Il sociologo Aldo Bonomi, tra i massimi studiosi italiani di sociologia economica, afferma, in un saggio di qualche tempo fa, che questo è il tempo del passaggio dall’utopia all’eterotopia.
Il concetto di “eterotopia designa luoghi aperti su altri luoghi la cui funzione è di far comunicare tra loro degli spazi. (…) Quindi centralità del luogo, del territorio, dello spazio e delle molteplici funzioni metropolitane che oggi danno identità ipermoderna alle piattaforme produttive e ai nodi metropolitani” (Aldo Bonomi, La Secessione dolce, in Il Mulino 4/2007).
Le parole di Bonomi provengono da un contesto socio-politico, quello lombardo, in cui è forte questa eterotopia funzionale e dove la sfida è quella del fare società laddove: “Costruire la società richiede di conseguenza attrezzarla di un tessuto intermedio di attori capaci o intenzionati non solo a interconnettere flussi e luoghi ma a instaurare più alta coesione sociale e più qualificati livelli di convivenza”.
La ricostruzione di un tessuto sociale fertile di iniziativa sembra dunque essere la sfida principale della post-modernità, pena la disgregazione sociale.
Ed oggi, nel tempo drammatico della crisi (economica e della “globalizzazione dell’indifferenza”) il “fare comunità” diventa prioritario. Insomma, più la società è aperta è più c’è bisogno di connessioni comunitarie.
In questo senso, allora, ridiventa attuale l’antico messaggio dei pensatori personalisti comunitari come Emmanuel Mounier, Denis deRougemont (un grande padre del federalismo europeo) e Jacques Maritain.
La “corrente calda” del personalismo non è rimasta rinchiusa nel dibattito filosofico politico del mondo latino contemporaneo ma si è fatta ideale storico concreto e ha influenzato tutta la seconda parte del Novecento ispirando movimenti ecclesiali, politici, sindacali e, perfino, imprenditoriali. A questo riguardo è illuminante l’esperienza di Adriano Olivetti.
Olivetti, infatti, ha cercato, con la fondazione del suo movimento (“Comunità” appunto) e con la sua opera di imprenditore illuminato, di rendere fattibile una prospettiva personalista e comunitaria dell’economia e del lavoro.
A partire da questa visione si può comprendere il termine olivettiano “comunità concreta” (che tocca molteplici aspetti: da quello istituzionale, a quello economico).
Infatti, oltre all’aspetto economico, l’impresa svolge una funzione sociale, creando, così, opportunità d’incontro, di valorizzazione delle persone coinvolte. La dimensione economica, quindi, è condizione per il raggiungimento di obiettivi che “superano” l’economia. Ovvero “l’azienda non può essere vista solo come una “società di capitali”. Essa è ,al tempo stesso, una “società di persone”, della quale entrano a far parte in modo diverso e con specifiche responsabilità sia coloro che mettono il capitale necessario per la sua attività, sia coloro che vi collaborano col loro lavoro” (Giovanni Paolo II, Centesimus Annus n° 43).
Insomma devono essere consapevoli che la comunità nella quale operano rappresenta un bene per tutti e non una struttura che permette di soddisfare esclusivi interessi di qualcuno.
E le parole di Olivetti ai lavoratori, quelle espresse ailavoratori di Pozzuoli (sta in Adriano Olivetti, “Ai lavoratori” , Ed. Comunità, 2013, pagg. 55. € 6,00) sono indicative di questo approccio. Parlando del salario dei lavoratori Olivetti usa un termine particolare: risarcimento. Scrive, al riguardo Luciano Gallino: “stando a questo concetto, i lavoratori traggono indubbiamente un vantaggio dall’impresa che fornisce loro i mezzi di produzione. Da questi derivano i salari che poi si trasformano in ‘pane, vino ecasa’. (…) In questo senso essi sono in debito con l’impresa. Per un altro verso, l’impresa contrae un debito reciproco con i lavoratori a causa della fatica che richiede loro, delle capacità professionali che sfrutta, degli oneri che a causa della fatica che richiede loro, delle capacità professionali che sfrutta, degli oneri che a causa dei suoi tempi e modi di produrre scarica sulla famiglia. Pertanto essi maturano il diritto ad essere risarciti in diverse non solo economiche. (…) LE CONDIZIONI di lavoro che la sua ‘fabbrica’offriva,fosse quella di Ivrea, Pozzuoli o di altre parti d’Italia e del mondo, erano un modo per risarcire i lavoratori per tutto quanto loro davano ad essa. In simile idea di corrispondenza tra due forme di debito, di un lavoratore che riceve i mezzi per lavorare ma con la sua forza lavoro pone l’impresa in condizione di produrre e guadagnare, e per questo matura il diritto a un risarcimento al tempo stesso economico, culturale e morale, è insita un’idea di persona, di impresa, di società in cui si vorrebbe vivere, la cui scomparsa nella prassi delle imprese avvenuta dopo di allora non è l’ultima causa dei problemi che nella nostra epoca assillano il mondo del lavoro”.
L’antifascista Olivetti crede nei valori della cultura e dello spirito: “La nostra Società – dice agli operai – crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possono essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto”. Insomma il rigore dell’impresa coniugato con il rigore della cultura umanistica. Siamo davvero lontani dall’approccio puramente “aziendalista” di questi tempi (vedi Marchionne).
È il passaggio dalla logica della competizione alla logica dell’integrazione. In questo il binomio “Persona e Comunità” può costituire un punto strategico per il futuro.
Cosa sia l’integrazione lo si può provare a dirlo con le parole, un poco difficili, di Felice Balbo: “L’integrazione è l’unione di due o più alterità, quando tale unione implica un bene comune per entrambe le alterità, proveniente a ciascuna dall’alterità stessa, così che ogni alterità, proveniente a ciascuna dell’alterità appaga i bisogni delle altre, precisamente mediante tale alterità. Avviene in due modi tipici:
1. Con sacrificio. E dunque per amore di carità, mediante il quale un’alterità annulla parte o tutto disé, della natura propria sua, per dare luogo a vita, espansione, sviluppo dell’altra o delle altre. In questo caso, se non c’è amore di carità, mediante il quale la natura di chi perde non rivendica nulla rispetto all’altra, c’è distruzione parziale o totale e non integrazione. Non richiede operazioni ma si esaurisce nell’atto.
1. Con potenziamento reciproco. È l’integrazione vera e propria. Questo tipo di integrazione avviene con la creazione di un bene nuovo che media, superando, le alterità, e quindi con l’operazione, e quindi con la costruzione di esemplari per la riforma delle condizioni di partenza. L’esemplare è ciò che indica la realtà possibile, deside- rabile in solido dalle alterità, superante e conservante le alte- rità stesse” Produrre “l’esemplare” è il valore aggiunto di una logica comunitaria. (Persona e Comunità, Ed. Città Aperta) ..
Con questo non si vuole prospettare nessun tipo d’integralismo organicistico comunitario. Anzi qui siamo nel “regno della libertà”: “Il potenziamento reciproco, di cui parla Balbo, rappresenta il risultato solo possibile, ma non necessario, di una scelta, di un’azione complessa in cui le differenti valenze o dimensioni qualitative delle persone possono trasformarsi e completarsi reciprocamente in virtù di uno scambio ricercato e voluto”.
Siamo lontani, qui, in questo dalla logica d’impresa-comunità di stampo giapponese. Scrive giustamente lo storico dell’economia, Giulio Sapelli, ricostruendo le basi shintoiste della cultura d’impresa nipponica: “È un’idea di comunità in cui non esiste l’Io (in Giappone non c’è una parola che etimologicamente voglia dire “Io”). È un’idea di comunità che implica l’assenza della persona; la persona è annichilita dalla collettività”. L’azienda-comunità, come la intende la cultura personalista, è invece emancipazione della persona. E sullo sfondo c’è la costruzione, l'”esemplare”di cui parlava Balbo, di una società del lavoro libero, dell’impresa e della partecipazione.