Leggendo Gaber…

Sono passati più di otto anni dalla sua morte, avvenuta il 1 gennaio del 2003 a Camaiore (in provincia di Lucca), e bene ha fatto il bravo giornalista Guido Harari a curare questa antologia del suo pensiero, pubblicata da Chiarelettere, Quando parla Gaber (pagg. 147, € 12,00) . Lo stesso autore ha pubblicato, sempre per la stessa casa Editrice, anche “l’autobiografia” del grande cantautore milanese dal titolo assai raffinato: Gaber.L’illogica Utopia.

Ora, con questo volume, continua la sua esplorazione dell’“universo” gaberiano. Lo fa prendendo in analisi il periodo intensissimo, in parallelo al suo “Teatro Canzone” fatto insieme al suo grande amico Sergio Luporini, che va dal 1970 al 2002. Sono un periodo “infinito” per la storia sociale, politica e morale dell’Italia. Trentadue anni in cui il nostro Paese ha vissuto, in maniera drammatica, le stagioni dell’impegno, delle grandi lotti sociali, del decadimento delle “utopie”, del riflusso e infine dell’individualismo radicale di stampo berlusconiano.

Queste stagioni Gaber le ha attraversate senza ipocrisie, cercando con i suoi paradossi, le sue canzoni di proporre un “nuovo umanesimo” alla società italiana. E questo ha fatto sì che in lui si rispecchiasse quella fetta, importante, dell’Italia inquieta che non voleva, e non vuole, rassegnarsi ad un futuro fatto di mediocrità consumista.

Il curatore, nella sua prefazione, scrive che questo libro “va usato come una specie di ‘breviario irreligioso’, per ritrovare sani dubbi e abbandonare false certezze, per uscire dall’anestesia da cui l’Italia pare non voler destarsi”. Si è così questo è un “breviario” (perché poi definirlo irreligioso?) , da “ruminare” nei momenti della quotidianità in cui siamo in preda alla noia.

“Perché odiate per frustrazione e non per scelta? Perché spargete così male la rabbia che vi consuma? Perché vi rassegnate a questa vita mediocre, senza l’ombra di un desiderio, di uno slancio, di una proposta qualsiasi?”. Ecco quello di Gaber non è sterile “contemplazione” dell’esistente ma un lucido richiamo all’azione senza dogmatismi, certo, ma sempre proiettato verso il futuro: “Sono uno che ci crede ancora. Non so bene in cosa, ma credo. E sono malato di conoscenza, di voglia di cambiare le cose.

Di credere che sia possibile vivere in modo non imbecille. E non è detto che gli anni della speranza non ritornino”. Gaber, quindi, è contro la dittatura della stupidità sapendo perfettamente che “adesso è forse più difficile sembrare controcorrente, ma solo perché oggi non c’è nessuna corrente”.

Eppure la sua “santa” anarchia si scagliava contro il nichilismo consumistico, senza sconti : “Per molti aspetti sono gli oggetti che sono saliti al potere e questa ascesa ci trasforma in ‘barbari’”.

Anche sugli italiani ha una sua idea:” “Secondo me, gli italiani e l’Italia hanno sempre avuto un rapporto conflittuale. La colpa non è certo degli italiani ma dell’Italia che ha sempre avuto dei governi con uomini incapaci, deboli, arroganti, opportunisti, troppo spesso ladri, e in passato, a volte, addirittura assassini.

Eppure, gli italiani, non si sa con quale miracolo, sono riusciti a rendere questo Paese accettabile, vivibile, addirittura allegro. Complimenti!”. Insomma come si vede Gaber graffia ancora. I suoi interrogativi e il suo pensiero fotografano l’Italia di ieri e anticipano quella vuota di oggi del berlusconismo (“Io non ho paura di Berlusconi in sè, ho paura di Berlusconi in me”) . Sapendo “che c’è una fine per tutto. E non è detto che sia sempre la morte”.