Vogliamo offrire ai lettori due riflessioni su un tema che divide, trasversalmente, la politica e l’opinione pubblica italiana: quello delle nozze gay. Oggi pubblichiamo l’intervista a Padre Luigi Lorenzetti, sacerdote dehoniano. Padre Lorenzetti è laureato in teologia, con specializzazione in teologia morale, alla Pontificia università S. Tommaso d’Aquino di Roma; è stato presidente dell’Associazione teologica italiana per lo studio della morale (Atism); insegna teologia morale allo Studio teologico S. Antonio di Bologna affiliato alla Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna; e all’Istituto superiore di scienze di Trento; dirige la Rivista di Teologia Morale; partecipa al comitato di direzione di Famiglia Oggi; collabora a riviste teologiche e a Famiglia Cristiana con la rubrica Il teologo. La sua è una posizione più attenta alle ragioni del magistero. Il secondo intervento, che pubblicheremo nei prossimi giorni, sarà quello di un altro esperto su una posizione di frontiera.
Alcuni fatti recenti (divisione tra cattolici e laici all’interno del PD sulle nozze gay, l’attacco della Curia milanese alla proposta del Sindaco Pisapia di istituire i registri delle “unioni civili”) hanno riportato al centro del dibattito la questione dei “diritti civili”. L’impressione che si ha è che in Italia, rispetto ad altre società europee, il tema susciti sempre una “guerra di religione”. Dove nasce questo atteggiamento polemico ?
L’atteggiamento polemico tra laici e cattolici in Italia, soprattutto da quando i problemi sulla famiglia e la vita sono entrati in parlamento, nasce da una serie di pregiudizi, da una parte e dall’altra, che impedisce di fare leggi giuste. Si pensi ai progetti di legge che sono fermi in parlamento, ad es., su fine vita (testamento biologico); le coppie di fatto.
I laici attribuiscono ai cattolici la pretesa di trascrivere la morale cattolica nelle leggi dello Stato. Ogni posizione, anche se sostenuta con argomentazioni del tutto razionali (non confessionali) viene identificata come questione di fede e, quindi, impertinente nell’ambito politico e legislativo laico e democratico.
I cattolici, a loro volta, attribuiscono ai laici di seguire una morale relativista e soggettivista; di sostenere diritti civili che tali non sono.
La contrapposizione conduce fatalmente allo scontro che azzera ogni confronto che può verificarsi soltanto nell’ascolto reciproco delle ragioni degli uni e degli altri. A rinforzo della contrapposizione c’è anche chi strumentalizza le posizioni ufficiali della Chiesa per uso e consumo del proprio partito o schieramento e come pretesto per opporsi all’avversario politico.
Se si esce delle sterili contrapposizioni ideologiche, si potrà individuare valori (diritti) comuni sui quali convergere per fare leggi giuste. Laicità significa indipendenza e autonomia rispetto a una determinata morale, ma non significa indifferenza o neutralità rispetto alla morale umana, fondata cioè sui valori (diritti) umani.
Ritiene la società italiana sufficientemente laica per intraprendere un cammino di riconoscimento almeno delle coppie di fatto?
Le coppie di fatto (o anche denominate unioni o convivenze libere) rappresentano un fenomeno che non può essere ignorato dalla società e, per essa, dallo Stato. Nel dibattito pubblico, che periodicamente ritorna in primo piano, emergono almeno tre proposte di regolamentazione.
Una proposta sostiene il riconoscimento giuridico. Si esige, cioè, che la società, accanto alle coppie sposate, riconosca giuridicamente le coppie non sposate. Come obiezione, tale proposta relativizza il bene (valore) del matrimonio, in quanto lo rende una delle possibili forme di convivenza.
Un’altra proposta mira ad aggiornare il codice di diritto civile con il prevedere una normativa che garantisca i diritti individuali delle persone che convivono, ad es., il diritto all’assistenza per malattia e ricovero, la reversibilità della pensione, la successione nel contratto di locazione, ecc. In altre parole, non si legalizza la coppia di fatto, ma i diritti individuali di coloro che convivono.
Un’altra proposta, infine, sostiene di attivare e garantire eventuali diritti che si originano nella convivenza che si protrae nel tempo.
Come valutazione complessiva, ad eccezione della prima, la seconda e la terza proposta hanno il merito di salvaguardare sia l’unicità della famiglia, fondata sul matrimonio, da un lato, come pure il riconoscimento degli eventuali diritti individuali delle persone che convivono dall’altro.
Si auspica che la questione non si risolva nella solita contrapposizione tra laici e cattolici che non conduce a nulla. L’obiettivo non è forse quello di riconoscere i diritti civili? O non è forse quella di introdurre, per legge, un’altra forma di convivenza?
E sulle Registrazione delle Coppie di fatto?
Nel vuoto legislativo, per provocare il legislatore a intervenire e per dare nel frattempo un qualche riconoscimento giuridico, alcuni Comuni attivano una registrazione delle coppie di fatto, eterosessuali e omosessuali, che garantisce l’accesso ai servizi sociali di competenza dei Comuni. Certo è più facile e sbrigativo aprire registri che impegnarsi seriamente, a cominciare dal territorio, per una decente politica del lavoro e dei servizi sociali, e rendere così effettivo e reale il diritto di formarsi una famiglia.
La registrazione incoraggia a iniziare e restare in una convivenza precaria; non stabilisce alcuna reciprocità tra società civile e coppia di fatto che può, in modo del tutto arbitrario, iscriversi e cancellarsi. È anche una questione di vocabolario: non è per niente pacifico parlare di famiglie al plurale. È necessario invece non confondere realtà diverse: una cosa è la famiglia, tutt’altra – con il rispetto e la comprensione più che dovuti – è la coppia di fatto.
Veniamo al nostro tema: Le nozze gay. E qui non si può non partire dalla omosessualità. Per il Magistero cattolico recente “L’inclinazione omosessuale, benché non sia in sé peccato [ …] deve essere considerata come oggettivamente disordinata». Mentre «Gli atti (rapporto sessuale) sono intrinsecamente disordinati» (Cf. Lettera della Congregazione della fede (1986), Cura pastorale delle persone omosessuali ,n. 3). Perché, dice il Magistero, sono atti che violano la legge naturale morale. Non è pesante per un credente gay (o una credente lesbica) sentirsi così definito? I gay e le lesbiche sono figli di un “dio minore”?
I gay e le lesbiche non sono figli e figlie di un dio minore. Sono figli e figlie dell’unico Dio, Padre di tutti, omosessuali o eterosessuali che siano. Non giova alla causa delle persone omosessuali equivocare il pensiero della Chiesa cattolica, che non è seconda a nessuno nel comprendere la condizione omosessuale e nel condannare, come antiumana e anticristiana, ogni forma di sopruso, ingiustizia e violenza che offende l’alta dignità della persona.
La «Chiesa _ si afferma nel Documento citato, al n. 16 _ rifiuta di considerare la persona puramente come un eterosessuale o un omosessuale e sottolinea che ognuno ha la stessa identità fondamentale: essere creatura e, per grazia, figlio di Dio, erede della vita eterna».
L’espressione «inclinazione oggettivamente disordinata», va interpretata nel suo vero significato. Con tale espressione si vuol dire che l’omosessualità non è una semplice variante della sessualità umana. Più precisamente, è un limite umano. Se la relazionalità umana, infatti, è al maschile/femminile, la chiusura affettiva nel proprio mondo maschile o femminile è un limite. Il soggetto certo non ne ha colpa, ma questo non toglie che sia oggettivamente un limite.
La persona omosessuale non è responsabile del’inclinazione omosessuale, è tuttavia libero-responsabile del comportamento (atto) sessuale. Secondo il pensiero cattolico, il rapporto sessuale è moralmente disapprovato («intrinsecamente disordinato») perché è staccato dal duplice e inscindibile significato: procreativo e unitivo.
Per il Magistero non c’è solo la Tradizione e la teologia speculativa, c’è anche la Parola. Ovvero l’Antico Testamento (gli episodi di Sodoma e Gomorra e le Prescrizioni del Levitico). Ma non è questa una lettura “fondamentalista” della Bibbia? Come si devono intendere invece?
Il primo errore da evitare è un uso strumentale della sacra Scrittura con il tentare di renderla funzionale a conclusioni del tutto opinabili. La sacra Scrittura (cf. Rm 1, 26-27; 1Cor 6,9-10; 1Tim 1,10) disapprova, come gravi perversioni, le relazioni (atti) omosessuali. Tale disapprovazione – si osserva – riguarda il malcostume della società greco-romana e, quindi, non è pertinente per le persone omosessuali, di cui si parla. L’osservazione non è priva di fondamento, ma non conduce a concludere che le relazioni (atti) omosessuali siano giustificate. Nella dottrina plurisecolare della Chiesa, il rapporto sessuale è sempre legato al matrimonio tra un uomo e una donna.
D’altra parte, non c’è nulla di discriminatorio: tale proposta morale viene indicata anche agli eterosessuali che, per motivi diversi, non sono o non possono sposarsi.
E veniamo alle relazioni di amore tra persone dello stesso sesso. Per alcuni teologi invece si deve passare da un approccio “naturalistico” ad un altro di tipo “relazionale”. Ovvero nel cogliere la bontà della relazione nella sua capacità di esprimere in modo profondo il mondo interiore delle persone. Per cui l’amore omosessuale ha un suo fondamento. Se questo è vero allora cosa manca alla relazione omosessuale per avere una sua piena riconoscibilità pubblica (nella Chiesa e nella società)?
In realtà, le persone omosessuali non riescono a comprendere la disapprovazione morale dell’amore omosessuale, dal momento che naturale per loro è proprio quello. Perché non riconoscere positivamente i rapporti sessuali, almeno quelli di coppia e ispirati al rispetto dell’altro? In breve, perché l’amore omosessuale non è giustificato e giustificabile?
Nessuno può mettere in dubbio che il rapporto sessuale sia espressione di amore e, come tale, si distingua dal rapporto sessuale, per così dire, indiscriminato. Allora cosa manca? Manca il contesto definitivo, quale è dato dalla relazione stabile e perenne del matrimonio tra un uomo e una donna. In altre parole, il rapporto (atto) omosessuale non verifica, non rende vero, il senso della sessualità umana, che è inscindibilmente unitiva e procreativa e, come tale, può trovare compimento soltanto nell’unione uomo-donna nel matrimonio.
Ovviamente la morale non può limitarsi a trasmettere il divieto. È necessaria una sapiente pedagogia propositiva, capace di ascolto della persona e della sua storia, per evitare sia l’impossibile giustificazionismo, da un lato, sia la mera riprovazione dall’altro, allo scopo di proporre e orientare un cammino rispettoso delle persone.
Un altro aspetto è quello delle adozioni. Qual è la sua idea su questo punto?
Il criterio primario da seguire non è il desiderio di colui/colei che vuole adottare, è necessario invece considerare il bene del minore. Se si possono verificare difficoltà anche da parte della coppia sposata, queste si accrescono nel caso della coppia o unione omosessuale. Il minore parte oggettivamente svantaggiato per una serie di controindicazioni: il ricorso alla fecondazione artificiale e, quindi, la violazione del diritto ad avere genitori certi. Inoltre, per crescere umanamente, ha bisogno, secondo le acquisizioni delle scienze umane, di due genitori maschile/femminile e non di due padri o di due madri. È vero che tanti minori, di fatto, sono in condizioni proibenti la loro crescita psicologica e umana. Ma questo non giustifica introdurre, per legge, scelte e decisioni così cariche di problematicità.
La Chiesa del Vaticano II è la comunità sempre aperta ai “segni dei tempi”. Non le sembra che l’accoglienza piena della omosessualità sia un “segno dei tempi” che interpella la Chiesa?
La Chiesa, in base al Vangelo, trasmette a ogni generazione l’annuncio dell’incommensurabile dignità della persona umana. L’annuncio si trasforma necessariamente in denuncia di ogni forma di discriminazione, emarginazione e offesa. «Va deplorato con fermezza che le persone omosessuali siano state e siano ancora oggetto di espressioni malevole e di azioni violente. Simili comportamenti meritano la condanna dei pastori della chiesa, ovunque si verifichino. Essi rivelano una mancanza di rispetto per gli altri, lesiva dei principi elementari su cui si basa una sana convivenza civile. La dignità propria di ogni persona deve essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni» (Congregazione per la dottrina della fede, Cura pastorale delle persone omosessuali, 10).
È necessario superare i pregiudizi che hanno relegato l’omosessuale nell’ambito del peccato, della perversione, della follia e della malattia. Gli stereotipi che l’immaginario collettivo ha costruito attorno alla figura dell’omosessuale (violento, effeminato, malato di sesso, contagioso) non sono rappresentativi che di una minoranza, e percentuali analoghe si riscontrano anche tra gli eterosessuali.
Tuttavia, alcune prospettive cosiddette aperte, lungi dal risolvere i problemi della persona omosessuale, in realtà la conducono in vicoli ciechi e creano ulteriori frustrazioni e delusioni. I movimenti omosessuali hanno il merito di riportare all’attenzione pubblica molteplici problematiche sociali e culturali che accompagnano la condizione dell’omosessuale, e di denunciare le ingiustizie e la violazione dei diritti umani nei diversi ambiti della vita sociale.
D’altra parte, occorre senso critico per distinguere le giuste rivendicazioni da quelle ideologiche, come il diritto al matrimonio e all’adozione. Non giova a nessuno _ nemmeno ai gay e alle lesbiche _ confondere realtà che sono oggettivamente diverse. Altro cosa è, come si è detto, riconoscere i diritti individuali dei conviventi.
Per concludere, non è superfluo ricordare che non basta parlare dei diritti che le persone omosessuali non hanno, bisogna promuovere i diritti che hanno e, quindi, denunciare ogni forma palese o occulta di discriminazione e di emarginazione.
Pingback: Nozze Gay? Un Si e un No (1). Intervista a Padre Luigi Lorenzetti | gruppo emmanuele
Caro Fabrizio, il peccato dei Sodomiti (1^ Corinzi 6,9) fu adeguatamente retribuito da Dio perchè la natura dell’omosessualità e vizi affini trae origine dalle realtà demoniache. Leggi nella lettera di Giuda, e osserva bene cosa fecero i dèmoni quando essi avevano ancora la natura di creature angeliche al servizio di Dio (poi divennero spiriti maligni).
Pertanto ciò che l’Eterno considera “peccato” o “abominio” resta tale ai suoi occhi, malgrado i gay, i trans e i massmedia tentino di trasformare questa realtà aberrante in “libertà dei costumi”…….
Dio ama il peccatore ma DETESTA il peccato (Giovanni 3,16)!
Ringrazio le persone che hanno rilasciato i commenti precedenti al mio per la lucidità con la quale hanno centrato i problemi sollevati dalle parole di Lorenzetti. Concordo in pieno con quanto da loro sottolineato, in quanto in modo approfondito hanno messo in evidenza il vero fenomeno sociale e civile con cui tutte e tutti noi dobbiamo oggi fare i conti ovvero lo stato di omofobia manifesta in cui versa la chiesa cattolica. Mi limito a sottolineare quanto ha colpito me, fra le tante altre cose, delle risposte del prelato: in esse si dice tutto ed il suo contrario, come a voler dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, il tutto per rispettare l’antica tradizione di un culto fideistico che, mentre vorrebbe che tutte e tutti ci uniformassimo ai suoi dogmi inventati – e solo perché ci troviamo di fronte ad una religione rivelata – continua a discriminare parti non indifferenti di cittadine e cittadini che – e non è certo un caso – non possono accedere agli stessi diritti/doveri del resto della popolazione. Insomma: nulla di nuovo sotto il sole. La campagna discriminatoria della chiesa di Roma continua, con buona pace di noi lesbiche e gay e con il placet di tutte quelle persone appartenenti al mondo della politica che si nascondono dietro (o sotto) le gonne dei prelati, pur di non manifestare la loro parte omofobica, poiché giammai vorrebbero che il diritto al matrimonio così com’è venisse esteso alle coppie formate da persone dello stesso sesso. Non sia mai…
Lidia
Egregio Prof. Lorenzetti,
in questa intervista ho particolarmente apprezzato il tono pacato, l’atteggiamento aperto e la disponibilità al dialogo che mi è sembrato di cogliervi. Sinceramente parlando, non ritrovo spesso lo stesso garbo, accogliente e paterno, quando un consacrato della Chiesa cattolica-romana si esprime su questi temi, e per questo mi permetto di esprimerle alcune riflessioni. Sarà per me motivo di riconoscenza se lei impiegherà un po’ del suo tempo per leggerle, anche se poi non vorrà o non potrà rispondermi.
[Presentazione] Chiarisco subito la mia posizione: sono un uomo omosessuale di 42 anni, inse-gnante, e le scrivo dalla Sicilia. Ho ricevuto, e non solo come passivo ascoltatore, una lunga, intensa e preziosa formazione spirituale nella Chiesa cattolica-romana, di cui sono stato anche catechista. Ho impiegato anni per accettare serenamente la mia omosessualità e per conciliare con la mia fede non solo il mio essere omosessuale, ma anche il mio vivere da omosessuale, in una relazione di coppia piena ed appagante. Grazie a Dio, è questa, per adesso, la mia dimensione, in cui ho trovato un equilibrio e che spero di coltivare e rafforzare sempre più, nel segno dell’amore. Il mio percorso mi ha portato nel tempo ad assumere posizioni sempre più critiche nei confronti del Magistero vaticano, ora per motivi squisitamente dottrinali, ora per la condizione di sofferenza provocata da alcune affermazioni o da alcune omissioni dei Vescovi o del Pontefice Romano. Prima questa sofferenza era più forte; gli anni e le esperienze, fra cui quella di coppia che attualmente vivo, hanno addolcito la mia visione della vita e hanno ravvivato la mia fede nell’amore di Dio. Mi riconosco cristiano, non cattolico-romano, anche se non ho mai pensato di rinnegare la grande ricchezza spirituale custodita da Roma, come l’importanza dei sacramenti, la preghiera mariana, il valore esemplare dei santi.
[Il pensiero laico] Ma veniamo alle sue interessanti affermazioni. In apertura, lei sostiene che laici e cattolici, per poter dialogare, devono scegliere di abbandonare alcuni rigidi preconcetti: ad esempio, i laici devono imparare a valutare le posizioni dei cattolici non come frutto di un condi-zionamento confessionale, quindi “impertinente nell’ambito politico e legislativo laico e democratico”, ma per il loro intrinseco, oggettivo valore morale. Se una norma è “per l’uomo”, essa dovrebbe convincere tutti, anche se essa deriva dalla morale cattolica o dal vangelo, e chi è autenticamente laico, cioè “per l’uomo”, dovrebbe quindi condividerla. “Laicità significa indipendenza e autonomia rispetto a una determinata morale, ma non significa indifferenza o neutralità rispetto alla morale umana, fondata cioè sui valori (diritti) umani”. Concordo perfettamente: il criterio che quindi lei propone, mi pare, è quello del bene autentico dell’essere umano, sia come singolo sia come comunità. È un criterio non solo profondamente ragionevole e autenticamente laico, ma anche (nello stesso tempo) radicato nella mentalità di Cristo: il sabato per l’uomo, non l’uomo per il sabato. Se questo è il criterio del bene, il criterio del male è altrettanto chiaro: è male ciò che inquina, perverte, umilia, distrugge la dignità e la felicità dell’essere umano, creato ad immagine e somiglianza di Dio, sia come singolo sia come comunità. Anche qui siamo in perfetta sintonia con quanto ci rivela il Redentore, quando afferma che satana è omicida fin dal principio. Stabilire se l’omosessualità, come condotta di vita, sia un bene o un male, deve reggere al confronto con questi criteri, cui forse dovremmo aggiungerne un altro, quello dell’intenzione orientata al male. L’anima è contaminata dal male non per ciò che entra in essa, ma per ciò che ne nasce, in termini di libera scelta volta consapevolmente al male.
[Il relativismo e la democrazia] Poi lei ricorda che i cattolici, da parte loro, dovrebbero liberarsi dal pregiudizio del “relativismo”, che consiste nell’attribuire all’altro (in questo caso al pensiero omosessuale) una morale soggettivista, quindi ispirata alla deregulation, all’anarchia, al sogno di un mondo in cui tutto sia lecito e in cui nessuno debba compiere lo sforzo di migliorare se stesso frenando con equilibrio i propri istinti. Anche qui concordo con lei: vorrei però rifarmi ad uno dei commenti pubblicati in calce alla sua intervista, scritto da “Fabrizio”, il quale sostiene, giustamente secondo me, che relativizzare le differenze è una condizione essenziale per la convivenza pacifica di persone e gruppi diversi. I laici sostengono: vogliamo una società in cui le opinioni di tutti, cristiani e non cristiani, siano egualmente accolte e rispettate, purché non danneggino la convivenza pacifica. I cattolici dicono: vogliamo una società in cui le leggi siano ispirate solo ai nostri valori, senza tener conto di chi può pensare o vivere diversamente. È strana, questa cosa: nella storia, i cristiani sono stati perseguitati duramente, e in alcune zone del mondo lo sono ancora, per cui invocano la tolleranza, la libertà di coscienza, espressione e religione. Poi però, quando raggiungono una posizione di tranquillità o addirittura di potere, come nel caso dell’Italia, pretendono un monopolio ideologico ed etico che finisce con l’instaurare la stessa intolleranza che prima deploravano. Credo che, in uno stato democratico, nessuno debba imporre agli altri le proprie scelte, e che le leggi debbano fornire ai cittadini le stesse opportunità di vita: starà poi alla coscienza dei singoli servirsene o no. Io sono contrario, per esempio, all’aborto, ma trovo giusto che esista una legge per regolamentare le interruzioni di gravidanza. Se fossi una donna io non me ne servirei, ma non posso impedire a chi ha convinzioni diverse dalle mie di fare le proprie scelte in modo sicuro, in senso fisico e psicologico.
[Matrimonio omosessuale o unioni civili?] Nel suo resoconto lei delinea sostanzialmente due possibili scenari in merito al riconoscimento delle unioni omosessuali: l’equiparazione al matrimonio, che lei con condivide, poi la garanzia dei diritti dei singoli individui all’interno della coppia (la terza possibilità non viene approfondita nell’intervista, ma non mi pare si discosti molto dalla seconda, tanto è vero che poi lei le accomuna).
[Il modello unico] Qui vorrei accennare alla mia esperienza. Molti anni fa ero fidanzato con una ragazza. Eravamo fra i venti e i trent’anni, entrambi già lavoravamo, e le rispettive famiglie premevano per un matrimonio a breve termine. Io, però, sapevo con chiarezza sempre maggiore che non potevo intraprendere la via del matrimonio. Sarei stato infelice, come uomo, come marito e come padre. Avrei reso infelici mia moglie e i miei figli. Avrei profanato un sacramento, tanto è vero che, se non erro, l’omosessualità di uno dei nubendi, ancor più se sottaciuta all’altro, è causa di nullità del sacramento. Ho quindi, con dolore, interrotto quella relazione, e da allora ho seriamente iniziato il mio percorso di accettazione, benché per dieci anni il mio psicanalista cattolico-romano abbia cercato in tutti modi di “guarirmi” da quella che reputava una condizione anormale. Quindi: il fatto che la società, “educata” dai valori cattolici, mettesse a mia disposizione SOLO UN MODELLO di famiglia non mi ha convinto ad aderirvi, non ha forzato la mia scelta, non ha svolto un’azione “educativa” su di me (per fortuna); ha semmai accresciuto le mie sofferenze, poiché se già allora (metà degli anni ’90) avessi potuto contare su altri modelli di unione, adatti al mio modo di essere e di amare, mi sarei accettato prima e con speranza, né avrei vagabondato squallidamente da un abbraccio all’altro fino a trovare l’amore. Lei, in virtù della morale che legittimamente condivide e sostiene, deplora la possibilità che esista un “matrimonio omosessuale”, poiché la formula della famiglia deve essere e rimanere una sola. A che scopo questo monopolio, prof. Lorenzetti? Chi si avvarrebbe della scelta alternativa? Se io sono eterosessuale, e credo nei valori della famiglia, in che modo, per il solo fatto che lo Stato mette a disposizione degli omosessuali una propria dimensione di unione, potrei essere sviato dall’intenzione o dalla vocazione di contrarre matrimonio civile o cristiano? Se io invece, sono omosessuale, la mancanza del matrimonio civile costituisce una riduzione dei miei diritti costituzionali e, sul piano etico, mi connota come essere umano non uguale agli altri. C’è però un terzo aspetto, di cui nessuno parla, e che secondo me rappresenta la vera paura delle gerarchie vaticane: gli eterosessuali “indecisi”. È su questi che la Chiesa cattolica-romana se-condo me non vuole perdere il suo controllo. Ho incontrato, anche intimamente, diversi uomini fidanzati o sposati, che altro non erano se non omosessuali terrorizzati all’idea di essere rifiutati dalla famiglia o dalla società, e che per questo sceglievano una vita di finzione e di enorme sofferenza, accresciuta dai sensi di colpa per il fatto di non riuscire a rinunciare alla loro vera natura. Se c’è un solo modello di matrimonio e di famiglia, costoro, che sono deboli, continueranno a sceglierlo; se invece vedessero che la società ammette, giuridicamente ed etica-mente, che anche da omosessuali possono accedere ad un pieno riconoscimento del loro amore, avrebbero vita più serena, e non farebbero scelte contrarie alla verità. La possibilità del matrimonio fra omosessuali, e parlo sempre del piano civile e giuridico, libererebbe molti e aiuterebbe tante famiglie ad accettare un figlio o una figlia gay, per i quali non dovrebbero temere un futuro di solitudine ed emarginazione. Il matrimonio omosessuale in nessun caso potrebbe costituire un fenomeno diseducativo per la società. Né gli omosessuali né le loro relazioni aumenterebbero o diminuirebbero, sarebbero semplicemente più liberi di esistere, liberi dalla paura e dalla vergogna, soprattutto se venisse approvata anche una legge, come in molti altri Paesi del mondo, sui reati di omofobia.
[L’omofobia] A tale proposito, lei ricorda un brano tratto dalla Cura pastorale delle persone omosessuali, a cura di Joseph Ratzinger, che allora era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: «Va deplorato con fermezza che le persone omosessuali siano state e siano ancora oggetto di espressioni malevole e di azioni violente. Simili comportamenti meritano la condanna dei pastori della chiesa, ovunque si verifichino. Essi rivelano una mancanza di rispetto per gli altri, lesiva dei principi elementari su cui si basa una sana convivenza civile. La dignità propria di ogni persona deve essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni». Le chiedo, prof. Lorenzetti, se lei è al corrente di alcun pastore della Chiesa che abbia mai esplicitamente condannato azioni di omofobia; io no. Giovanni Paolo II, in occasione del Giubileo del 2000, ha chiesto perdono a tutte le vittime dell’intolleranza cristiana nel corso dei secoli, ma non agli omosessuali. Però mi ricordo che alcuni anni fa il Vaticano, in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite, si è opposto alla depenalizzazione dell’omosessualità nei paesi in cui essa è ancora considerata e punita come reato.
[Privato e pubblico] Prof. Lorenzetti, per favore: come fa a dire che la Chiesa cattolica non è se-conda a nessuno quando si tratta di comprendere le sofferenze delle persone omosessuali? Diverse volte, anche nel segreto della confessione, sono stato respinto con asprezza dal ministro di Dio. E anche quando, da lui, ho ricevuto comprensione e dolcezza, lo sapevamo solo io e lui. Intendo dire che la Chiesa, anche se non sempre, accoglie con delicatezza gli omosessuali in forma privata, ma non è lo stesso rispetto che proclama pubblicamente. L’opinione pubblica, secondo lei, ascolta quanto avviene in privato o quanto rimbomba in pubblico? E quando parlo dell’opinione pubblica, alludo alle famiglie, agli amici, ai colleghi delle persone omosessuali, che poi si vedono respinti da loro, a causa di un’intolleranza alimentata anche dai messaggi, o dai colpevoli silenzi, della Chiesa cattolica romana.
[Diritti e doveri] Uno degli equivoci di cui siano vittime è che le nostre pretese sarebbero volte ad acquisire diritti ma non doveri. Assolutamente no. Io, se potessi, sposerei il mio partner per assumermi anche di fronte alla società delle responsabilità nei suoi confronti. Il matrimonio mi permetterebbe di affermare, in modo pubblico e quindi vincolante, non solo che io lo amo, ma che da questo amore discendono precisi doveri come la fedeltà, la cura e l’assistenza reciproca (proprio quelli che il codice civile attribuisce ai coniugi eterosessuali), e che questo progetto è proiettato negli anni. Il matrimonio omosessuale sarebbe quindi una scelta di stabilità, volto proprio in senso contrario alla pseudo etica della precarietà, dell’amore effimero ed immaturo che spesso ci viene ingiustamente rimproverata. La natura dell’uomo è sociale, e io come omosessuale desidero venga riconosciuta almeno dallo Stato la mia socialità di coppia, poiché non ne ho e non ne posso avere un’altra.
[Invidia simbolica] Credo che l’opposizione di molti al matrimonio omosessuale derivi anche da una sorta di “invidia simbolica”. Sposarsi è, certo, una testimonianza d’amore e un’assunzione di responsabilità, ma è anche un momento meraviglioso, in cui le persone care fanno festa insieme, celebrando l’amore. Chi sostiene solo il riconoscimento “notarile”, privato e asettico, dei diritti dell’individuo vuole proprio negare alle coppie omosessuali, con sadica crudeltà, la gioia di quel giorno, di quella festa, che può costituire un momento fondamentale per l’esistenza di due persone, un simbolo, un passo avanti indimenticabile per la propria storia d’amore, esattamente come avviene per le coppie eterosessuali. Inoltre, come cerimonia potenzialmente pubblica, esso avrebbe un valore educativo per la società, poiché trasmetterebbe l’idea che anche l’amore omosessuale va riconosciuto, ha una dignità.
[La famiglia, le famiglie] Dissento da lei, prof. Lorenzetti, quando afferma che “non è per niente pacifico parlare di famiglie al plurale… una cosa è la famiglia, tutt’altra – con il rispetto e la comprensione più che dovuti – è la coppia di fatto”. Mi dispiace che per lei non sia pacifico: noi non vorremmo combattere alcuna guerra per spiegare in pace questo messaggio.
Il mio compagno è il secondo di quattro figli, nati tutti da un uomo e una donna sposati civilmente e religiosamente. Questi signori, però, hanno vissuto una vita dolorosamente disordinata: hanno affidato le prime due creature (fra cui il mio compagno) ad alcune zie, senza intervenire in alcun modo, materiale o morale, nella loro crescita. Il mio compagno mi racconta che, quando raramente andava a trovare i suoi genitori, con cui non coabitava, magari in alcuni week end, assisteva a scene orribili, come il padre violento che picchiava la madre ubriaca; il padre, a volte, lo conduceva con sé quando andava a trovare qualche amante. Delle altre figlie, una è riuscita ad acquisire un proprio equilibrio solo lasciando quella casa e intraprendendo da sola un duro cammino per studiare, trovare un lavoro e sposarsi, molto lontano dalla Sicilia; e anche così, ha manifestato per anni alcuni ritardi psicofisici, conseguenza dei traumi vissuti negli anni più teneri. Il mio compagno è cresciuto, invece, circondato dall’affetto e dalle cure di due zie e della nonna: ha studiato, ora ha un lavoro rispettabile e prestigioso e tutti lo stimano come una persona sensibile, educata ed affidabile. Una delle ragioni per cui lo amo è il suo alto senso della famiglia, della casa, del nido domestico, che certo non ha appreso dai genitori, ma dalla famiglia sostitutiva che Dio ha voluto che avesse.
Che cosa è una famiglia? Per definirla, bastano la differenza di genere, il riconoscimento legale, la cerimonia religiosa, la procreazione?
[Amore e responsabilità] Per fare una famiglia ci vogliono soprattutto due elementi: l’amore e la responsabilità. Amore non significa cieca soddisfazione degli istinti, questo vale anche per le coppie eterosessuali. Certo, la passione e l’intimità fisica fanno parte dell’amore: ma un uomo e una donna che (più o meno occasionalmente) vanno a letto insieme non costituiscono una famiglia, e nemmeno un uomo e un uomo, o una donna e una donna. Amore significa impegnarsi ad essere fedeli e a portare avanti dei progetti. Come omosessuale, negli anni in cui cercavo (a volte disperatamente, dissennatamente) il mio equilibrio, ho conosciuto e praticato la dissolutezza: un termine desueto, certo, ma devo riconoscere che è il più appropriato, poiché vivere la sessualità in modo disordinato ed occasionale, senza amore, senza stabilità, non fa che disciogliere e disgregare (in latino, dissoluĕre) le energie fisiche e morali di una persona. Ora, la stessa cosa può capitare e capita anche agli eterosessuali. Essere omosessuali non vuol dire necessariamente abbandonarsi ad ogni sorta di degrado, anche se c’è chi lo fa; essere eterosessuali non significa necessariamente abbandonarsi ad ogni sorta di degrado, anche se c’è chi lo fa. La differenza non risiede nel corpo dell’amante, ma nel valore etico, relazionale, affettivo che si dà all’unione intima. Allo stesso modo, non è un puro fatto fisiologico (la differenza fra i sessi) che costituisce la famiglia, ma la scelta d’amore che accompagna e sostiene la vita quotidiana. Una coppia di adulti, uomini o donne che siano, quanto tempo riesce a dedicare all’eros ogni settimana? Certo poco, nei confronti di tutti gli altri momenti di vita insieme, in cui pure “si fa l’amore”, ma lo si fa prendendosi cura dell’altro, sopportandosi e perdonandosi a vicenda, confortandolo nei momenti difficili, cucinando, stirando, pagando le bollette, pianificando le vacanze insieme, affrontando insieme la malattia o la scomparsa delle persone care, portando i pesi l’uno dell’altro.
Ecco che giungiamo al secondo punto: la responsabilità. Io sono responsabile del mio compagno, come lui lo è di me. Ognuno di noi due, in nome dell’amore che proviamo e che alimentiamo ogni giorno, è responsabile del benessere psicofisico dell’altro. Lo è non solo virtualmente, ma fattivamente, nella concretezza quotidiana dei gesti con cui ci diciamo “io per te ci sono”. Se avessi una compagna, o una moglie, che cosa ci sarebbe di diverso nel mio amore o nella mia responsabilità, o da parte sua? Per questo motivo, noi non siamo una coppia, ma una famiglia. Lo siamo anche grazie a tutti coloro che ci hanno insegnato l’amore e la responsabilità.
[Il tessuto relazionale] E lo siamo anche in un altro senso. Dire “coppia” (di fatto o di diritto) significa evocare una realtà esclusiva e duale, quasi chiusa in se stessa. Dire “famiglia”, invece, significa parlare di persone che vivono l’amore e la responsabilità non solo fra di loro, ma anche all’esterno, innervate in una rete di relazioni sane, costruttive e generose. Io e il mio compagno frequentiamo amici e parenti. “Frequentiamo” vuol dire che partecipiamo della loro vita e loro partecipano della nostra; vuol dire gioire con loro, soffrire con loro, essere solidali e responsabili.
Il padre del mio compagno è morto nel 2009, pochi giorni prima di Natale. Anche se ha lasciato dietro di sé un’eredità fatta di tristi ricordi e di grandi delusioni, il mio compagno era ugualmente sconvolto e addolorato, per cui la sera di Natale (eravamo invitati a casa di mio fratello con tutta la famiglia) lui non se la sentiva di uscire di casa, e mi ha pregato di andare io a cena, senza di lui. Quando sono arrivato da mio fratello e ho spiegato loro la situazione, mio padre ha preso il telefono, lo ha chiamato, gli ha detto qualcosa che non so e non saprò mai, poi mi ha detto: io vado a prenderlo a casa, se vuoi vieni anche tu. Incredulo, l’ho accompagnato; gli ho proposto di guidare io la macchina, ma mio padre ha detto di no, era compito suo. Arrivati a casa mia, volevo scendere dalla macchina per citofonare, ma mio padre mi ha preceduto e mi ha detto che dovevo restare in macchina, perché era compito suo (suo, cioè “del padre”) andare incontro al figlio…cioè al mio compagno, che intanto usciva commosso dal portone. Mio padre gli è andato incontro, lo ha abbracciato e lo ha portato in macchina e abbiamo raggiunto tutta la famiglia.
[Essere una casa per gli altri] Dice il Vangelo che il regno di Dio è simile ad un seme che all’inizio sembra insignificante, ma poi germoglia e diventa un grande albero, e gli uccelli fanno il nido fra i suoi rami. Io interpreto la parabola così: l’amore (che cos’altro è il regno di Dio?) è tale solo se e solo quando si fa casa per gli altri, si fa accoglienza e dono. La mia famiglia lo ha fatto per me, io e il mio compagno vogliamo esserlo per gli altri. Una zia del mio compagno ha da poco subito un’operazione chirurgica: per noi due è stato normale passare tutto il giorno in ospedale per seguire il decorso e sollevarle il morale. La nostra famiglia è fatta dello stesso tessuto buono di cui sono fatte le famiglie sane da cui proveniamo, in essa scorre la stessa energia, noi vogliamo essere dono per gli altri, esattamente come lo siamo fra di noi e altri lo sono stati e lo sono con noi. Perché non dobbiamo essere considerati famiglia? Ironicamente, se vado all’anagrafe e richiedo un certificato di “stato di famiglia”, mi viene consegnato un foglio in cui c’è scritto: a questo indirizzo risiede la seguente FAMIGLIA, e poi ci sono i nomi mio e del mio compagno, che ha trasferito la residenza da me ormai da diversi anni.
[Fecondazione eterologa ed adozioni] Anche sul tema dei figli, avrei alcune precisazioni da fare.
Sono cresciuto in una famiglia tradizionale, eterosessuale e assai stabile (i miei stanno insieme da 43 anni): sono quindi convinto che famiglie come questa, ispirate all’amore e alla responsabilità, siano il contesto migliore per una crescita sana dei figli. Lo dico anche da educatore: vedo ogni giorno che i ragazzi che provengono da famiglie poco stabili o poco serene fanno più fatica a crescere e a studiare. Sono quindi convinto che il diritto DEL figlio a crescere in un ambiente completo ed equilibrato sia assolutamente prioritario e valga più del diritto AL figlio millantato da diverse coppie o da diversi singles; questo “diritto AL figlio” mi sa di egoismo e di immaturità, e per questo non approvo le strane “acrobazie genetiche” (banca del seme, utero in affitto etc…) di cui si servono alcune persone (che tuttavia rispetto come tali). Un bambino non è un prodotto sintetico da costruire in laboratorio, sono quindi contrario a creare una vita di proposito.
C’è però una grande obiezione. Immaginiamo che la vita del bambino o della bambina non vada creata artificialmente, perché già esiste: ci sono migliaia di bambini messi al mondo e poi abbandonati in contesti di degrado, in cui li attendono la fame, le malattie, lo sfruttamento, gli abusi di ogni genere (reclutamento militare o criminale, prostituzione, traffico di organi…). A questo punto l’alternativa è: questa vita già esiste; la lasciamo dov’è o le diamo una famiglia, composta anche da due uomini o da due donne, in cui potrà conoscere il calore del cibo e di un letto, il Natale e i compleanni, l’istruzione e le cure mediche, l’affetto e l’educazione? Chi nega a questi bambini, italiani o stranieri, la possibilità di essere adottati anche da famiglie omosessuali, oltre che eterosessuali, si assume in pieno la responsabilità della loro tragica sorte. Per questo dico no alle “acrobazie genetiche”, ma sì alle adozioni, purché le famiglie siano attentamente selezionate e seguite, come già peraltro avviene nel caso delle coppie eterosessuali: infatti, non tutte vengono riconosciute idonee. Un’ulteriore prova del fatto che non basta essere maschio e femmina e sposati per allevare ed educare dei figli.
[Matrimonio e benedizione] Diverso sarebbe il caso del matrimonio religioso. Per me, che sono cristiano, il matrimonio religioso è un sacramento: è cioè una effusione di Grazia santificante concessa all’uomo e alla donna che non solo si amano (sul piano umano), ma intendono proiettare questo loro amore all’interno dell’Amore Trinitario e farsi quindi icona delle Persone Divine, anche nel meraviglioso compito di propagare la vita. Capisco bene che questa vocazione, teologicamente intesa, non spetta all’amore omosessuale; ma non capisco perché questo debba comportare ipso facto il disprezzo e la condanna per l’amore omosessuale, che, se inteso e vissuto correttamente, è amore, quindi partecipa della stessa sostanza divina e meriterebbe per questo almeno una forma di benedizione. Il mese scorso, nella mia città, ho assistito ad una cerimonia commovente: un presbitero-donna, della Chiesa vetero-cattolica, ha benedetto l’amore di una coppia di uomini; la benedizione ha avuto luogo in un tempio valdese, anche se poi la liturgia è stata quella vetero-cattolica, ha cioè previsto la celebrazione eucaristica. Tornando ai criteri del bene e del male, che ho messo in evidenza all’inizio: qualcuno aveva intenzione di fare del male ad un altro? No. C’era, obiettivamente, una minaccia per l’integrità fisica, psicologica, spirituale, per la dignità o la libertà di qualcuno? No. C’era una scelta di amore e di responsabilità. Due uomini si amano e promettono di amarsi a lungo nel tempo, di essere uno responsabile dell’altro. Sperano di invecchiare non da soli, nei rimpianti e nella tristezza, ma insieme, dopo una vita costruita in comunione. Alla celebrazione abbiamo assistito in pochi, parenti ed amici della coppia, e c’erano anche alcuni bambini. Io sono stato felice pensando che quei bambini stavano imparando una cosa fondamentale: che Dio non disprezza l’amore, in qualunque forma esso esista, se è libero e punta al bene delle persone; e stavano anche imparando che, da grandi, essi potranno sposarsi, come vedono che accade a molte coppie intorno a loro; ma che, se anche loro si scopriranno omosessuali, potranno contare sulla speranza che il loro amore venga benedetto. Un comportamento socialmente, oltre che moralmente, dannoso è invece quello che fornisce alla società modelli distruttivi: la disonestà, l’ignoranza, la prevaricazione, lo sfruttamento dei deboli, gli abusi sui bambini e sulle donne, la volgarità, la droga. Credo che molti politici, eterosessuali e difensori della famiglia tradizionale, siano in questo senso socialmente nocivi, anche per la loro piena, quando non ostentata, visibilità. Ma se due persone vivono il loro quotidiano cercando l’armonia fra di loro e con gli altri, sono socialmente oltre che moralmente costruttive, indipendentemente dal fatto di essere di sesso diverso o eguale. “Ov’è questa giustizia che ‘l condanna?”.
[Una vocazione imposta?] Secondo me la Chiesa cattolica-romana osteggia tanto l’idea del matrimonio omosessuale perché esso contraddice quanto affermato nel Catechismo, cioè che le persone omosessuali sono chiamate (vocantur) alla castità. Ora le chiedo, come sacerdote: se lei celebrasse un matrimonio tradizionale, in chiesa, fra uomo e donna, e venisse a sapere che uno dei due sta contraendo matrimonio non per libera scelta, presiederebbe a quel matrimonio, lo ammetterebbe? Esso avrebbe valore, se celebrato? Allo stesso modo: se lei fosse vescovo e dovesse ordinare qualcuno come presbitero, e sapesse che questa persona è stata indotta o costretta, in modo non libero, alla vita consacrata, stenderebbe lo stesso le mani sul suo capo? Avrebbe valore quel sacramento? Se, come io immagino, la risposta a queste mie domande è “no”, poiché non c’è vocazione senza libera risposta della persona e della sua coscienza ad una chiamata che impegna la vita, vorrei che allora mi spiegasse in che modo il Catechismo della Chiesa cattolica si permette di predeterminare, cioè di imporre alle persone omosessuali niente meno che una vocazione (vocantur!). Ha valore una vocazione imposta contro la volontà e la coscienza delle persone? Se io non mi sono mai avvicinato al sacerdozio, per il quale ho più volte avvertito una viva predisposizione, è perché nello stesso tempo trovavo dentro di me una forte, limpida e buona vocazione alla dualità, all’amore di coppia, al dono di sé che usa anche il corpo come modo di comunicare. Nessuno, al mio posto, se non Dio solo, può stabilire quale sia la mia vocazione, e rispondere spetta solo alla mia coscienza libera: libera non di scegliere la dissolutezza al posto del sacrificio, ma di scegliere l’amore, in un modo che non mi tolga la speranza di vivere, amare, morire e risorgere così come sono, così come Dio mi ha voluto e mi ama.
[I pregiudizi paolini] Lei si richiama ai passi della Scrittura che condannano le relazioni omosessuali. Saggiamente, non coglie la “provocazione” dell’intervistatore, che suggeriva passi dell’Antico Testamento, e si concentra solo sui passi paolini. Sono essi così “pacifici”? Intendo dire: Paolo ha scritto anche che le donne devono presentarsi nell’assemblea con il capo coperto (1Cor 11, 3-15) e che non devono, nell’assemblea, parlare (1Cor 14.34-35), meno che mai insegnare (1Tim 2.9-15). Due delle epistole che cito coincidono con quelle che cita lei sull’omosessualità. Paolo va inteso alla lettera, sempre e comunque? Non va collocato nel suo contesto storico-culturale, non va compreso come uomo e come uomo del suo tempo? Paolo non aveva pregiudizi? Se la risposta è no, non si comprende come mai le donne oggi possano partecipare al culto a capo scoperto, possano essere lettrici, catechiste, teologhe.
[Il criterio dell’amore] Attenzione: non intendo affermare superficialmente che la Sacra Scrittura non conta e è lecito farne un uso arbitrario e secondo il vantaggio personale. Credo invece che nella sacra Scrittura vadano individuati i nuclei semantici fondamentali e coessenziali alla Rivelazione. Solo così essa non rischierà di contraddirsi e manterrà la sua inerranza. A mio giudizio, IL criterio unico per interpretare la Sacra Scrittura è Cristo: il Suo messaggio, la Sua testimonianza, il Suo esempio, la Sua missione pasquale. Cristo non ha mai parlato di omosessualità, come non ha mai parlato di aborto, o di spaccio di droga, o di corruzione politica, poiché a Lui interessava “soltanto” rivelare l’essenziale: il comandamento dell’amore, risposta all’amore donato da Dio nel Figlio. Se amo, non uccido, non rubo. L’amore è la novità di vita che permette di distinguere il bene dal male: amore inteso non come superficiale emozione, o brivido dei sensi, ma come impegno profondo e coerente per il bene dell’altro, in cui può agire la Grazia. In che modo una scelta omosessuale fedele, che comporti la comunione di vita e la sessualità come linguaggio costruttivo della relazione può offendere o violare il comandamento dell’amore? Lei mi risponderà che un omosessuale non può vedere al di là della sua natura; io le rispondo che, anche quando fosse così, io non ho altro che la mia piena identità per orientare la mia vita verso Dio e i fratelli; che anche un eterosessuale non ha altro filtro per interpretare l’esistenza se non la sua identità; e che la domanda che le ho fatto la pongono anche molti eterosessuali.
[La sospensione del giudizio] Le pongo altre due questioni. Per secoli la Chiesa ha sostenuto la dottrina del “limbo”, destinato alle persone non battezzate; oggi la teologia ha rifiutato tale idea, sia perché non è fondata nelle Sacre Scritture, sia perché essa contraddice con quanto Dio ci ha rivelato su di sé e sulla Sua giustizia e misericordia. I teologi, per quanto ne so, non hanno risolto il problema posto dalle parole di Cristo che afferma che il battesimo da parte degli apostoli, cioè della Chiesa, sia condizione fondamentale per entrare nel Regno. Di fronte alla contraddizione, i teologi sospendono il giudizio, ammettendo il limite della visione umana ed affidando tutte le anime alla Pietà Celeste. Una cosa del genere avviene, addirittura, nel caso dei suicidi: è fuor di dubbio che togliersi la vita è un atto grave e dolorosissimo, e che non va certo additato come esempio per nessuno; ma mentre prima ai suicidi venivano negate le esequie e la sepoltura in terra consacrata, oggi si preferisce affidare quell’anima alla misericordia di Dio, l’Unico che ne conosce lo strazio e può averne ascoltato il grido anche un attimo prima o un attimo dopo il tragico gesto. Ora, a proposito dell’omosessualità, si verifica la stessa contraddizione: da una parte, la condanna della Scrittura (ma non di Cristo), dall’altro la ragionevole perplessità legata ad una condizione non scelta, e ad un comportamento che (come quello eterosessuale) può sì tendere verso l’egoismo dissoluto, ma anche verso la costruzione di rapporti d’amore che non fanno nulla di male a nessuno e che donano calore, speranza, fiducia e consolazione a coloro che ne sono liberi protagonisti. Come si risolve questa contraddizione? Come nel caso dei non-battezzati o dei suicidi: tacendo, sospendendo il giudizio, ammettendo l’aporia ermeneutica, rispettando con pietà umana le persone che si affidano alla pietà divina. Il caso Galilei, e non solo, insegna che fra tre secoli la Chiesa cattolica-romana potrebbe dover fare ammenda di ciò che oggi spaccia per verità assoluta.
[Il contesto procreativo] Qui, chiaramente, trova posto la sua riflessione sul “contesto”, o sull’orizzonte di senso della sessualità secondo l’etica cattolica: inscindibilmente procreativa e unitiva. Sorgono però alcune obiezioni, cui nessuno però ha dato mai risposta. E gli sposi sterili? Mio padre e mia madre devono cessare di dormire insieme una volta trascorsa l’età della fertilità, o anche dopo i 50 anni ha un senso l’amore anche fisico, ma non più procreativo, tra due persone che si amano? Manca il contesto, anzi direi che manca oggettivamente, senza che i soggetti ne abbiano colpa, quindi se hanno relazioni intime, è un disordine intrinseco? Altra contraddizione: la Chiesa ammette, perché la paternità e la maternità siano responsabili, il ricorso ai metodi contraccettivi naturali. Quindi se due sposi cristiani scelgono di adoperare questi strumenti naturali di controllo della fertilità come “orologio” della loro vita intima, possono farlo sia per cercare il concepimento, sia, in altri periodi della vita, per evitarlo. In questo caso, visto che la loro sessualità è intenzionalmente non procreativa, che significati assume? È intrinsecamente disordinata?
[I valori della sessualità] La verità, secondo me, è che la Chiesa cattolica-romana, forse per un secolare disagio nei confronti del corpo e del sesso, alimentato da una male intesa Tradizione, non coglie e non spiega appieno i molteplici significati dell’atto sessuale, che non sono solo quelli sbrigativamente etichettati come “procreativo ed unitivo”. Il significato, o lo scopo, procreativo, è certo di elevatissimo valore antropologico ed etico, ed anche teologico, poiché gli sposi cristiani, che hanno proiettato il loro amore nella Divina Trinità, divengono collaboratori dell’amore creatore di Dio. Ma questo deve necessariamente escludere ogni altro significato dell’unione intima? Nell’incontro sessuale, si realizza una straordinaria sinergia di energie fisiche ed energie psichiche, l’essere umano può avere la sensazione di essere davvero uno, integro, di essere se stesso; il dono identitario della sessualità, però, è ancora più straordinario nella misura in cui l’identità della persona viene confermata non solo dal piacere psicofisico individuale, ma anche dalla consapevolezza di essere con-l’altro e per-l’altro. Sono, nella misura in cui provo piacere e gioia dicendo, anche con il mio corpo, alla persona che amo: sono con te, sono per te, ti accolgo, ti proteggo, ti metto al centro della mia esistenza, mi dono a te, sei prezioso, e nella misura in cui il mio corpo recepisce lo stesso reciproco messaggio che proviene dalla persona amata. Tra il valore procreativo, che non vige per tutti gli atti sessuali, e quello unitivo si collocano il valore identitario (esisto come persona che può provare gioia nel corpo e nell’anima) e il valore relazionale (questa gioia dipende dal fatto che non sono solo, ma dal fatto che mi dono ad un altro che amo e lui/lei si dona a me). Mi dispiace, ma più penso a quello che accade ogni volta che faccio l’amore (nel senso vero della parola), più mi sento in sintonia con quel Dio che, pur essendo unico, è in sé relazione e comunione d’amore, più avverto in me l’immagine e la somiglianza, più risuona dentro di me, come un inno di felicità, la parola benedetta del Creatore: “non è bene che l’uomo sia solo…”. L’essere si intuisce, si costruisce e si completa come essere-in-relazione, e in ciò prova una gioia paragonabile a quella della Creazione. Lei, prof. Lorenzetti, queste cose le sa perché le ha studiate. Io le so perché le ho vissute, e le so anche perché posso fare dentro di me il confronto fra la sessualità che appartiene ad una relazione d’amore ad una sessualità disgiunta dall’amore, avendole vissute entrambe.
[La redenzione della sessualità] Nonostante la ricchezza e la profondità della sua opera esegetica, la Chiesa non ha mai canonizzato Origene di Alessandria, che arrivò ad evirarsi perché negli organi genitali, cioè nel corpo e nella sessualità, vedeva (come altri eretici prima e dopo di lui) solo il male, e non un dono di Dio per un’esistenza più gioiosa e sana. Non si arriva alla santità disprezzando il corpo e la sessualità e pensando che un essere umano debba “castrarsi”, poiché il corpo è dono di Dio, e insieme al corpo anche tutta la ricchezza relazionale e semantica che ne nasce. Negare a qualcuno il diritto alla propria sessualità, libera, gioiosa e sana, equivale a disprezzare la creazione, come fece il povero Origene, vittima di una visione distorta. Il problema però è che la Chiesa cattolica-romana anche oggi pare vittima della stessa visione distorta, nel momento in cui nega ad alcune persone il diritto alla sessualità. Si può essere omosessuali, dicono, ma non agire da omosessuali. È come se dicessero: è consentito avere fame, ma non è consentito mangiare; o come se dicessero ad una pianta: puoi crescere, ma non puoi fiorire. Attenzione: avere una vita sessuale non vuol dire necessariamente avere una vita disordinata, usare il corpo proprio e altrui per soddisfare solo gli istinti e l’egoismo. C’è chi agisce così anche fra gli eterosessuali: ma molti altri eterosessuali praticano una sessualità sana come linguaggio della relazione d’amore. La Chiesa dovrebbe invece insegnare che anche la sessualità è stata redenta da Cristo, e che l’unico modo con cui questa redenzione può avere luogo non è una rinuncia forzata, ma l’amore. Una sessualità guidata dall’amore e dal rispetto per sé e per l’altro è una sessualità che si pone in sintonia con il progetto redentivo di Cristo: il sacrificio pasquale, morte e resurrezione, forma la sorgente dell’amore che risana la nostra sessualità.
[Conclusione] Mi perdoni se sono stato prolisso, ripetitivo e se ho ecceduto in alcune espressioni. Ho cercato di parlare in modo sincero, con tutto me stesso, e temo di essermi lasciato trasportare dall’emotività…lei può immaginare quante sofferenza e quanta ricerca ci sia dietro ogni mia considerazione, e quanto io avverta ogni giorno, di fronte alla mia coscienza e di fronte al Padre la responsabilità del mio percorso di vita. Lo so che potrei sbagliarmi. Ma, anche nei momenti più bui e drammatici, ho sempre avvertito la Sua presenza e la Sua mano che mi guidava. Credo fermamente che Dio mi ama e mi sforzo di fare del mio meglio, so che Lui sa chi sono veramente e rimane dalla mia parte. A Lui, chiedo solo le briciole per i cagnolini.
Preghi per me, padre Lorenzetti. Grazie.
Don Lorenzetti non dice nulla di nuovo o di diverso rispetto a quanto un ecclesiastico possa dire; non mi pare che in questo articolo si facciano passi avanti rispetto ad una dottrina reazionaria e violenta come quella cattolica. Per fortuna, l’illuminismo ha fatto piazza pulita dell’ancien régime e delle pretese antievangeliche di cui sono stati sempre avidi gli uomini di Chiesa. Insomma, i politici italiani non possono sempre tenere conto della dottrina del Vaticano e non è possibile, ancora nel terzo millennio, disquisire su ciò che è naturale o meno. Infine, don Lonrenzetti dice una bugia: è falso affermare che la Chiesa è sempre stata in prima linea nella difesa dei diritti umani; farebbe bene a ripassare la storia per ricordare gli imbarazzanti silenzi della Chiesa sulla questione dei neri d’America, sul femminismo, sulla pedofilia, sulla tratta degli schiavi e altro.
NB: il mio primo commento (“Il minore parte… problematicità”) è un errore, ho solo copiato la frase incriminata di Lorenzetti 🙂 prego di rimuoverlo.
Un’intervista intelligente, per quanto sostenga idee contrarie alle mie (non per ideologia, ma per biologia: sono nato gay). L’unica caduta di stile è quando parla di adozioni gay: trovo che sia un puro delirio sostenere che, secondo “le scienze umane” (cioè umanistiche? non capisco), la corretta crescita di un bambino richiede genitori eterosessuali e non omosessuali.
La letteratura scientifica in ambito psicologico riconosce l’esatto contrario, quindi non ho davvero capito a cosa si riferisce Lorenzetti.
Sarebbe bello se il giornalista lo potesse ricontattare per chiedere una doverosa rettifica, oppure (se Lorenzetti si riferisce a ricerche specifiche che io non conosco) qualche riferimento bibliografico ad articoli scientifici a supporto della sua idea.
Il minore parte oggettivamente svantaggiato per una serie di controindicazioni: il ricorso alla fecondazione artificiale e, quindi, la violazione del diritto ad avere genitori certi. Inoltre, per crescere umanamente, ha bisogno, secondo le acquisizioni delle scienze umane, di due genitori maschile/femminile e non di due padri o di due madri. È vero che tanti minori, di fatto, sono in condizioni proibenti la loro crescita psicologica e umana. Ma questo non giustifica introdurre, per legge, scelte e decisioni così cariche di problematicità.
Noto con disappunto che il mio commento è stato censurato mentre certi deliri su Sodoma bruciata viva passano indenni la vostra censura. Riposto il commento sperando in un (tardivo) ravvedimento.
“Innanzi tutto un’osservazione di ordine generale: per quale ragione ogni volta che si parla di qualcosa anche soltanto lontanamente attinente al sesso o alla famiglia si continuano a consultare sacerdoti e religiosi, i quali per loro scelta hanno rinunciato a entrambi? Cosa fa di loro degli esperti in materia? Vi fareste curare da un non-medico? Seguireste consigli di una persona assolutamente inesperta? Io no. Né è possibile considerare esperto chi ha studiato una cosa viva come il sesso solo su dei libri, scritti a loro volta da persone che l’hanno studiato solo nei libri, e così via… La scienza non è solo memorizzazione, e in certi ambiti il sapere pratico è l’unico possibile.
Senza addentrarmi nelle spiegazioni teologiche di padre Lorenzetti, che anche in virtù del suo ruolo non possono che essere tese a ribadire le posizioni ufficiali della Chiesa cattolica, ovvero della gerarchia vaticana, mi soffermo sulla risposta alla prima domanda che gli è stata posta, perché è lì il nocciolo del problema. Secondo padre Lorenzetti infatti “L’atteggiamento polemico tra laici e cattolici in Italia (…) nasce da una serie di pregiudizi, da una parte e dall’altra” e “La contrapposizione conduce fatalmente allo scontro che azzera ogni confronto che può verificarsi soltanto nell’ascolto reciproco delle ragioni degli uni e degli altri”. Per Padre Lorenzetti gli omosessuali (a tratti parla anche di eterosessuali, ma l’essenziale del suo intervento riguarda il mondo omosessuale) avanzano pretese su degli pseudo-diritti, che diritti non sono in ragione delle motivazioni teologiche da lui dottamente esposte. Il riconoscimento di tali pseudo-diritti costituirebbe un aggravarsi del relativismo.
Ma cos’è questo relativismo, di cui si sente tanto parlare da quando Joseph Ratzinger è diventato prima Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, e poi Sommo Pontefice? Semplice: è il considerare come relativi dei concetti che secondo la dottrina della Chiesa cattolica sono assoluti e come tali veri e vincolanti anche per coloro che, per nascita o libera scelta, non sono cattolici. Se la Chiesa cattolica dice che la famiglia è solo quella eterosessuale, sancita da un matrimonio religioso, e il cui obiettivo è l’unione e la procreazione, così dev’essere per tutti, senza via di scampo. Quindi una vera famiglia è solo quella tra un uomo e una donna, sposati in chiesa, che abbiano almeno un figlio (salvo coloro impossibilitati per ragioni di salute). Sei gay e convivi da vent’anni con il tuo compagno/a? Non è una famiglia. Sei etero ma ti sei sposato in comune? Non è una famiglia. Sei etero e ti sei sposato in chiesa, ma hai scelto di non avere figli per ragioni tue? Non è una famiglia. Chissà se essendo ebreo, musulmano, buddista o induista la tua è una famiglia…?
Proporre un estensione del concetto di famiglia, come buon senso vorrebbe dato che la società evolve a un ritmo assai più rapido di quello della Chiesa cattolica, significa far prova di relativismo, ovvero tentare di rendere relativo ciò che è assoluto.
Possibile che la gerarchia cattolica non si renda conto che è solo la possibilità di relativizzare che permette la convivenza pacifica? Possibile che non capisca che è solo mettendoci tutti sullo stesso piano che possiamo avere gli stessi diritti? Che pensare di essere gli unici ad avere ragione conduce inevitabilmente a scannarsi gli uni con gli altri? Posso accogliere chi è diverso da me solo perché relativizzo le differenze che ci separano. Posso accettare persone che pensano e credono cose per me prive di senso – lo dico senza offesa – proprio in virtù del fatto che le relativizzo, ovvero che non riconosco né al mio pensiero né al loro un carattere assoluto, vincolante per tutti. Ciò lascia a loro la libertà di credere e praticare quello che vogliono – ma anche a me! È quando non relativizziamo che rischiamo guerre di religione, di razza, di casta.
E d’altronde come può una parte che pretende che la propria posizione sia assoluta e quindi vincolante per tutti chiedere un “ascolto reciproco delle ragioni degli uni e degli altri”?
Padre Lorenzetti, se il diritto di cui chiedo il riconoscimento lei lo considera un non-diritto in virtù di ciò in cui lei crede, come posso parlare con lei?
Se lei è il portatore della verità assoluta e considera la mia richiesta di maggiore apertura come una minaccia all’assolutezza della sua verità, come potrà ascoltare le mie ragioni?
Ma sopratutto, per quale ragione dovrei riconoscerle un potere vincolante sulle mie richieste quando io non credo in quello in cui crede lei?
Per quale motivo i laici devono contrattare con i cattolici per giungere a un punto d’incontro? Anche se si giungesse a quello che per la Chiesa cattolica è il peggiore dei casi, il riconoscimento del matrimonio omosessuale, l’equiparazione con quello eterosessuale, la possibilità dell’adozione di bambini con le stesse regole delle coppie eterosessuali, mi dica, in che cosa i diritti dei cattolici verrebbero calpestati? In che cosa la sua fede verrebbe lesa?
E invece seguendo la sua tesi i diritti di molti vengono calpestati, anzi addirittura disconosciuti, considerati dei non-diritti. E questo porta a difficoltà e sofferenze umane molto concrete, assai più dei distinguo teologici.
E’ per questo che non è possibile ascoltare “le ragioni degli uni e degli altri”.
Perché voi non volete riconoscere ciò che già è, una realtà viva ma diversa dalla vostra, e con il vostro rifiuto disumano perpetuate disuguaglianza, discriminazione, sofferenza.
Perché voi siete convinti di essere migliori di noi e di poter decidere al nostro posto.
Padre Lorenzetti, i pregiudizi stanno da una parte soltanto, la sua”.
Fino a quando i media daranno voce ai teologi e ai cattolici, la gente non verrà mai a capo della verità perchè il magistero della Chiesa Romana è in aperto contrasto ai vangeli (lettera a Tito 1,10-11)! Quindi, l’opinione di don Lorenzetti è lo specchio di una Chiesa lontana anni-luce dallo spirito del vangelo, perciò la tematica delle nozze gay è la prova evidente che viviamo negli ultimi tempi profetici sui cui il Vaticano è del tutto cieco. La realtà attuale è parallela allo stile di vita e di pensiero dell’antica Sodoma, che Dio bruciò viva perchè simbolo di perversione (Genesi 19,25): infatti, il Signore non tratterà diversamente i fornicatori moderni (1^ Corinzi 6,9 – Levitico 20,13)!
Innanzi tutto un’osservazione di ordine generale: per quale ragione ogni volta che si parla di qualcosa anche soltanto lontanamente attinente al sesso o alla famiglia si continuano a consultare sacerdoti e religiosi, i quali per loro scelta hanno rinunciato a entrambi? Cosa fa di loro degli esperti in materia? Vi fareste curare da un non-medico? Seguireste consigli di una persona assolutamente inesperta? Io no. Né è possibile considerare esperto chi ha studiato una cosa viva come il sesso solo su dei libri, scritti a loro volta da persone che l’hanno studiato solo nei libri, e così via… La scienza non è solo memorizzazione, e in certi ambiti il sapere pratico è l’unico possibile.
Senza addentrarmi nelle spiegazioni teologiche di padre Lorenzetti, che anche in virtù del suo ruolo non possono che essere tese a ribadire le posizioni ufficiali della Chiesa cattolica, ovvero della gerarchia vaticana, mi soffermo sulla risposta alla prima domanda che gli è stata posta, perché è lì il nocciolo del problema. Secondo padre Lorenzetti infatti “L’atteggiamento polemico tra laici e cattolici in Italia (…) nasce da una serie di pregiudizi, da una parte e dall’altra” e “La contrapposizione conduce fatalmente allo scontro che azzera ogni confronto che può verificarsi soltanto nell’ascolto reciproco delle ragioni degli uni e degli altri”. Per Padre Lorenzetti gli omosessuali (a tratti parla anche di eterosessuali, ma l’essenziale del suo intervento riguarda il mondo omosessuale) avanzano pretese su degli pseudo-diritti, che diritti non sono in ragione delle motivazioni teologiche da lui dottamente esposte. Il riconoscimento di tali pseudo-diritti costituirebbe un aggravarsi del relativismo.
Ma cos’è questo relativismo, di cui si sente tanto parlare da quando Joseph Ratzinger è diventato prima Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, e poi Sommo Pontefice? Semplice: è il considerare come relativi dei concetti che secondo la dottrina della Chiesa cattolica sono assoluti e come tali veri e vincolanti anche per coloro che, per nascita o libera scelta, non sono cattolici. Se la Chiesa cattolica dice che la famiglia è solo quella eterosessuale, sancita da un matrimonio religioso, e il cui obiettivo è l’unione e la procreazione, così dev’essere per tutti, senza via di scampo. Quindi una vera famiglia è solo quella tra un uomo e una donna, sposati in chiesa, che abbiano almeno un figlio (salvo coloro impossibilitati per ragioni di salute). Sei gay e convivi da vent’anni con il tuo compagno/a? Non è una famiglia. Sei etero ma ti sei sposato in comune? Non è una famiglia. Sei etero e ti sei sposato in chiesa, ma hai scelto di non avere figli per ragioni tue? Non è una famiglia. Chissà se essendo ebreo, musulmano, buddista o induista la tua è una famiglia…?
Proporre un estensione del concetto di famiglia, come buon senso vorrebbe dato che la società evolve a un ritmo assai più rapido di quello della Chiesa cattolica, significa far prova di relativismo, ovvero tentare di rendere relativo ciò che è assoluto.
Possibile che la gerarchia cattolica non si renda conto che è solo la possibilità di relativizzare che permette la convivenza pacifica? Possibile che non capisca che è solo mettendoci tutti sullo stesso piano che possiamo avere gli stessi diritti? Che pensare di essere gli unici ad avere ragione conduce inevitabilmente a scannarsi gli uni con gli altri? Posso accogliere chi è diverso da me solo perché relativizzo le differenze che ci separano. Posso accettare persone che pensano e credono cose per me prive di senso – lo dico senza offesa – proprio in virtù del fatto che le relativizzo, ovvero che non riconosco né al mio pensiero né al loro un carattere assoluto, vincolante per tutti. Ciò lascia a loro la libertà di credere e praticare quello che vogliono – ma anche a me! È quando non relativizziamo che rischiamo guerre di religione, di razza, di casta.
E d’altronde come può una parte che pretende che la propria posizione sia assoluta e quindi vincolante per tutti chiedere un “ascolto reciproco delle ragioni degli uni e degli altri”?
Padre Lorenzetti, se il diritto di cui chiedo il riconoscimento lei lo considera un non-diritto in virtù di ciò in cui lei crede, come posso parlare con lei?
Se lei è il portatore della verità assoluta e considera la mia richiesta di maggiore apertura come una minaccia all’assolutezza della sua verità, come potrà ascoltare le mie ragioni?
Ma sopratutto, per quale ragione dovrei riconoscerle un potere vincolante sulle mie richieste quando io non credo in quello in cui crede lei?
Per quale motivo i laici devono contrattare con i cattolici per giungere a un punto d’incontro? Anche se si giungesse a quello che per la Chiesa cattolica è il peggiore dei casi, il riconoscimento del matrimonio omosessuale, l’equiparazione con quello eterosessuale, la possibilità dell’adozione di bambini con le stesse regole delle coppie eterosessuali, mi dica, in che cosa i diritti dei cattolici verrebbero calpestati? In che cosa la sua fede verrebbe lesa?
E invece seguendo la sua tesi i diritti di molti vengono calpestati, anzi addirittura disconosciuti, considerati dei non-diritti. E questo porta a difficoltà e sofferenze umane molto concrete, assai più dei distinguo teologici.
E’ per questo che non è possibile ascoltare “le ragioni degli uni e degli altri”.
Perché voi non volete riconoscere ciò che già è, una realtà viva ma diversa dalla vostra, e con il vostro rifiuto disumano perpetuate disuguaglianza, discriminazione, sofferenza.
Perché voi siete convinti di essere migliori di noi e di poter decidere al nostro posto.
Padre Lorenzetti, i pregiudizi stanno da una parte soltanto, la sua.