La situazione politica italiana è sempre piena di tensioni. Il “caso Shalabayeva” è tutt’altro che chiuso. Intanto nel PD crescono tensioni. Matteo Renzi, Sindaco di Firenze, cresce sempre più come leader del Centrosinistra. Ne parliamo con Marco Damilano, cronista politico del settimanale “L’Espresso”.
Damilano, incominciamo dalla cronaca: Il Presidente Napolitano, durante la “cerimonia del Ventaglio”, ha messo al sicuro il governo Letta. Lo è davvero?
«Il presidente Napolitano ha presentato il governo come privo di alternative, ha parlato di “conseguenze irreparabili” in caso di caduta. Sicuramente il caso Alfano ha indebolito il governo, ogni giorno nuove rivelazioni sull’affaire Kazakistan dimostrano la fragilità della versione ufficiale offerta dal ministro dell’Interno che è anche vice-premier e segretario del Pdl. C’è l’eventuale condanna definitiva di Berlusconi sui diritti Mediaset che pesa sul destino del governo. C’è il Pd sempre più nervoso. E c’è l’agenda di governo: i tanti dossier rimandati all’autunno, dall’Imu all’Iva alle riforme. È lo stato di necessità che mette per ora al sicuro il governo Letta».
Veniamo a Matteo Renzi. In un’intervista di qualche giorno fa alla “Stampa” di Torino, Lui si è detto stufo della guerriglia dei “maggiorenti” del PD nei suoi confronti. Però, a ben osservare, anche Renzi non scherza: sono quotidiane le sue critiche al governo. Adesso sceglie il “silenzio stampa”….durerà?
«Non credo. C’è il generale Agosto in arrivo, come disse una volta Craxi parafrasando Napoleone nella campagna di Russia, ma Renzi ha l’esigenza di rimanere fedele al suo personaggio: si è intestato il monopolio della critica interna alla maggioranza, molti elettori del centrosinistra sono d’accordo con lui, ha recuperato in parte quella parte della base Pd che un anno fa lo considerava troppo filo-berlusconiano. Ma deve evitare l’impressione di essere strumentale, distruttivo, “smanioso”, come ha detto Letta al Senato alludendo chiaramente al sindaco di Firenze».
Parliamo del rapporto tra Matteo Renzi ed Enrico Letta. I due protagonisti si definiscono “amici”. Entrambi sono di cultura politica democristiana. Emerge, però, sempre più una certa rivalità. E’ così?
«Sono i cavallini di razza eredi della Dc. Molto diversi da D’Alema e Veltroni che erano di scuola Pci. Letta e Renzi saranno certamente rivali, ma sanno bene che lo scontro deve fermarsi sulla soglia della distruzione reciproca. Non arriveranno mai a farsi del male in modo irreparabile. Nella Dc i grandi scontri preparavano i grandi patti: il patto di San Ginesio alla fine degli anni Sessanta tra i due quarantenni De Mita e Forlani per far fuori i vecchi, per esempio, che fu poi ribaltato dal patto di Palazzo Giustiniani tra Fanfani e Moro, la rivincita dei seniores. Guerra, pace, di nuovo guerra. Senza però mettere a rischio il partito che era la base del potere di tutti».
Damilano Lei ha fatto un paragone interessante: Renzi è il Fanfani del XXI secolo. Perché?
«Fanfani, prima di tutto, era toscano come Renzi, di Arezzo. È stato il primo leader rottamatore: nel 1954 mandò a casa tutto il gruppo dirigente degasperiano e popolare che pure poteva contare su personaggi importanti come Piccioni o Gonella, si salvò solo Andreotti che però era molto giovane. Movimentista, attivista, lo chiamavano il Motorino, arrogante, accentratore, temuto e mal sopportato dagli altri capicorrente, che lo temevano e provavano a logorarlo. Soprattutto è stato l’uomo dello “sfondamento”: a sinistra negli anni Cinquanta-Sessanta, alla conquista dell’elettorato comunista e socialista con le riforme sociali, a destra negli anni Settanta, con il referendum sul divorzio. L’idea modernissima che il partito non ha un recinto di voti pre-stabilito ma può conquistare anche elettorati in apparenza lontani: questo è il punto di contatto con Renzi».
Veniamo al Congresso del PD. “Renzi pone come condizione per la sua candidatura le “primarie aperte”. Come andrà a finire la questione?
«È un problema che non esiste: vista la debolezza degli altri candidati, da Cuperlo a Civati, Renzi può vincere anche nella platea dei soli iscritti. Ancora per qualche settimana deve dimostrare incertezza per motivi di marketing: il timing, il mito della discesa in campo. E anche un motivo più politico: appena la candidatura sarà ufficializzata dovrà dare risposte sul partito e sul governo meno generiche di quelle che può permettersi ora. Ora è in una posizione comoda, è “fuori”, da candidato sarebbe costretto a stare “dentro”».
Quali sono i limiti politici di Renzi? La sua impazienza?
«Un carattere poco incline a fare gioco di squadra. E una certa indifferenza ai contenuti: sull’economia è passato in due anni dal liberismo di Zingales al neo-laburismo, sui temi etici ha partecipato al Family Day contro il governo Prodi e ora attacca l’ingerenza della Chiesa nella politica. Sulla fretta no, ha ragione lui».
Qual è, invece, la sua carica d’innovazione nella politica italiana?
«Cito una frase di Dario Franceschini che diceva nella Dc: “A trent’anni sei da asilo, a quarant’anni un presuntuoso, a cinquanta puoi cominciare a pensare al futuro, a sessanta sei un segnale di rinnovamento”. Ecco, Renzi rompe questo schema. Ed è un valore assoluto per un sistema politico paralizzato, consociativo e conformista come il nostro».