamo a Castel Gandolfo, in piena bagarre sulla secessione. E lui, con i pugni sul tavolo, sbottò: “ma qui, chi difende l’unità d’Italia se non lo fa questo Papa vecchio e straniero?” Il primo papa non italiano dopo quattrocento anni si immerge presto nella realtà italiana – come afferma – “con un particolare rispetto e con un’attenzione piena di raccoglimento”. Lo si vede dai primi passi rispettosi, cauti, caratterizzati dall’ascolto. Cerca di cogliere a fondo la tradizione spirituale italiana, visitando i santuari e, in modo incessante, le città e le diocesi. Ne incontra i problemi e da subito comincia a chiamare l’Italia “seconda patria”. Sente la responsabilità, quale vescovo di Roma e primate d’Italia, di ravvivare con decisione la fede degli italiani. A suo parere, vanno richiamate le radici storiche del cristianesimo italiano e occorre impegnarsi per una nuova presenza nella società. Nel cuore della crisi degli anni Novanta, proprio nel 1994, il papa indice una “grande preghiera” per l’Italia: “Se la società italiana deve profondamente rinnovarsi, purificandosi dai reciproci sospetti e guardando con fiducia verso il suo futuro, allora è necessario che tutti i credenti si mobilitino mediante la comune preghiera”. Nella lettera ai vescovi italiani sulle responsabilità dei cattolici, che precedeva di due mesi l’iniziativa della preghiera, scrive: “Sono convinto che l’Italia come nazione ha moltissimo da offrire a tutta l’Europa”. Questo papa polacco ha amato l’Italia e ne ha difeso l’unità di destino. Oggi che il nostro paese appare rinserrato nelle sue frontiere, impaurito, aggressivo, sarebbe utile non dimenticare la lezione di Giovanni Paolo II, per il quale senza una coscienza sociale non c’è una comunità nazionale.