Perché NO agli F35? Intervista a Gianni Alioti

IMG_4455 Si ritorna a parlare di F35, il caccia bombardiere della Locked,messo sotto accusa per i costi eccessivi e, per alcuni esperti, anche per la scarsa affidabilità. Il programma tocca ovviamente molteplici punti per l’italia : da quello politico militare a quello economico. Ne parliamo con il sindacalista Gianni Alioti, responsabile dell’Ufficio Internazionale della Fim-Cisl (il sindacato dei metalmeccanici della Cisl).

Alioti, quali sono i costi del programma “Joint Strike Fighter” (F35)?

Gli “F35” – sviluppati e prodotti dalla Lockheed Martin – sono il programma più costoso di tutti i tempi nella storia degli armamenti convenzionali. Ad ogni monitoraggio da parte del Government Accountability Office (Goa), la sezione investigativa del Congresso degli Stati Uniti d’America dedita all’auditing e alla valutazione, i costi del programma si moltiplicano. Nell’ultimo rapporto del Goa, pubblicato il 24 marzo 2014, i costi di sviluppo e produzione degli F35 sforano le previsioni iniziali di ben 160 miliardi di dollari (circa il 75% in più). Se guardiamo all’intero ciclo di vita del programma (che include la gestione, le manutenzioni e le riconfigurazioni ecc.) il Congresso Usa stima un costo totale di mille e cinquecento miliardi di dollari. Una follia per i contribuenti americani! Un bancomat – a ricarica illimitata – per la Lockheed Martin………..

Eppure molte persone si sono scandalizzate “ideologicamente” quando l’amministrazione Obama è intervenuta, ad esempio, con risorse pubbliche per salvare l’industria dell’auto dalla bancarotta. Le stesse, però, non s’interrogano su come lo Stato americano interviene nell’economia e nelle politiche industriali attraverso le ingenti spese militari. Con un’aggravante! Nel caso di GM e Chrysler, i soldi ricevuti in prestito dal Governo sono stati restituiti – in pochi anni – con gli interessi. Eppure nel caso di Lockheed Martin e dell’intero complesso militare-industriale i soldi erogati dal Pentagono alimentano un “pozzo senza fondo”. Se si analizza, infatti, l’andamento crescente delle spese militari e del debito pubblico negli Usa – da metà degli anni’90 al 2012 – le due curve coincidono.

In Italia i costi della nostra partecipazione al programma dipenderanno dalla scelta finale d’acquisto. Se fosse confermato l’ordinativo di 90 aerei, ai costi attuali, finiremmo per spendere oltre 14 miliardi di euro. Ma la stima totale dei costi per l’intero ciclo di vita del programma supera i 52 miliardi di euro (circa 70 miliardi di dollari).

Quanto ha già speso l’Italia per gli F35?

Sono stati già spesi ad oggi 3 miliardi e 400 mila euro. La cifra ha riguardato – dal 1998 ad oggi – la partecipazione alla fase di ricerca e sviluppo del prodotto, la realizzazione di una linea di assemblaggio dedicata agli F35 a Cameri (intorno agli 800 milioni di euro equivalente all’investimento di Fiat a Pomigliano) e l’acquisto dei primi 6 aerei. E’ di questi giorni la notizia che il Segretariato Generale della Difesa – senza aspettare le decisioni di Camera e Senato per la conferma dei contratti definitivi d’acquisto – ha firmato l’ordinativo per parti, materiali e componenti dei lotti di produzione 8 e 9. Significa predeterminare l’acquisizione di altri otto o quattro aerei, in aggiunta ai primi sei. In pratica il Governo Renzi, al momento, si è limitato a bloccare l’iter di contrattazione preliminare con gli Stati Uniti per gli aerei del 10° lotto annuale di produzione.

Quali sono i limiti strategici del programma? A quale di modello di Difesa fa riferimento il programma?

Il Joint Strike Fighter F35 è un aereo con caratteristiche stealth, in pratica invisibile ai radar. E’ stato concepito negli anni’90 come un unico caccia-bombardiere in grado di sostituire – con tre versioni differenti – altre tipologie di aerei da combattimento in uso alle forze armate americane (aeronautica, marina e marines).

Non ho competenza alcuna per giudicare il programma dal punto di vista strategico militare…….. Ma per quel poco che ho letto esistono molti dubbi – anche in ambienti militari – che questo programma rifletta il mutato contesto strategico e risponda coerentemente alle reali minacce alla sicurezza presenti su scala mondiale. Se, però, valutiamo i ritardi accumulati (sette anni), i tantissimi problemi tecnici non risolti e l’aumento esponenziale dei costi, mi sento di affermare che la decisione di continuare a investire negli F35 dimostra – ancora una volta – che non sono gli scenari geo-politici emergenti a decidere la struttura delle forze armate e quali sistemi d’arma debbano essere sviluppati dall’industria militare, ma viceversa.

Uscendo dal programma si rischia di pagare costose “penali”?

La Rete Disarmo ha dimostrato – documenti alla mano – che l’uscita dal programma non comporta alcun pagamento di penali………….Se si decidesse di uscire ora dal programma F35, l’Italia dovrà rispondere solo dei contratti firmati per l’acquisto definitivo dei primi sei aerei e di questo ennesimo pasticcio sui lotti di produzione 8 e 9.

Quali sono le ripercussioni sul piano occupazionale?

A distanza di anni un consuntivo sulle ricadute occupazionali del programma JSF F35 può essere fatto. La prospettiva di creazione di due mila posti di lavoro subito e dieci mila a regime, principale argomento usato per convincere politica e parlamentari a sostenere l’entrata dell’Italia nel programma, si è rivelata falsa. Erano stati nel 2007 l’ex-sottosegretario alla Difesa, Forcieri, l’ex-ministro Parisi e il generale Tricarico, allora capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica italiana, a sbandierare questi numeri.

Nel 2012 l’ex-ministro della Difesa, ammiraglio Di Paola ha ridato i numeri, mai smentiti dal suo successore Mauro. Aveva sostenuto che il programma degli F35 significava una crescita operativa, tecnologica e occupazionale notevole: 10mila posti di lavoro in 40 aziende, con particolari effetti positivi sulla base militare di Cameri, in provincia di Novara”. L’unica differenza con i dati del 2007 è che non si parlava più di nuovi posti di lavoro, ma di sostituzione. Il calo di migliaia di occupati nell’industria aeronautica italiana non poteva nel 2012 essere più occultato. Uno dei pilastri della politica bipartisan a sostegno degli F35 si è sgretolato miseramente. E l’argomento occupazione a sostegno del programma F35 si è rivelato un boomerang contro coloro che lo hanno lanciato.

A distanza di 7 anni, nonostante una spesa di 3,4 miliardi di euro le persone impegnate direttamente a Cameri sono solo alcune centinaia (in maggioranza trasferite da Torino) e fino al 2018 non supereranno le 600 unità. Secondo fonti industriali si parla – nell’ipotesi più ottimistica – di un impiego a regime dopo il 2018 di circa 1.600 persone a Cameri (circa il 70% della fabbricazione delle ali + assemblaggio finale dei F35 italiani e olandesi), a cui bisogna aggiungere circa 700 persone tra Caselle, Foggia e Nola + l’outsourcing (alcune centinaia di addetti in aziende di componentistica elettronica, elettrica, idraulica ecc.). Non si supererebbero, nel totale di 20-40 aziende coinvolte, i 2.500 addetti complessivi. Secondo nostre fonti, più realistiche, non si supererebbero i 1.500 addetti. Tranne alcune nuove assunzioni a Cameri, parliamo di lavoratori già occupati – nelle aziende coinvolte – spostati sul programma F35.

Quante sono le aziende italiane impegnate nel programma?

Se ci atteniamo alle cifre dichiarate nelle audizioni parlamentari dal Segretariato Generale della Difesa e da Finmeccanica, le imprese italiane coinvolte nel progetto sarebbero circa 90 con contratti finora stipulati per complessivi 715 milioni di dollari, 565 dei quali da aziende di Finmeccanica. In comunicazioni dirette della Rete Disarmo con l’ufficio Lockheed Martin in Italia risulta che “il totale delle aziende della supply chain italiana a cui sono stati assegnati dei contratti di fornitura direttamente dall’azienda americana (senza contare i contratti di subfornitura assegnati da altri partner del programma) è pari a 27”. Di queste solo 14 hanno, in questo momento, contratti attivi sul programma F35 (molto meno delle stime diffuse dalla Difesa).

Secondo un rapporto della campagna “Taglia le ali alle armi” il ritorno industriale, rispetto agli investimenti, sarebbe del 19 %. Troppo poco per un programma dai costi esorbitanti. E’ Cosi?

L’analisi prodotta dalla Rete Disarmo non è stata smentita. Tiene conto del totale dei contratti sottoscritti dalla Lockheed Martin con le aziende italiane, per una valore totale di 667 milioni di dollari, circa 530 milioni di euro. Per la linea di assemblaggio di Cameri si tratta di soli 136 milioni di dollari (circa 110 milioni di euro) che potranno crescere solo con ulteriori acquisti italiani di F35 o di eventuale inizio di produzione degli aerei olandesi. Siamo, pertanto, di fronte ad un ritorno inferiore ai 700 milioni di euro, a fronte di una spesa già effettuata di circa 3,4 miliardi di euro (fasi di sviluppo + primi acquisti) con un ritorno del 19%.

I vantaggi industriali e occupazionali attesi sono nei fatti molto meno di quanto si è sostenuto in ambito politico e militare a sostegno della partecipazione italiana al programma. La prima “vittima” è stata l’Avio -partner di Rolls-Royce – che con la scelta americana di utilizzare un solo motore – quello della canadese Pratt&Whitney – rimane esclusa. La seconda è la Selex ES (l’azienda di elettronica per la difesa di Finmeccanica) che porterà a casa “solo della minutaglia”. Solo adesso molti si accorgono che il ruolo di partner di 2°livello per l’industria italiana nel programma F35 significa essere semplicemente dei sub-fornitori (spesso marginali), lontani dal ruolo primario giocato nel programma Eurofighter.

Qual è la posizione del sindacato sugli F35?

La domanda andrebbe declinata al plurale, nel senso che nei sindacati esistono – come è ovvio – diverse posizioni. Come ufficio internazionale della Fim-Cisl abbiamo da subito “fatto le pulci” al programma F35. Non solo con uno sguardo critico allo spreco di risorse pubbliche, ma anche dal punto di vista delle ricadute industriali, ingegneristiche, tecnologiche e occupazionali. Abbiamo smontato le reiterate bugie sui nuovi posti di lavoro e abbiamo chiesto – a tutti gli attori coinvolti – di ripristinare verità e responsabilità. Siamo stati parte attiva nel lavoro della Rete Disarmo (di cui siamo – insieme alla Fiom-Cgil – tra i promotori) e della campagna “Taglia le ali alle armi”. Non senza contraddizioni e differenti opinioni al nostro interno, specie con alcune strutture territoriali. Non senza divisioni tra le diverse sigle sindacali. Ma non abbiamo mai perso la “bussola”…… dei nostri valori statutari. E il tempo ha confermato che le nostre critiche – mai ideologiche – erano fondate su solidi argomenti e su un’analisi/conoscenza della realtà. Devo, però, ammettere che nel 2006-2007 e negli anni successivi non è stato per nulla facile, da sindacalisti metalmeccanici, compromettersi con il No agli F35.

Esistono alternative al Programma F35? Quale modello di Difesa è più adatto al nostro Paese?

E’ sempre più frequente che ci vengano imposte scelte economiche, politiche e militari con l’argomento che non esistono alternative. E’ successo anche per giustificare la partecipazione italiana al programma F35. Quante volte ci siamo sentiti dire che l’uscita da questo programma equivarrebbe a rinunciare all’’aeronautica militare italiana? Oppure che l’F35 è l’unica alternativa per sostituire 160 aerei (Tornado, Amx e Av-8b Harrier) che – nell’arco di 15 anni saranno dismessi? O che sono indispensabili, nella versione a decollo verticale, per le nostre portaerei?

In realtà le alternative esistono, come dimostrano le scelte di Francia e Germania e della maggioranza dei paesi dell’Unione Europea, con i quali dovremmo essere impegnati a costruire una Difesa comune. Se la Francia ha puntato ai suoi caccia Rafale prodotti dalla Dassault, la Germania sta sviluppando una nuova versione del caccia multi-ruolo Typhoon Eurofighter per coprire, oltre le funzioni di intercettazione (terra-aria) anche quelle di attacco al suolo (aria-terra).

L’elaborazione di un nuovo modello di Difesa italiano dovrebbe – pertanto – inquadrarsi nell’impegno europeo, finalizzato a una politica di sicurezza e di difesa comune. Ciò dovrebbe valere anche per le politiche di approvvigionamento delle forze armate di ciascun paese, nella prospettiva di una maggiore integrazione e razionalizzazione dello strumento militare. L’orizzonte dentro il quale misurare e valutare le scelte del nostro paese, anche in materia di sistemi d’arma e di politiche industriali, non può che essere il rafforzamento dell’identità europea della Difesa. L’opposto della scelta compiuta con la partecipazione al programma F35!

Il PARTITO DELLA POLIZIA. UN LIBRO DI CHIARE LETTERE

 

IL PARTITO DELLA POLIZIAImputati. Condannati. Premiati. Nessun abuso può essere commesso contro cittadini inermi. Se non è così, i responsabili devono saltare. In Italia ciò non è avvenuto. E continua a non avvenire, dai tempi delle torture alle Br fino alle morti di Cucchi, Aldrovandi, Uva e molti altri: la polizia non garantisce la sicurezza, la politica non sorveglia, la stampa non sempre denuncia, la magistratura non sempre indaga. Perché questa anomalia? Come rivela Filippo Bertolami, poliziotto e sindacalista, “negli ultimi anni si è assistito al paradosso di un sistema capace da un lato di coprire e premiare i colpevoli di violenze e insabbiamenti, dall’altro di punire chi ha ‘osato’ mettersi di traverso”.

Vince la paura. Il partito della polizia è troppo forte. troppe protezioni politiche a destra e a sinistra. Da Berlusconi a Prodi, Violante, Renzi. De Gennaro, ora presidente di Finmeccanica, e i suoi collaboratori non si toccano. Troppe onorificenze. Troppe amicizie. Anche tra i media. Intanto le auto rimangono senza benzina e gli agenti continuano ad avere stipendi da fame mentre vengono assegnati appalti miliardari. Il partito della polizia è anche il partito degli affari. “Se non c’è una cultura del diritto in chi orienta il pensiero collettivo – sostiene il criminologo Francesco Carrer – mi chiedo come possa nascere in un corpo di polizia i cui vertici sono più attenti ai desiderata dei politici che alle esigenze di chi è in prima linea.” Un libro duro, appena uscito in libreria, questo di Marco Preve che fa riflettere su questo sistema trasversale e potente.

 

 Marco Preve, giornalista, è nato nel 1963 a Torino. Cresciuto a Savona, vive a Genova dove è cronista di giudiziaria, ma non solo, della redazione locale de “la Repubblica”. Ha seguito le indagini sul serial killer Donato Bilancia, il giallo della contessa Agusta, le principali inchieste in tema di corruzione e soprattutto il G8 di Genova del 2001 e tutti i processi che ne sono seguiti. Collabora con “l’Espresso” e “Micro-Mega”. Ha un blog intitolato “Trenette e mattoni”, e ha scritto due libri, sempre con Chiarelettere: IL PARTITO DEL CEMENTO, nel 2008, con Ferruccio Sansa; LA COLATA, nel 2010, con Ferruccio Sansa, Andrea Garibaldi, Antonio Massari e Giuseppe

Marco Preve Il Partito della Polizia. Il sistema trasversale che nasconde la verità degli abusi e minaccia la democrazia, Chiarelettere, Milano 2014, pagine 288, € 13,90

 

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del libro:

La fotografia

 Cominciamo da una tavolata. Perché alla fine, in Italia, quello che conta è dove ti hanno messo a sedere. Il 17 dicembre 2009, sulla terrazza coperta dell’hotel Eden di Roma, un nutrito gruppo di irriducibili si riunisce per celebrare, e proseguirne la missione nel mondo, la gran sacerdotessa dei salotti della capitale, Maria Angiolillo, scomparsa due mesi prima.

A organizzare la serata è una parlamentare allora del Pdl, Giustina Destro. Uno dei re dei paparazzi, il fotografo Umberto Pizzi, immortala questa rentrée di adepti per il sito di «Dagospia». In un tripudio di abbronzature fuori stagione, décolleté generosi, cravattoni, gessati, nasi affilati e grandi labbra, Pizzi, come un novello Pellizza da Volpedo, sforna un affresco dell’«Ultra» Stato. C’è naturalmente la schiera dei politici, soprattutto di destra, e accanto a loro celebri giornalisti di destra e sinistra, della tv e della carta stampata, da Bruno Vespa a Lucia Annunziata passando per Stefano Folli e Antonio Di Bella, garanti della concorrenza, futuri sottosegretari e viceministri come Antonio Catricalà, direttori generali Rai come Mauro Masi, l’amministratore delegato delle nostre ferrovie Mario Moretti, imprenditori, finanzieri, il presidente della Lega Calcio ed ex direttore di Confindustria Maurizio Beretta, e tante belle signore, alcune importanti come la manager Eni Raffaella Leone o la produttrice Edwige Fenech, altre, accompagnatrici di uomini in vista. Durante la cena siederanno a gruppetti

sapientemente miscelati. La serata sembra rispondere a una sola regola: promiscuità totale. Mondi che, per un corretto funzionamento della democrazia e del fondamentale rapporto controllori e controllati, dovrebbero forse frequentarsi solo in situazioni istituzionali o professionali, e invece qui brindano, si baciano e abbracciano, si mettono in posa per le foto e soprattutto mostrano grande intimità.

Ma, a noi, è una sola la tavolata che interessa. Ed è quella dove, forse, tutti vorrebbero stare. Lo si capisce prima di tutto dal fatto che proprio lì troviamo la «padrona di casa», l’onorevole Giustina Destro. E poi perché le mani appoggiate sulla candida tovaglia, illuminata solo da candele racchiuse in bicchierini di vetro rosso, sono quelle dei massimi simboli del potere.

Ognuno è lì a rappresentare il proprio partito. Il partito della politica, prima di tutto, con la Destro in compagnia del più volte ministro Claudio Scajola; il partito del cemento con il costruttore Francesco Bellavista Caltagirone; il partito del dietro le quinte con Maddalena Letta, moglie dell’intramontabile Gianni. E poi c’è il partito della polizia, con il suo capo, il prefetto Antonio Manganelli.

Che certi «attovagliamenti», come li definisce «Dagospia», possano riservare imbarazzanti sorprese, lo scopriremo più avanti, in una delle tante vicende nebulose che racconteremo in queste pagine provando a fare chiarezza. Ma ora quel che conta è la premessa di partenza: per un lungo arco temporale della storia italiana, periodo tuttora in corso, il gruppo di vertice della nostra polizia si è comportato come se fosse un partito.

 

Ricordando lo spirito di Tibhirine

4ce5641beeNella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996, sette dei nove monaci che formavano la comunità del monastero di Tibhirine, fondato nel 1938 vicino alla città di Médéa 90 km a sud di Algeri, furono rapiti da un gruppo di terroristi. Il 21 maggio dello stesso anno, dopo inutili trattative, il « Gruppo Islamico Armato » ha annunciato la loro uccisione. Il 30 maggio furono ritrovate le loro teste, i corpi non furono mai ritrovati.
I loro nomi sono:
• Christian de Chergé, 59 anni, monaco dal 1969, in Algeria dal 1971.
• Luc Dochier, 82 anni, monaco dal 1941, in Algeria dal 1947.
• Christophe Lebreton, 45 anni, monaco dal 1974, in Algeria dal 1987.
• Michel Fleury, 52 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1985.
• Bruno Lemarchand, 66 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1990.
• Célestin Ringeard, 62 anni, monaco dal 1983, in Algeria dal 1987.
• Paul Favre-Miville, 57 anni, monaco dal 1984, in Algeria dal 1989.

Due monaci della comunità scamparono al sequestro, Amédée Noto e Jean-Pierre Schumacher.

Le circostanze della loro morte non sono mai state chiarite: c’è chi addossa tutta la responsabilità ai terroristi, altri, invece, ai servizi segreti algerini e c’è chi ipotizza che a causare il loro eccidio fu un tentativo, non riuscito, di liberarli da parte dell’esercito algerino.

Il loro martirio è un segno luminoso e drammatico di una Chiesa che si pone con spirito di fraternità nei confronti dell’Islam.

L’ideale dei monaci di Tibhirine era la “simbiosi tra esseri umani differenti, per realizzare una comunità umana e fraterna nel rispetto delle differenze” (Frère Jean-Pierre – Nicolas Ballet, Lo spirito di Tibhirine, Ed. Paoline, Milano 2014, pag. 154).

Per saperne di più sulla vita della fraternità dell’ Atlas si può visitare il sito http://www.monastere-tibhirine.org .

Nel 18° anniversario della tragedia pubblichiamo il bellissimo testamento spirituale del priore della comunità.

L’immagine che pubblichiamo è tratta dal sito: http://vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/tibhirine-algeria-monaci-8201/

Testamento spirituale del Padre Christian de Chergé

Quando si profila un ad-Dio

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.
Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me : come potrei essere trovato degno di tale offerta ? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.
La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.
Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.
Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la “grazia del martirio”, il doverla a un algerino chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam.
So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.
L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa; sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.
Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità.
Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.
Di questa vita perduta, totalmente mia, et totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.
In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!
E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen!
Insc’Allah

Algeri, 1º dicembre 1993
Tibhirine, 1º gennaio 1994 Christian

Il boom della massoneria. Intervista a Gianfrancesco Turano.

UnknownIl prossimo mese di aprile, con la “Gran Loggia” di Rimini (una sorta di super kermesse massonica),si insedierà Stefano Bisi  il nuovo “Gran Maestro” del “Grande Oriente d’Italia”(la principale “obbedienza” massonica italiana).  Il Goi ha conosciuto, in questi ultimi anni, un incremento notevole d’iscrizioni. Per capire le ragioni, e i problemi, di questo “boom” abbiamo intervistato Gianfrancesco Turano, autore di una inchiesta sulla Massoneria, giornalista del settimanale L’Espresso.

 

Turano, diamo qualche numero: quanti sono, in Italia gli affiliati alla Massoneria (mettendo insieme le due “obbedienze” massoniche quella del Goi – Grande Oriente d’Italia- e degli Alam – Antichi liberi accettati muratori-)?

 

Le due “obbedienze” hanno circa 32000 affiliati, poi c’è una terza “obbedienza” nell’ordine di qualche migliaio che è la Gran Loggia Regolare d’Italia, che sono gli scissionisti del Grande Oriente. Quindi calcoliamo che con queste principali tre obbedienze sono  circa 35000 affiliati, poi ci sono tutte le centinaia di obbedienze che sono abbastanza difficili da scoprire.

 

Il Goi, con il “Gran Maestro” Raffi, è passato da 9 mila a 22 mila  iscritti.  Come spiega questo “boom” anche tra i giovani?

 

Sicuramente è legato, da un lato, ad una campagna fatta dal Gran Maestro uscente Raffi, fatta negli ultimi quindici anni della sua gran maestranza, ha fatto una campagna molto diretta, molto movimentista e ha avuto ragione, perché la sua campagna ha conciso con una profonda crisi dei partiti, quindi la massoneria è stata vista come un’alternativa ad altre associazioni viste come declinanti. In Italia c’è sempre stato il bisogno di  creare delle reti che fossero più o meno evidenti, trasparenti, perché è tradizione in Italia che tutto quello che si muove intorno alle carriere, si muove più agevole se ci si muove in una rete, in una cordata, in un clan. Da questo punto di vista la massoneria è stata percepita come una garanzia di questo tipo, al di là dell’attrattiva che può avere l’aspetto esoterico, che, secondo me, è minoritario.

 

Domenica 2 marzo il  “Goi” ha un nuovo “Gran Maestro”, il giornalista senese Stefano Bisi. Qual’ è la sua “storia”?

 

Bisi è un giornalista che ha lavorato su base locale a giornali e a televisioni, con una brevissima parentesi in Rai a Firenze, a 57 anni è arrivato alla Gran Maestranza sulla scia di Raffi, anche se non ufficialmente è stato il suo padrino dal punto di vista politico,  quello che l’ha appoggiato, ed è stato premiato dal voto. Bisi è un senese, quindi in una città che è considerata massonica per eccellenza. Ed è amico dell’ex numero uno dei Monte dei Paschi Giuseppe Mussari.

 

E’ possibile fare un identitik del “perfetto” Massone?

 

In realtà no, perché il massone vive su due binari: uno associativo e l’altro esoterico, iniziatico. Allora  evidente che ci sono due tipi di massone, uno idealista (che si richiama ad antiche “teorie” e all’illuminismo), e poi c’è il massone, chiamiamolo così, “affarista” che coglie nella massoneria il pretesto per entrare in quella rete che dicevamo prima. L’ala maggioritaria è sicuramente un’ala molto più portata verso gli interventi in società, anche se Bisi, per motivi evidenti, deve tenere un piede anche sul piano dell’esoterismo

 

Quali sono le regioni ad alta “densità” massonica?

 

L’alta “densità” massonica è, tradizionalmente, in Piemonte e in Toscana, qui si parla dell’800. La regione emergente di questi anni è la Calabria, dove non è che la massoneria sia una novità, l’associazionismo massonico ha origini nell’800, ma sicuramente quello che è successo in Calabria, che ha iscritti superiori rispetto alla Lombardia, Sicilia (regioni più popolate della Calabria) colpisce (è riuscita ad esprimere ben 2000 voti, su  circa 16000 aventi diritti, per l’elezione dell’ultimo “Gran Maestro”)

 

Dove si esprime il potere, l’influenza, della massoneria?

Oggi il potere della massoneria, secondo me lo ha descritto molto bene uno storico della Massoneria,  Aldo Mola, quando dice che la massoneria entra nel momento di crollo delle istituzioni, e si è surrogata alle istituzioni che sono crollate.

 

In questi anni c’è stato un inquietante rapporto tra alcune logge calabresi ed esponenti della ‘ndrangheta. Com’è la situazione delle infiltrazioni malavitose?

 

Ci sono ormai una quantità di indagini della magistratura che hanno messo in luce un rapporto molto stre tto, in particolare c’è un’intercettazione ambientale, che risale al 2011, al capo del clan Mancuso, uno dei più potenti dell’’ ‘ndrangheta in cui lui teorizza lo scioglimento dell’ ‘ndrangheta e la sua confluenza all’interno della massoneria. Infiltrazioni mafiose hanno portato alla sospensione di una loggia,  la “Rocco Verduci”,dopo che erano intervenute le forze dell’ordine e la magistratura. È molto difficile stabilire il livello delle infiltrazioni, perché è vero che bisogna presentare un certificato penale per iscriversi, ma è anche vero che una volta che ti sei iscritto, sei dentro non devi più rinnovare questo tipo di documentazione. Mi sembra che in termini di controllo si potrebbe fare molto molto di più. Vedremo cosa farà il  nuovo “Gran Maestro”.

 

Nel periodo buio della storia della I Repubblica con la P2 vi è stata una potentissima influenza sulla politica. Come sono, oggi, i rapporti tra Massoneria e politica?

 

Secondo me è ancora marcata l’influenza della massoneria sulla politica, e non solo sulla politica, ma anche sulla gestione dell’economia, attraverso le società pubbliche, proprio perché è diminuita l’influenza dei partiti e dei sindacati. Quindi questo è un fatto che è anche uno dei fattori che hanno portato alla grande crescita numerica delle associazioni massoniche e del loro successo. È chiaro che quello che noi chiamiamo massoneria o lobbismo, negli Stati Uniti, è un momento della dialettica tra il potere democratico e quello di un’oligarchia.

 

Qualche nome?

I nomi è sempre difficile farli, perché anche se normalmente gli elenchi degli iscritti alle logge sono  a disposizione della magistratura, ma abbiamo visto che, dopo il rinvenimento delle liste della P2 nel 1982, ci sono state altre inchieste (vedi quelle di Agostino Cordova) che hanno portato alla luce le liste, ma bisogna capire se è ancora in vigore la pratica delle logge coperte. Ovviamente i vertici della massoneria lo negano. L’impressione è che le figure apicali vengono tenute ben protette da possibili sguardi indiscreti e questo lo ammettono anche loro.

 

Allora, tirando le somme, cosa inquieta di più della Massoneria?

 

Quello che inquieta di più è quello che dicevo prima è quello di essere un potere oligarchico, che passa attraverso una cooptazione, che potenzialmente tenta di orientare il potere democratico. Questa è una cosa che succedeva già nella Grecia del V secolo a.C. e quindi lungamente testimoniata nella storia, però in una repubblica democratica pone un problema. Io posso esecrare i miei politici, considerarli una banda di farabutti, e ho sempre la possibilità di non eleggerli, ma un’associazione più o meno segreta io cittadino non ho nessuna influenza, invece loro hanno un’influenza molto consistente..

 

 

I cattolici italiani e la rivoluzione di Papa Francesco.
Intervista a Guido Formigoni.

imagesUn anno di Papa Francesco cosa è cambiato nella Chiesa italiana? Ne parliamo con il professor Guido Formigoni, professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Milano, studioso del Movimento cattolico italiano.

Professor Formigoni è passato appena un anno dall’elezione al soglio Pontificio del Cardinale Bergoglio, come sta reagendo la Chiesa italiana? Vede dei segnali di cambiamento? La trova all’altezza delle sfide di Papa Francesco?

Difficile dirlo in poche parole. Ho l’impressione che la Chiesa italiana soffra di un ormai lungo periodo di verticalizzazione istituzionale, che ha progressivamente favorito comportamenti e punti di vista allineati e obbedienti. Il che ha progressivamente disabituato al confronto, al dialogo, alla ricerca di dimensioni e scelte non scontate. Si è visto in questi anni molto «terziario ecclesiastico», diciamocelo, compiaciuto di se stesso. Circola il mito dell’Italia cattolica vista come unico paese europeo che ha reagito alla secolarizzazione.  Se però si gratta sotto la superficie di un’istituzione apparentemente solida, si trova una realtà in grande sofferenza nella capacità di interpretare i tempi e di accompagnare le persone reali nel loro difficile cammino. Per questo, le sollecitazioni del papa sono suonate non tanto nuove, ma inattese, e mettersi in gioco su questa nuova lunghezza d’onda non è facilissimo. Nel popolo di Dio, d’altra parte, c’è molta sintonia con l’approccio di Francesco, anche se a volte è un po’ irriflessa e superficiale e andrebbe approfondita e sviluppata. Comunque, la Chiesa italiana nei suoi mille rivoli e meandri è una realtà che esprime ancora molta vitalità, ma conservo l’impressione che debba essere ancora liberata per potere esprimersi appieno.

Dove si collocano, secondo lei, le resistenze alla Rivoluzione di Papa Francesco?

Quelle più visibili si esprimono un po’ curiosamente ai margini, ad opera di una serie di personalità e di giornali che avevano sposato la visione neointransigente partendo dall’esterno del mondo ecclesiale (penso al «Foglio»). Sotto questa resistenza ci sono però le posizioni più rigide che nel mondo cattolico si sono sempre espresse, in nome di una fede spesso talmente schematizzata in dottrina da diventare una ideologia. Il paradosso di queste componenti è che sono molto in imbarazzo ad esprimersi, perché fa parte del loro schema mentale la concezione della Chiesa come corpo unico attorno al papa. Un papa che non è “papa-centrico” o “ecclesio-centrico”, per loro è una contraddizione in termini, che li lascia spiazzati. Ed è salutare che sia così.

La Chiesa di Wojtila e Ratzinger aveva il suo “braccio armato” in Italia nel Cardinale Ruini, e successivamente, con qualche minima differenza in Bagnasco, puntava tutto ad essere “forza politica” (vedi i così detti “valori non negoziabili”). Ora la prospettiva di Papa Francesco è tutta puntata sulla “profezia evangelica”. Riuscirà il Papa a far cambiare mentalità alla Cei? Il “progetto culturale” della Cei è superato?

Lo spunto critico rispetto al mantra dei «valori non negoziabili» contenuto nell’intervista al «Corriere della Sera» non sarà un’enciclica, ma dice moltissimo. Si tratta di cambiare approccio: la Chiesa di Ruini non intendeva secondo me essere una forza politica, ma condizionare la politica con una rigida espressione di posizioni programmatiche e legislative sui temi più delicati, presentate come l’unica mediazione possibile dei valori. Per far questo doveva dare l’impressione di essere una forza sociale compatta e solida attorno all’istituzione ecclesiastica. Anche il «progetto culturale» non era affatto un’idea peregrina, ma è stato gestito con un approccio analogamente accentrato: le voci divergenti non avevano ospitalità. Ora c’è la possibilità di valorizzare una sensibilità diversa: i valori – ha ricordato Francesco –sono tutti non negoziabili, perché sono assoluti. Non bisogna certo attenuarne la forza, ma non bisogna nemmeno irrigidirli in formule morali o legislative. Attuare i valori nella storia significa riuscire a farli comprendere dalle persone e cercare assieme – ciascuno per la sua parte – come avvicinare le vite e le esperienze associate e collettive a quell’assoluto, a quella «bellezza» che ci precede e ci mette in cammino (come ha detto all’Epifania). Nella Cei, per quanto conosca io, questa sensibilità non manca, anche se finora era forse minoranza. Speriamo sia ora possibile rilanciarla. In questa logica, però, è apparsa un po’ curiosa la scelta della Cei di non accettare le sollecitazioni per l’elezione interna del proprio presidente: quasi che i vescovi italiani ancora non vogliano esprimere la propria originalità e vogliano rimanere nell’ombra della Santa Sede.

Qual è, secondo lei, la sfida più grande per il laicato cattolico italiano che si impone con Papa Francesco?

Beh, mi pare che resti la sfida di sempre, che però può contare su un nuovo aiuto nelle sollecitazioni forti del papa. E’ la sfida della creatività e della responsabilità. Il cristiano laico non applica ricette, non si intruppa in eserciti, non segue formulari. Secondo la vocazione di ciascuno, il cristiano laico vive l’impegno di conformarsi sempre più al Vangelo e di far reagire il Vangelo con la storia, vivendo nella condizione comune degli uomini e delle donne che vivono nel nostro tempo. Qui c’è lo spazio della ricerca e della comprensione del reale, lo spazio della costruzione di itinerari e quello della progettazione. Nella «Evangelii Gaudium» ci sono pagine bellissime sulla priorità da assegnare al tempo rispetto allo spazio: meglio avviare processi che presidiare poteri. L’ancoraggio all’essenziale e la risposta alla chiamata permettono di assumere le proprie responsabilità nella libertà. E’ naturalmente una sfida non semplice, per cui occorrerebbe poter contare su un patrimonio di cultura, socialità, condivisione. Guai a chi isola, in questo cammino! Per questo sarebbe importante salvare o rilanciare i luoghi di incontro associativi o culturali, oltre che i contesti vitali del tessuto pastorale, in cui ci si possa incontrare da laici con i pastori per aiutarsi reciprocamente ed essere aiutati in questo compito non facile e ovvio.

Francesco vuole una “Chiesa povera per i poveri”, una Chiesa sulla frontiera delle “periferie esistenziali” (la visita a Lampedusa è stata emblematica al riguardo). Vede dei segnali al riguardo nella Chiesa Italiana?

L’impegno di moltissimi credenti di questo paese per i poveri e con i poveri non è in discussione.  C’è una rete di volontariato capillare, lo sappiamo, che vive ogni giorno nelle periferie esistenziali. Non è che occorra insegnare niente, sotto questo profilo. Credo che lo stimolo del papa vada colto soprattutto nella direzione di un ripensamento delle priorità istituzionali delle strutture pastorali e dei responsabili delle comunità cristiane, a partire dalla curia romana: qui c’è forse spazio per un ripensamento forte sull’uso dei beni, delle strutture, dei tempi e degli spazi. Se questo ricentramento proseguisse, una Chiesa povera e dei poveri diverrebbe molto più in grado di riportare il punto di vista degli ultimi al centro anche della prospettiva pubblica di questo paese. Che è uno dei crucci più forti che esistono: il mondo dell’impegno cristiano per i poveri e con i poveri in questo paese non riesce a esprimere una valenza politica forte.