Un anno di Papa Francesco cosa è cambiato nella Chiesa italiana? Ne parliamo con il professor Guido Formigoni, professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Milano, studioso del Movimento cattolico italiano.
Professor Formigoni è passato appena un anno dall’elezione al soglio Pontificio del Cardinale Bergoglio, come sta reagendo la Chiesa italiana? Vede dei segnali di cambiamento? La trova all’altezza delle sfide di Papa Francesco?
Difficile dirlo in poche parole. Ho l’impressione che la Chiesa italiana soffra di un ormai lungo periodo di verticalizzazione istituzionale, che ha progressivamente favorito comportamenti e punti di vista allineati e obbedienti. Il che ha progressivamente disabituato al confronto, al dialogo, alla ricerca di dimensioni e scelte non scontate. Si è visto in questi anni molto «terziario ecclesiastico», diciamocelo, compiaciuto di se stesso. Circola il mito dell’Italia cattolica vista come unico paese europeo che ha reagito alla secolarizzazione. Se però si gratta sotto la superficie di un’istituzione apparentemente solida, si trova una realtà in grande sofferenza nella capacità di interpretare i tempi e di accompagnare le persone reali nel loro difficile cammino. Per questo, le sollecitazioni del papa sono suonate non tanto nuove, ma inattese, e mettersi in gioco su questa nuova lunghezza d’onda non è facilissimo. Nel popolo di Dio, d’altra parte, c’è molta sintonia con l’approccio di Francesco, anche se a volte è un po’ irriflessa e superficiale e andrebbe approfondita e sviluppata. Comunque, la Chiesa italiana nei suoi mille rivoli e meandri è una realtà che esprime ancora molta vitalità, ma conservo l’impressione che debba essere ancora liberata per potere esprimersi appieno.
Dove si collocano, secondo lei, le resistenze alla Rivoluzione di Papa Francesco?
Quelle più visibili si esprimono un po’ curiosamente ai margini, ad opera di una serie di personalità e di giornali che avevano sposato la visione neointransigente partendo dall’esterno del mondo ecclesiale (penso al «Foglio»). Sotto questa resistenza ci sono però le posizioni più rigide che nel mondo cattolico si sono sempre espresse, in nome di una fede spesso talmente schematizzata in dottrina da diventare una ideologia. Il paradosso di queste componenti è che sono molto in imbarazzo ad esprimersi, perché fa parte del loro schema mentale la concezione della Chiesa come corpo unico attorno al papa. Un papa che non è “papa-centrico” o “ecclesio-centrico”, per loro è una contraddizione in termini, che li lascia spiazzati. Ed è salutare che sia così.
La Chiesa di Wojtila e Ratzinger aveva il suo “braccio armato” in Italia nel Cardinale Ruini, e successivamente, con qualche minima differenza in Bagnasco, puntava tutto ad essere “forza politica” (vedi i così detti “valori non negoziabili”). Ora la prospettiva di Papa Francesco è tutta puntata sulla “profezia evangelica”. Riuscirà il Papa a far cambiare mentalità alla Cei? Il “progetto culturale” della Cei è superato?
Lo spunto critico rispetto al mantra dei «valori non negoziabili» contenuto nell’intervista al «Corriere della Sera» non sarà un’enciclica, ma dice moltissimo. Si tratta di cambiare approccio: la Chiesa di Ruini non intendeva secondo me essere una forza politica, ma condizionare la politica con una rigida espressione di posizioni programmatiche e legislative sui temi più delicati, presentate come l’unica mediazione possibile dei valori. Per far questo doveva dare l’impressione di essere una forza sociale compatta e solida attorno all’istituzione ecclesiastica. Anche il «progetto culturale» non era affatto un’idea peregrina, ma è stato gestito con un approccio analogamente accentrato: le voci divergenti non avevano ospitalità. Ora c’è la possibilità di valorizzare una sensibilità diversa: i valori – ha ricordato Francesco –sono tutti non negoziabili, perché sono assoluti. Non bisogna certo attenuarne la forza, ma non bisogna nemmeno irrigidirli in formule morali o legislative. Attuare i valori nella storia significa riuscire a farli comprendere dalle persone e cercare assieme – ciascuno per la sua parte – come avvicinare le vite e le esperienze associate e collettive a quell’assoluto, a quella «bellezza» che ci precede e ci mette in cammino (come ha detto all’Epifania). Nella Cei, per quanto conosca io, questa sensibilità non manca, anche se finora era forse minoranza. Speriamo sia ora possibile rilanciarla. In questa logica, però, è apparsa un po’ curiosa la scelta della Cei di non accettare le sollecitazioni per l’elezione interna del proprio presidente: quasi che i vescovi italiani ancora non vogliano esprimere la propria originalità e vogliano rimanere nell’ombra della Santa Sede.
Qual è, secondo lei, la sfida più grande per il laicato cattolico italiano che si impone con Papa Francesco?
Beh, mi pare che resti la sfida di sempre, che però può contare su un nuovo aiuto nelle sollecitazioni forti del papa. E’ la sfida della creatività e della responsabilità. Il cristiano laico non applica ricette, non si intruppa in eserciti, non segue formulari. Secondo la vocazione di ciascuno, il cristiano laico vive l’impegno di conformarsi sempre più al Vangelo e di far reagire il Vangelo con la storia, vivendo nella condizione comune degli uomini e delle donne che vivono nel nostro tempo. Qui c’è lo spazio della ricerca e della comprensione del reale, lo spazio della costruzione di itinerari e quello della progettazione. Nella «Evangelii Gaudium» ci sono pagine bellissime sulla priorità da assegnare al tempo rispetto allo spazio: meglio avviare processi che presidiare poteri. L’ancoraggio all’essenziale e la risposta alla chiamata permettono di assumere le proprie responsabilità nella libertà. E’ naturalmente una sfida non semplice, per cui occorrerebbe poter contare su un patrimonio di cultura, socialità, condivisione. Guai a chi isola, in questo cammino! Per questo sarebbe importante salvare o rilanciare i luoghi di incontro associativi o culturali, oltre che i contesti vitali del tessuto pastorale, in cui ci si possa incontrare da laici con i pastori per aiutarsi reciprocamente ed essere aiutati in questo compito non facile e ovvio.
Francesco vuole una “Chiesa povera per i poveri”, una Chiesa sulla frontiera delle “periferie esistenziali” (la visita a Lampedusa è stata emblematica al riguardo). Vede dei segnali al riguardo nella Chiesa Italiana?
L’impegno di moltissimi credenti di questo paese per i poveri e con i poveri non è in discussione. C’è una rete di volontariato capillare, lo sappiamo, che vive ogni giorno nelle periferie esistenziali. Non è che occorra insegnare niente, sotto questo profilo. Credo che lo stimolo del papa vada colto soprattutto nella direzione di un ripensamento delle priorità istituzionali delle strutture pastorali e dei responsabili delle comunità cristiane, a partire dalla curia romana: qui c’è forse spazio per un ripensamento forte sull’uso dei beni, delle strutture, dei tempi e degli spazi. Se questo ricentramento proseguisse, una Chiesa povera e dei poveri diverrebbe molto più in grado di riportare il punto di vista degli ultimi al centro anche della prospettiva pubblica di questo paese. Che è uno dei crucci più forti che esistono: il mondo dell’impegno cristiano per i poveri e con i poveri in questo paese non riesce a esprimere una valenza politica forte.