Intervista ad Andrea Riccardi.
Da ieri Giovanni-Paolo II è beato. Per la Chiesa Cattolica si tratta di un avvenimento importantissimo. Sul piano storico, ovvero sui molteplici della storia (religiosa e geopolitica) l’avvenimento farà ancora discutere l’opinione pubblica italiana e mondiale. Al di là delle discussioni, tante, che ha scatenato questa beatificazione, si tratta di cogliere in profondità l’eredità di Papa Wojtyla per il cattolicesimo contemporaneo. E’quello che abbiamo cercato di fare con il prof. Andrea Riccardi. Riccardi è storico del Cristianesimo ed è il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, una delle realtà più importanti del cattolicesimo italiano ed europeo. L’ultima sua fatica è una biografia su Giovanni-Paolo II pubblicata dall’Edizioni San Paolo.
Professor Riccardi, dalla lettura della sua biografia su “Giovanni-Paolo II” emerge un profilo complesso della figura del Papa. Una figura, lei scrive, poco inquadrabile sia nella categoria dei progressisti sia in quella dei conservatori. Dove si può cogliere maggiormente, perdoni il termine, il “riformismo” di Wojtyla?
Wojtyla non fu un riformatore in senso stretto, ma fu un carismatico innovatore. Non c’è in lui nemmeno l’idea di un programma dominante da realizzare; “la linea del papa è la fede” disse a Belluno, dove andò ad onorare Giovanni Paolo I. Risposta semplicistica? Ma con gli anni se ne è vista la portata! Paolo VI aveva cercato di realizzare una profonda riforma del governo della Chiesa: la sua riforma della Curia aveva inteso modernizzare il governo vaticano. Al contrario, alla complessità dei problemi della vita della Chiesa Giovanni Paolo II risponde non solo e non tanto con il governo, ma con altri aspetti del suo ministero, come l’insegnamento, la liturgia, i viaggi, con un governo “carismatico”, come l’ho definito. E le novità che introdusse furono dirompenti. Voleva dare alla Chiesa qualcosa di più ampio del governo ordinario.
Veniamo al rapporto “Chiesa e modernità”. Tutti sanno il grande cammino della Chiesa cattolica nel XX secolo per cercare, con il Concilio Vaticano II, di aprire un dialogo con le istanze profonde della modernità. In questo il documento “Gaudium et Spes” è fondamentale. Quale è, secondo lei, l’originalità della lettura wojtyliana, lui di formazione fenomenologica, della modernità?
Un’analisi del rapporto di Wojtyla con la modernità non può non cominciare dai grandi mali del Novecento: nazismo, comunismo e totalitarismi tutti. E’ una visione aderente alla biografia di Wojtyla: quella di un polacco, figlio di un’Europa considerata periferica, che ha attraversato per intero i grandi drammi del secolo scorso. Certo Giovanni Paolo II conosceva benissimo la filosofia occidentale, ma non ne era stato del tutto impregnato, lui così innestato invece sull’humus slavo. Per definire la Chiesa di Wojtyla ho parlato anni fa di intransigenza e modernità: le due espressioni in lui si tengono e, in una certa misura, si compongono. Il cristianesimo non deve necessariamente adattarsi al sentire “moderno”; pensiamo all’inappellabile condanna dell’aborto. Tuttavia, non si può rinunciare allo spirito di incontro e di confronto, alle grandi aperture verso gli uomini, insomma alla “simpatia” che scaturisce dalla Chiesa del Concilio.
Giovanni-Paolo II è stato il Papa che ha, per certi versi, rilanciato la dottrina sociale della Chiesa. Ovvero una visione non ideologica dell’insegnamento sociale. “La dottrina sociale della Chiesa è teologia morale”, scriveva in una sua enciclica il Papa. Affermazione assai notevole. Eppure nel confronto-scontro con i teologi della liberazione l’impressione che si aveva era quella di una contrapposizione senza possibilità di una mediazione. Non è stato questo un errore di Giovanni Paolo II?
No, affatto. Io credo che riposizionare al centro del pensiero cristiano la dottrina sociale della Chiesa sia stato un fatto decisivo. Il papa non ha fatto sconti al comunismo ed è ben noto. Tuttavia ricordo bene che a Castel Gandolfo, eravamo agli inizi del suo pontificato, nel 1980, mi disse: “Non si può dire che io non abbia gli anticorpi nei confronti del regime comunista. Eppure più conosco l’Occidente e più io resto perplesso”. C’è una “terzietà” wojtyliana tra anticomunismo e anticapitalismo molto esplicita. Lo sarà sempre di più dopo l’Ottantanove. La sua critica al capitalismo consumistico non è stata meno spietata di quella rivolta al marxismo. La Chiesa di Wojtyla non accetta il sistema marxista, ma non è certo appiattita sul capitalismo. Per lui la dottrina sociale della Chiesa, su cui scrive ben tre encicliche, deve essere un’istanza critica nei confronti dei due sistemi economici vigenti e non un’utopica terza via. Wojtyla è convinto che la Chiesa, “esperta di umanità” – come diceva papa Montini – abbia una larga esperienza storica e sociale, e visioni maturate nel tempo, da proporre. Quanto alla teologia della liberazione, le due istruzioni della congregazione per la dottrina della fede, nel 1984 e nel 1986, hanno una duplice funzione: la prima intende limitare l’influenza del marxismo sulla teologia cristiana, la seconda affermare il valore della liberazione per il cristianesimo. Corrispondono a due preoccupazioni fondamentali di Wojtyla. Non va sottovalutata la seconda perché, nel pensiero di Giovanni Paolo II, la Chiesa ha un messaggio di liberazione da proporre a tutti come vera liberazione dell’uomo.
Quali sono gli elementi principali, secondo Wojtyla, della liberazione umana?
Wojtyla sente che il cristianesimo è una grande forza di cambiamento del mondo e di liberazione umana. Ma è una forza “debole”, perché ripudia la violenza e si serve della mitezza, della via del cuore. L’uomo è la via della Chiesa afferma Giovanni Paolo II con la sua prima enciclica, la Redemptor hominis. La libertà religiosa è centrale in questo processo di liberazione umana. Ma non solo. “Nell’argomentare wojtyliano – nota il cardinale Etchegaray – la ‘libertà’ è parola-chiave, ma mai disgiunta dal riconoscimento della ‘verità’ e della ‘solidarietà’. Il papa è molto sensibile al tema della liberazione degli oppressi, ma intende proporre un percorso di liberazione opposto a quello ispirato dal marxismo. E poi ribadisce che il primo compito della Chiesa non è la liberazione politica, ma creare uomini liberi.
Una frontiera importante di Giovanni Paolo II è stata quella del dialogo interreligioso. La visita alla Sinagoga di Roma, l’incontro di Assisi tra i leader mondiali delle religioni, insieme ad altri episodi, restano come due “gemme” del pontificato wojtyliano. Continuerà, nella Chiesa, questa “estroversione” di Karol Wojtyla?
Sono due “gemme”, come dice lei; ma non isolate. Anzi, esse si incastonano in un disegno complessivo, storico, di amicizia e di dialogo, fortemente voluto da papa Wojtyla anche se non da lui iniziato (non si possono dimenticare i primi gesti di apertura in questo senso dei due papi del Concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI). Oggi questo disegno è stato confermato dal suo successore. Basti solo ricordare la recente visita di Benedetto XVI alla comunità ebraica romana o la sua decisione di commemorare con solennità il venticinquesimo anniversario della giornata di Assisi, con un nuovo incontro mondiale di preghiera per la pace, a cui saranno invitati di nuovo i leader delle grandi religioni, sempre ad Assisi. Del resto, in tutti questi anni, sia Giovanni Paolo II che papa Ratzinger hanno costantemente incoraggiato la Comunità di Sant’Egidio a proseguire il cammino di dialogo interreligioso iniziato nella città umbra. Proprio a Napoli, in una di queste tappe nel 2007, Benedetto XVI presente all’incontro, affermò: “La Chiesa cattolica intende continuare a percorrere la strada del dialogo per favorire l’intesa fra le diverse culture, tradizioni e sapienze religiose. Auspico vivamente che questo spirito si diffonda sempre più soprattutto là dove più forti sono le tensioni, là dove la libertà e il rispetto per l’altro vengono negati e uomini e donne soffrono per le conseguenze dell’intolleranza e dell’incomprensione”. Questa “estroversione” non si è fermata nella Chiesa.
Wojtyla e l’Italia. Cosa lascia in eredità ai cattolici italiani il Pontificato di Giovanni-Paolo II?
Le affido un ricordo inedito, risale ai primi anni Novanta, era d’estate ed eravamo a Castel Gandolfo, in piena bagarre sulla secessione. E lui, con i pugni sul tavolo, sbottò: “ma qui, chi difende l’unità d’Italia se non lo fa questo Papa vecchio e straniero?” Il primo papa non italiano dopo quattrocento anni si immerge presto nella realtà italiana – come afferma – “con un particolare rispetto e con un’attenzione piena di raccoglimento”. Lo si vede dai primi passi rispettosi, cauti, caratterizzati dall’ascolto. Cerca di cogliere a fondo la tradizione spirituale italiana, visitando i santuari e, in modo incessante, le città e le diocesi. Ne incontra i problemi e da subito comincia a chiamare l’Italia “seconda patria”. Sente la responsabilità, quale vescovo di Roma e primate d’Italia, di ravvivare con decisione la fede degli italiani. A suo parere, vanno richiamate le radici storiche del cristianesimo italiano e occorre impegnarsi per una nuova presenza nella società. Nel cuore della crisi degli anni Novanta, proprio nel 1994, il papa indice una “grande preghiera” per l’Italia: “Se la società italiana deve profondamente rinnovarsi, purificandosi dai reciproci sospetti e guardando con fiducia verso il suo futuro, allora è necessario che tutti i credenti si mobilitino mediante la comune preghiera”. Nella lettera ai vescovi italiani sulle responsabilità dei cattolici, che precedeva di due mesi l’iniziativa della preghiera, scrive: “Sono convinto che l’Italia come nazione ha moltissimo da offrire a tutta l’Europa”. Questo papa polacco ha amato l’Italia e ne ha difeso l’unità di destino. Oggi che il nostro paese appare rinserrato nelle sue frontiere, impaurito, aggressivo, sarebbe utile non dimenticare la lezione di Giovanni Paolo II, per il quale senza una coscienza sociale non c’è una comunità nazionale.