Un “ritratto” del Subcomandante Marcos, l’ultimo rivoluzionario del XX° secolo.

images-1Di seguito pubblichiamo un ritratto e un pensiero dell’ormai, da qualche giorno, ex Subcomandante insurgente Marcos. Per ricordare quello che è stato tra i più colti e ironici rivoluzionari del XX secolo. Per vent’anni è stato alla guida dell’EZLN, l’esercito zapatita di liberazione nazionale. La sua lotta in Chiapas ha fatto sognare l’America Latina e colpito il mondo per la sua grande  cultura politica e letteraria. Un   uomo fascinoso, l’ultimo erede della tradizione rivoluzionaria dell’America Latina.

Un pensiero di Marcos

Noi siamo il volto che si nasconde per mostrarsi. Dietro il nostro passamontagna siamo gli stessi uomini e donne semplici e ordinari che si ripetono in tutte le razze, si dipingono di tutti i colori, si parlano in tutte le lingue e si vivono in tutti i luoghi. Gli stessi uomini e donne dimenticati. Gli stessi esclusi. Gli stessi intollerati. Gli stessi perseguitati. Siamo gli stessi voi. Dietro di noi stiamo voi. 
Dietro i nostri passamontagna c’è il volto di tutte le donne escluse, di tutti gli indigeni dimenticati, di tutti gli omosessuali perseguitati, di tutti i giovani disprezzati, di tutti gli emigranti picchiati, di tutti gli incarcerati per la loro parola e pensiero, di tutti i lavoratori umiliati, di tutti i morti di oblio, di tutti gli uomini e donne semplici e ordinari che non contano, che non vengono visti, che non sono nominati, che non hanno un domani. 
Dietro il passamontagna ci sono migliaia di esseri umani che gridano ‘YABASTA!’ al conformismo, al non fare nulla, al cinismo, all’egoismo fatto dio moderno. 
Dietro il passamontagna ci sono migliaia di piccoli mondi che assaporano un principio: il principio della costruzione di un mondo nuovo e buono, un mondo dove ci stiano tutti i mondi. – Subcomandante Marcos – (http://www.oocities.org/it/piazza_rossa/Pagine/Citazioni_marcos.htm

Un ritratto (per gentile concessione del sito: www.spondasud.it)

(Alessia Lai) – Ironico, dissacrante. Anche nel giorno dell’addio o, sarebbe meglio dire, del momento in cui riporre il “travestimento” nell’armadio. Il subcomandante Marcos, misterioso leader del Ezln, il movimento ribelle zapatista messicano del Chiapas, ha annunciato pochi giorni fa il suo passo indietro: non rappresenterà più il movimento. Non è la rinuncia di un capo. Capo non lo è mai stato né ha voluto esserlo, Marcos. Subcomandante, non comandante. Controfigura di un popolo. Questo è voluto essere. Ora, a 20 anni da una delle più affascinanti ribellioni del secolo scorso, quella nel Chiapas del 1994, l’ologramma della rivolta non serve più. Il corpo che incarnava quella rivolta rappresentandola al mondo ha esaurito la sua funzione: «Ci siamo resi conto che oramai c’era già una generazione che poteva guardarci, ascoltarci e parlarci senza bisogno di guida o leadership, né pretendere obbedienza (…) Marcos, il personaggio, non era più necessario. La nuova tappa della lotta zapatista era pronta». Con queste parole, il 25 maggio, l’uomo col passamontagna la cui identità non è mai stata scoperta, ha annunciato che «colui che è conosciuto come Subcomandante ribelle Marcos non esiste più».

Nel 1994 «un esercito di giganti, di indigeni ribelli, scese in città per scuotere il mondo. Solo qualche giorno dopo, col sangue dei nostri caduti ancora fresco per le strade, ci rendemmo conto che quelli di fuori non ci vedevano. Abituati a guardare gli indigeni dall’alto, non alzavano lo sguardo per guardarci; abituati a vederci umiliati, il loro cuore non comprendeva la nostra degna ribellione. Il loro sguardo si era fermato sull’unico meticcio che videro con un passamontagna, cioè, non vedevano. I nostri capi allora dissero: ‘vedono solo la loro piccolezza, inventiamo qualcuno piccolo come loro, cosicché lo vedano e che attraverso di lui ci vedano’».

Un passamontagna e un fucile, Marcos nasce in quel 1994, una «complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un gioco malizioso del nostro cuore indigeno; la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione» ha ricordato il subcomandante. Un ologramma della rivoluzione, un fantasma. Impossibile da catturare, ferire, uccidere. Nell’ultimo messaggio ufficiale prima del congedo, nel suo abituale stile ironico e provocatore, il “fantasma” gioca ancora una volta con la sua stessa esistenza: «Quelli che hanno amato e odiato il  Subcomandante Marcos  adesso devono sapere che hanno amato e odiato un ologramma. I loro amori e i loro odi sono stati inutili, sterili, vuoti. Non ci sarà alcuna casa-museo o targa di metallo dove sono nato e cresciuto. Nessuno vivrà dell’essere stato il Subcomandante Marcos. Non si erediterà il suo nome né il suo incarico. Niente viaggi per tenere conferenze all’estero. Non ci saranno trasferimenti né cure in ospedali di lusso. Non ci saranno vedove né eredi. Nessun funerale, né onorificenze, né statue, né musei, né premi, niente di quello che fa il sistema per promuovere il culto dell’individuo e sminuire quel che fa il collettivo. Il personaggio è stato creato e adesso noi, i suoi creatori, gli zapatisti e le zapatiste, lo distruggiamo. Chi saprà comprendere questa lezione dei nostri compagni e delle nostre compagne, avrà compreso uno dei fondamenti dello zapatismo».

L’impersonalità della lotta. Questa la lezione di Marcos. Non finisce l’Ezln, non finisce la resistenza: «È nostra convinzione e nostra pratica che per rivelarsi e lottare non sono necessari né leader né capi, né messia né salvatori; per lottare c’è bisogno solo di un po’ di vergogna, una certa dignità e molta organizzazione, il resto o serve al collettivo o non serve». La bellissima «messa in scena» del subcomandante Marcos è finita, ma solo perché ha esaurito la sua funzione catalizzatrice. Marcos è stato la lente che ha concentrato in un punto le forze di una ribellione ignorata, con uno stile beffardo ha usato il “mito” del guerrigliero per accendere i riflettori sul Chapas e senza appiattirsi su un certo “internazionalismo ribelle da scritte per magliette”.

Esilarante e al contempo illuminante la polemica con l’Eta nel 2003 della quale è facile trovare tracce in Rete: modi diversi di intendere la ribellione e propagandarla al mondo. «Noi non prendiamo niente sul serio, nemmeno noi stessi» fu una delle frasi rivolte da Marcos ai baschi, irritati per una proposta zapatista di dialogo sulla loro questione. E, nella stessa lettera, in uno dei suoi famosi P.S. fu ben chiaro: «ALTRO P.S.: Forse è già evidente, ma lo ribadisco: me ne frego anche delle avanguardie rivoluzionarie di tutto il pianeta». Che dire, prendersi troppo sul serio è roba da fanatici. La leggerezza della lotta, la rivolta gioiosa, hanno avuto bisogno di un ologramma col passamontagna. Anche nel suo ultimissimo messaggio non ha rinunciato ai suoi P.S. ben sette. L’ultimo: «Ehi, è molto buio qui, ho bisogno di un po’ di luce». Una risata “rebelde” per il subcomandante.

(DAL SITO : http://spondasud.it/2014/05/subcomandante-marcos-lascia-guida-dellezln-ritratto-dellultimo-rivoluzionario-xx-secolo-1824 – anche l’immagine di Marcos è tratta dal medesimo sito)

 

il PD di Renzi: Una DC 2.0? Intervista a Marco Damilano

da forlitoday.itIl boom elettorale di Matteo Renzi continua ad alimentare il dibattito politico italiano ed europeo. Per alcuni osservatori, e protagonisti della lotta politica, il PD di Renzi è la nuova DC. E’ davvero così? Oppure è un’esagerazione? Su questo abbiamo intervistato Marco Damilano, cronista politico del settimanale “L’Espresso”.

Damilano, incominciano dalla sorprendente vittoria Del PD alle Europee. per molti osservatori è stata la vittoria più di Renzi che della “ditta”. per Lei?

«Lo è in termini quantitativi: alcune ricerche hanno provato a calcolare l’apporto di Renzi al risultato del Pd, almeno il dieci per cento. E questo nonostante, saggiamente, il premier avesse evitato di inserire il suo nome nel simbolo. La Ditta di Bersani nel 2013 si era bloccata al 25 per cento, non era riuscito a sfondare oltre il proprio bacino elettorale tradizionale, anzi, aveva perso voti che si erano posizionati su Scelta civica o nel Movimento 5 Stelle. Ora quell’elettorato è tornato a casa. E lo è, ancor di più, in termini qualitativi, politici. Perfino Stefano Fassina ammette di essersi sbagliato. L’ho scritto anch’io, l’ha sostenuto soprattutto Ilvo Diamanti: il Pd oggi è un PdR, il Partito di Renzi».

Il boom del PD, un risultato che è andato oltre il 40/%, ha scatenato nella pubblica opinione paragoni storici un poco azzardati. Ovvero il riferimento è quello, secondo Antonio Polito,con la DC di Fanfani.  Ora se è vero che il PD di Renzi ha fagocitato i centristi di “scelta civica”, stando allo studio dei flussi elettorali dell’Istituto Cattaneo, però lo sfondamento verso verso l’elettorato di Forza Italia è stato minimo. D’altra parte, però, in queste elezioni Renzi ha conquistato casalinghe,imprenditori e under 24. Insomma siamo davvero di fronte alla DC 2.0, ovvero ad un “interclassismo” aggiornato per la società liquida? 

«L’interclassismo era la parola magica con cui la Democrazia cristiana ha governato per decenni: rappresentare insieme contadini e operai, piccoli imprenditori settentrionali e pubblico impiego, soprattutto il grande, infinito ceto medio italiano. A questo blocco sociale si contrapponeva quello della sinistra che ruotava attorno al Pci. Negli ultimi venti anni, quelli della Seconda Repubblica, gli unici che hanno provato a definire e a rappresentare un blocco sociale di riferimento sono stati Berlusconi e la Lega, mentre, negli stessi anni, la sinistra ha quasi totalmente smarrito un’idea sull’Italia da rappresentare. Ha confuso la conquista del centro della società con l’inciucio con il centro del Palazzo, con Casini, ha inseguito una visione tutta politicistica, alleanze di vertice, della rappresentanza politica. Ora tocca a Renzi, che in tanti hanno raffigurato come superficiale e leggero, coltivare l’idea di ricostruire un blocco sociale, una coalizione di consenso non politica ma sociale. Una grande coalizione, non nel Palazzo, ma nel Paese. Non alla tedesca, tra partiti, ma all’americana, nella società. Nessuno può riuscirci meglio del post-ideologico Renzi».

Come si comporterà Renzi con l’ala sinistra, intendo con quelle componenti della Lista Tsipras? 

«Alla sinistra del Pd, in Sel, il dibattito è aperto: il raggiungimento del quorum dimostra che c’è un elettorato che si rifiuta di confluire nel Pd, ma non vuole neppure restare isolato rispetto a un progetto di governo, eternamente all’opposizione. Nichi Vendola rappresenta bene questa contraddizione. E il dilemma dei prossimi mesi sarà: fare la sinistra renziana, un po’ come Alfano si è posizionato alla destra, oppure testimoniare una presenza irriducibile della sinistra che non si contamina con la coalizione di governo? In Parlamento un pezzo di Sel è pronto a votare alcuni provvedimenti del governo, Gennaro Migliore parla già di federazione. Ma decisivo sarà quello che Renzi ha già individuato come il suo interlocutore privilegiato in quest’area: il segretario della Fiom Maurizio Landini. Un altro che come Renzi rappresenta un pezzo di società, e non di ceto politico o sindacale».

Adesso nel PD si assiste ad uno sport italico: “salire sul carro del vincitore”.  Insomma vige la “pax renziana”, una variante aggiornata del “doroteismo”, non rischia di diventare un limite?

«È un rischio che esiste. In Italia c’è la tendenza a trasformare una vittoria elettorale nell’alba di un regime. Il pensiero unico di un partito unico di un leader solo. La melassa di certi commenti, il conformismo, la gara a trasformarsi in renziani della prima ora, anzi, della primissima… Per evitarlo Renzi deve continuare a lavorare a uno schema della democrazia dell’alternanza e del bipolarismo. Il primo ad augurarsi che nasca presto a destra o in 5 Stelle un credibile e competitivo anti-Renzi deve essere proprio Renzi: fa bene al suo governo, fa bene alla democrazia italiana».

Il governo sicuramente è uscito rafforzato, Renzi, come ha sottolineato Marcello Sorgi sulla Stampa, avrà da “curare” ben “4 Forni”. Riuscirà a giocare così a tutto campo?

«L’abilità politica del premier è ormai riconosciuta da tutti, i forni possono diventare anche più di quattro, in questo momento, a ben guardare, nessuno in partenza esclude di poter fare un pezzo di strada con Renzi. La forza di Renzi è di apparire, a un tempo, uomo di rottura del vecchio sistema, ma anche leader inclusivo, che in partenza non respinge nessuno. Ha detto di voler essere «il presidente di tutti», ma ancora una volta toccherà a lui stabilire i confini: più è largo il consenso, più diventano ambigue le risposte. Questa è una lezione che arriva da decenni di trasformismo italico».

Renzi , secondo alcuni, è il nuovo leader della sinistra europea. Non è una esagerazione?

«L’ha scritto perfino il francese “Le Monde”, dopo la catastrofe dei socialisti di Hollande. Di certo Renzi è un uomo fortunato: nella sinistra europea si muove nel vuoto, di leadership, di prospettive, di progetto. Per la prima volta la sinistra italiana, il Pd, più che la guida può aspirare a essere il modello delle altre formazioni europee».

Tornando alla Storia:  Renzi è il nuovo Fanfani?

«Ci sono molte analogie, la comune origine toscana, l’attivismo, il pragmatismo, il desiderio di portare al potere una nuova generazione, in fondo Fanfani rottamò la generazione di De Gasperi nel 1954. E poi la sensibilità sociale e una certa idea di interventismo della politica nell’economia. Detto questo, però, nessun paragone è possibile perché quella è tutta un’altra storia. Il Pd non è la Dc, Fanfani voleva essere il leader dello sfondamento, a sinistra e a destra, ma fallì nell’operazione perché c’era la guerra fredda e un mondo spaccato a metà dagli accordi di Yalta. Mentre Renzi vive in una società liquida in cui non esistono muri, fili spinati e confini. Per lui, lo sfondamento è possibile, sempre che non fallisca nella scommessa di governo».

 

Dove hanno sbagliato i “5 Stelle”? Intervista ad Andrea Scanzi

Nella “Rete” , tra i simpatizzanti e gli aderenti al “Movimento 5 Stelle”, c’è un forte dibattito sulla debacle elettorale del “Movimento”. Quali le ragioni della sconfitta? Quali prospettive per il “Movimento”? Su questi temi abbiamo intervistato il giornalista Andrea Scanzi, firma di punta del “Fatto Quotidiano “.Andrea Scanzi

Lei è un profondo conoscitore del “Movimento 5 Stelle”, ne conosce gli umori profondi, come è stata possibile questa  sorta di “ubriacatura” da vittoria certa (#Vinciamonoi!#) smentita, poi, dalla debacle elettorale?

“Il Movimento 5 Stelle si è clamorosamente sopravvalutato. Se non avesse imbastito una campagna elettorale anzitempo orgasmica, oggi potrebbe tutto sommato festeggiare una cifra depurata dal mero voto di protesta e rimasta comunque sopra il 20: un dato clamoroso, in un paese conservatore e tradizionalista come l’Italia. Invece l’hanno menata per mesi con ‘sta bischerata adolescenziale del #vinciamonoi: ma “vinciamo noi” de che? Adesso, giustamente, li sfottono tutti. Credo che si siano lasciati condizionare dall’affetto degli attivisti: piazze piene, urne vincenti. Ma non è sempre così, anzi. Le piazze piene vogliono solo dire che i 5 Stelle sono più partecipi dei piddini (Renzi, a volte, aveva le piazze semivuote). Anche Luttazzi riempiva i teatri, anche Santoro ha sempre fatto boom di ascolti: poi però vinceva Berlusconi. I 5 Stelle hanno convinto i già convinti, radicandone l’affetto, ma non hanno intercettato mezzo indeciso e hanno perso quasi tre milioni rispetto a febbraio 2013”.

Grillo è un grande uomo di spettacolo, questo non si traduce, però, automaticamente in un’efficace “comunicazione” politica. Quali sono stati, secondo lei, in campagna elettorale gli errori di “comunicazione” del Padre fondatore del Movimento? Non è stato un po’ troppo sottovalutato Renzi?

“Il problema della comunicazione di Grillo è eterno, se ne parlava già nel 2007 dopo il primo V-Day. Il suo parlare da comico crea continui cortocircuiti semantici, perché nel frattempo è diventato ormai un soggetto politico. Urlare e sfanculare andava bene, ora no. La narrazione di Renzi è da asilo nido, una roba tipo “noi siamo il bene e voi il male”, ma funziona. E la maggioranza degli italiani voleva essere rassicurata e “sperare”. Per questo ha preferito un bombarolo furbino come Renzi a un incazzato sincero come Grillo. Gli errori comunicativi sono stati tanti: il post su Auschwitz, la “peste rossa”, “oltre Hitler”, “la lupara bianca”, il “processo ai giornalisti”. Grillo provoca e non è certo un fascista, ma ha quasi tutta la stampa contro. Non appena presta il fianco, quasi tutti ci costruiscono un caso. Se il Pd regala 7 miliardi alle banche è normale, se il deputato 5 Stelle Sibilia contesta la Boldrini è uno “squadrista”. Ecco perché Grillo dovrebbe calcolare ogni parola e non regalare assist a chi vive per sputtanarlo, neanche fosse Mengele. Credo che il suo intento sia usare la violenza verbale per esorcizzare quella fisica: idea nobile, e senza M5S oggi avremmo Alba Dorata e Le Pen. Vaglielo a spiegare, però, alla casalinga di Voghera”.

Nel suo “messaggio”  Grillo, a commento dei risultati elettorali, se la prende con l’Italia dei pensionati che preferisce lo status quo invece che il cambiamento. Non è un po’ banale come analisi? Non è venuto il tempo, per il Movimento,  di pensare oltre la “rabbia buona” degli elettori?

“Certo che è venuto quel tempo. O i 5 Stelle fanno una seria riflessione autocritica, o rischiano come minimo un ridimensionamento drastico. Il video di Grillo che prendeva il Maalox era divertente e finalmente autoironico, ma l’analisi politica era debole. Se i pensionati non ti votano non è colpa dei pensionati: è colpa tua, perché non li hai convinti. I 5 Stelle furoreggiano tra gli under 30, tengono fino ai 45-50 e scendono addirittura sotto il 10% negli over 60. Vuol dire che quella fascia lì non solo non li vota ma ne ha pure paura, certo anche per colpa di una informazione  spesso disonesta intellettualmente. Grillo e i grillini devono cambiare i toni. Con la “peste rossa” e la claque urlante dei talebani duropuristi non vai da nessuna parte. Essere coerenti non significa essere integralisti: lo scazzo in streaming di Grillo con Renzi è stata una cazzata, il no a prescindere a Renzi sulla riforma elettorale è stata una cazzata (che ha consentito al Premier di consegnarsi a Berlusconi, uno dei suoi sogni di sempre). Questi errori, alla lunga, li paghi. Soprattutto tra gli elettori moderati e non più giovanissimi, che sono poi la maggioranza di questo paese”.

Resta, comunque, per i “5 Stelle” una percentuale rilevante, il 21 %. Come investire politicamente questo consenso in Europa?  E poi: come rispondere a Renzi che li ha invitati ad uscire dall’isolamento?

Il Movimento 5 Stelle ha preso quasi sei milioni di voti: una cifra enorme. Si fa passare per normale che Di Battista abbia più voti di Berlusconi, ma è un cambiamento storico. E’ un risultato figlio di Grillo, che ha demeriti come pure meriti enormi, ma è anche figlio di una nuova classe di senatori e deputati che hanno lavorato bene e si sono contraddistinti per competenza e passione. Non tutti, per carità: quando ascolti Fucksia o Lombardi, ti chiedi cosa diavolo hai fatto nella vita per meritarti condanne simili. Se però avessimo avuto tanti Di Maio in questi vent’anni di mancata opposizione del centrosinistra, invece dei Violante e degli Speranza, Berlusconi sarebbe politicamente finito dopo sei mesi. Cito Di Maio non a caso: nel salotto di Bruno Vespa doveva andarci – anzi tornarci – lui. Non Grillo. Avrebbe fatto meno ascolti, ma avrebbe portato ai 5 Stelle molti più voti. Aprirsi troppo tardi alla tivù è stato un altro errore. Il M5S deve continuare nella sua opera di opposizione rigorosa, ora poi che Renzi vanta consensi bulgari. Ma deve anche dimostrare di saper pure costruire e “dire sì”.  In Italia come nel Parlamento Europeo. Di Europa hanno parlato poco, al di là dell’allergia per l’Euro, le invettive contro i “figli di trojka” e il no al fiscal compact. Non conosciamo gli eletti, se non per un video youtube e il loro curriculum online. Non sappiamo accanto a chi sederanno, né chi appoggeranno come Presidente. Quanto al tentativo di Renzi di stanarli, il punto non è accettare tutto quello che lui gli propone, ma valutare la proposta. Se Renzi gli propone ancora l’Italicum o la schifezzina della riforma del Senato, fanno bene a sfancularlo: sono proposte orribili. Da solo, però, il Movimento non può fare nulla se non combattere battaglie nobili ma spesso di Pirro. Politica è anche strategia. Qualcuno dovrebbe dirgli che l’elasticità mentale non è un reato e che non tutti sono uguali: per esempio Tsipras non è uguale al Pd, e con Tsipras dovrebbero fare sponda. Sarebbe il presidente migliore, ma a Yoko Casaleggio non piace perché è “connotato ideologicamente”: sì, buonanotte”.

Qual è la “lezione” profonda di queste elezioni?

Nessuna lezione profonda. Sono elezioni che ci dicono ciò che già sapevamo: che i sondaggi non servono a niente; che larga parte dell’informazione italiana ama correre in soccorso del vincitore. Che la tivù è ancora decisiva (Renzi è andato ovunque, riverito oltremodo, e ha fatto bene ad andarci). Ci ribadiscono poi, e soprattutto, che la maggioranza degli italiani tutto vuole tranne il cambiamento reale. Non appena sentono parlare di “rivoluzione”, hanno un mancamento. Preferiscono la velocità da crociera, il mantenimento dello status quo e il gattopardismo un po’ alla moda. L’uomo della provvidenza che tutto cambia perché nulla cambi. Il leader nuovo per nulla nuovo, fanfarone e sparaballe, simpatico o presunto tale, vagamente carismatico. Ieri Berlusconi, oggi Renzi. Un po’ Silvio e un po’ De Mita, un po’ Fanfani e un po’ Moccia, un po’ Cameron e un po’ Jovanotti. Tutto e niente, soprattutto niente. E il nulla, anzitutto in Italia, è rassicurante.

 

 

 

 

 

“E’ Stato la Mafia”. Un libro di Marco Travaglio sulla trattativa Stato-Mafia

E' Stato la mafia_piatto“Perché avvelenarci il fegato con queste storie vecchie di oltre vent’anni, con tutti i problemi che abbiamo oggi? La risposta è semplice e agghiacciante: sono storie attuali, come tutti i ricatti che assicurano vita e carriera eterna tanto ai ricattatori quanto ai ricattati. Da ventidue anni uomini delle istituzioni, della politica, delle forze dell’ordine, dei servizi e degli apparati di sicurezza custodiscono gelosamente, anzi omertosamente, i segreti di trattative immonde, condotte con i boss mafiosi le cui mani grondavano del sangue appena versato da Giovanni Falcone, da Francesca Morvillo, da Paolo Borsellino, dagli uomini delle loro scorte, dai tanti cittadini innocenti falciati o deturpati dalle stragi di Palermo, Firenze, Milano e Roma. E su quei segreti e su quei silenzi hanno costruito carriere inossidabili, che durano tutt’oggi… 

Chi volesse capire perché in Italia tutto sembra cambiare – gattopardescamente – per non cambiare nulla provi a seguire con pazienza il filo di questo racconto. Se, alla fine, avrà saputo e capito qualcosa in più, questo spettacolo e questo libro avranno centrato il loro obiettivo: quello di mettere in fila i fatti per strappare qualche adepto al Ptt, il partito trasversale della trattativa.”  Così scrive Marco Travaglio, Vice Direttore del Fatto Quotidiano, in questo che oggi presentiamo. Di seguito, per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo il Prologo del volume.

Prologo

Ci sono diversi modi per raccontare la trattativa Stato- mafia.

Il primo è quello dei politici, dei grandi giornali e delle tv: la presunta trattativa, la supposta trattativa, la pretesa trattativa, la cosiddetta trattativa. Forse, magari, chissà.

Il secondo è quello che raccontano le sentenze e i protagonisti.

Le sentenze sono quelle – definitive – dei processi celebrati a Caltanissetta sulle stragi di Palermo del 1992 (Capaci e via D’Amelio) e a Firenze sulle bombe di Firenze in via dei Georgofili, di Milano in via Palestro e di Roma alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio in Velabro. Scrivono i giudici della Corte d’assise di Firenze (verdetto confermato fino in Cassazione):

I testimoni hanno espressamente dichiarato che la controparte mafiosa della trattativa erano i «corleonesi»; anzi, direttamente Riina. Brusca ha confermato che della trattativa gli parlò personalmente Riina. […] I testi hanno dichiarato che si mossero dopo la strage di Capaci; il col. Mori entrò in scena dopo la strage di via D’Amelio […]. In ciò che ha raccontato Brusca vi è quanto basta per essere certi del parallelismo tra la vicenda raccontata da lui e quella raccontata dal gen. Mori e dal cap. De Donno […]. L’iniziativa del Ros aveva tutte le caratteristiche per apparire come una «trattativa»; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di «trattativa», «dialogo», ha espressamente parlato il capitano De Donno (il generale Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Cian- cimino a scoprirsi; o altro) di contattare i vertici di Cosa nostra per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata.

Conclusione dei giudici di Firenze:

Non si comprende come sia potuto accadere che lo Stato, «in ginocchio» nel 1992 – secondo le parole del gen. Mori – si sia potuto presentare a Cosa nostra per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-10-1992, si sia trasformato dopo pochi giorni in confidente dei carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di «show down», giunta, a quanto pare logico ritenere, addirittura in ritardo.

La stessa Corte d’assise di Firenze, nella sentenza di condanna all’ergastolo per il boss Francesco Tagliavia (già confermata in Appello) del 5 ottobre 2011, aggiunge:

Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno ini zialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini della mafia.

Borsellino si oppose, giudicandola «la negazione stes- sa della battaglia condotta da sempre con Falcone» e prevedendo che la trattativa non avrebbe frenato, ma moltiplicato le stragi. Infatti fu ucciso. Per questo.

Ma di «trattativa», senza alcun aggettivo dubitativo, parlano anche i protagonisti, mafiosi e istituzionali. A cominciare da Giovanni Brusca, che per primo la rivelò nel 1996-97, costringendo i trafelati ufficiali del Ros, il generale Mario Mori (all’epoca vicecomandante) e il suo braccio destro, l’allora capitano Giuseppe De Donno, a confermarla. Ecco Mori il 27 gennaio 1998 davanti ai giudici di Firenze (dove, diversamente da quanto affer- mano i giudici, parla anche lui più volte di «trattativa»):

Incontro per la prima volta Vito Ciancimino a via di Villa Massimo dietro piazza di Spagna a Roma, nel pomeriggio del 5 agosto 1992. L’Italia era quasi in ginocchio perché erano morti due fra i migliori magistrati nella lotta alla criminalità mafiosa, non riuscivamo a fare nulla dal punto di vista investigativo, e cominciai a parlare con lui: «Signor Ciancimino, cos’è questa storia, questo muro contro muro? Da una parte c’è Cosa nostra dall’altra parte c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?». La buttai lì, convinto che lui dicesse: «Cosa vuole da me, colonnello?». Invece disse: «Si può, io sono in condizioni di farlo». […] Ciancimino mi chiedeva se io rappresentavo solo me stesso o anche altri. Certo, io non gli potevo dire: «Be’, signor Ciancimino, lei si penta, collabori che vedrà che l’aiutiamo». Gli dissi: «Lei non si preoccupi, lei vada avanti». Lui capì e restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa […]. Il 18 ottobre, quarto incontro. Mi disse: «Guardi, quelli accettano la tratta- tiva» […]. Poi la trattativa ebbe un momento di ripensamento.

Ecco, questi erano i rappresentanti dello Stato nel 1992: si stupivano del «muro contro muro» fra mafia e Stato, non si davano pace nel vederli l’una contro l’altro armati dopo decenni di festosa convivenza. Infatti si precipita- rono a ripristinare le «larghe intese», andando a trattare con un mafioso come Vito Ciancimino per ristabilire lo status quo. C’è tutta una filosofia, nelle parole di Mo- ri. Che va ben oltre il suo pensiero. È l’atteggiamento dello Stato italiano, che ha sempre dichiarato di voler «combattere la mafia», mai di volerla sconfiggere: al massimo, per contenerla quando alza troppo la cresta. Per sconfiggerla bisognerebbe dichiararle guerra e poi vincerla. E la guerra alla mafia per sconfiggere la mafia non l’avevano in testa nemmeno i carabinieri del Ros.

Il processo in corso a Palermo vede imputate dodici persone: sei per la mafia e sei per lo Stato. Perfetta par condicio. Anche se non si capisce bene dove finisca l’una e dove cominci l’altro.

Per la mafia: i boss irriducibili Salvatore Riina, Ber- nardo Provenzano (attualmente «stralciato» per le sue gravi condizioni di salute), Leoluca Bagarella, il mafioso pentito Giovanni Brusca, e gli «ambasciatori» di Cosa nostra Antonino Cinà e Massimo Ciancimino.

Per lo Stato: gli ex carabinieri del Ros Antonio Su- branni (all’epoca comandante), Mario Mori (viceco- mandante) e Giuseppe De Donno (braccio destro di Mori); gli uomini politici Calogero Mannino (nel 1992 ministro del Mezzogiorno del governo Andreotti), Ni- cola Mancino (nel 1992-93 ministro dell’Interno dei governi Amato e Ciampi) e Marcello Dell’Utri (presi- dente di Publitalia e ideatore di Forza Italia insieme a Silvio Berlusconi).

Ciancimino risponde di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro. Mancino è accusato «soltanto» di falsa testi- monianza. Gli altri dieci imputati sono a giudizio per il reato previsto dagli articoli 338 e 339 del Codice penale: «Chiunque usa violenza o minaccia a un Corpo politico, o amministrativo o giudiziario o a una rappresentanza di esso, o a una qualsiasi pubblica Autorità costituita in Collegio, per impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, o per turbarne comunque l’attività, è punito con la reclusione da uno a sette anni» (che, con le aggravanti delle armi e del numero dei colpevoli, possono arrivare fino a quindici anni di reclusione). Qual è il «Corpo politico o amministrativo» violentato e minacciato nel nostro caso? Il governo italiano, anzi i governi italiani presieduti da Giuliano Amato nel 1992, da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, da Silvio Berlusconi nel 1994 e così via.

In separata sede sono indagati altri tre rappresentanti delle istituzioni, per false dichiarazioni al pm: Giovanni Conso (già ministro della Giustizia dei governi Amato e Ciampi), Adalberto Capriotti (dal 1993 direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria presso il ministero della Giustizia) e Giuseppe Gargani (all’epoca parlamentare della Dc, poi di Forza Italia, ora in forza all’Udc). Per legge, saranno giudicati al termine del processo principale.

Nessun imputato è accusato di «trattativa»: il reato contestato è il Grande Ricatto ordito dai boss contro le istituzioni democratiche, con l’aiuto di esponenti delle istituzioni medesime che agevolarono il progetto di Cosa nostra e l’aiutarono a mettere in ginocchio vari governi, cioè lo Stato.

Si dice: per sapere se la trattativa è esistita, bisogna attendere la sentenza definitiva del processo. Eh no, troppo comodo. Sarebbe come dire: per sapere se Meredith Kercher è stata uccisa, bisogna attendere la sentenza definitiva del processo di Perugia. Il processo sulla trattativa serve ad accertare se vi furono dei reati, e in caso affermativo se sono proprio quelli contestati agli imputati, e in caso positivo se gli imputati li hanno commessi. Ma la trattativa è già certa oggi: sia perché esistono sentenze definitive che l’hanno accertata, sia perché la consecutio dei fatti la dimostra senza ombra di dubbio.

È, questo, il terzo modo di raccontare la trattativa: quello dei giornalisti (quelli veri, si capisce). L’informazione non deve fondarsi soltanto sugli atti giudiziari (che riguardano solo i reati provati al di là di ogni ragionevole dubbio), ma anche e soprattutto sui fatti accertati (in- dipendentemente dalla loro rilevanza penale). Fatti che stanno in piedi da soli, senza alcun bisogno di sentenze che li confermino. Fatti che continuerebbero a esistere anche se il processo non si celebrasse, e persino se gli attuali imputati dovessero finire tutti assolti. Fatti che possiamo raccontare già oggi, a prescindere dal processo.

«Io so, ma non ho le prove» diceva Pier Paolo Pasolini a proposito della strage di piazza Fontana. Noi, a proposito della trattativa Stato-mafia, siamo più fortunati: abbiamo le prove. Ma quasi tutti fanno finta di non sapere.

Marco Travaglio, È Stato la Mafia.Tutto quello che non vogliono farci sapere sulla trattativa e sulla resa ai boss delle stragi, Ed. Chiarelettere, Milano 2014, Libro + DVD, pagg.160, € 14,90

Renzi e il Sindacato. Un “dialogo” tra sordi? Intervista a Raffaele Morese

ROME ENERGY MEETING 2004Forte è stata la polemica, nei giorni scorsi, tra il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e tutto il Sindacato Confederale (Cgil, Cisl e Uil) sulla “concertazione” e più in generale sul ruolo del sindacato. Su questa polemica abbiamo intervistato Raffaele Morese. Morese è stato per anni un protagonista del movimento sindacale italiano (prima, negli anni ‘80, come Segretario Nazionale della Fim-Cisl e, successivamente, negli ’90, come Segretario Generale Aggiunto della Cisl). Durante i governi D’Alema e Amato (1998-2001) ha ricoperto l’incarico di Sottosegretario al Lavoro.

Morese, nei giorni scorsi, durante il Congresso della Cgil, abbiamo assistito ad una fortissima polemica tra la  Camusso, seguita a ruota da Bonanni e Angeletti, e Renzi sulla “concertazione”. Per Renzi la “musica è cambiata”, nel senso che per lui la “concertazione” è morta e sepolta: Lei che è stato, negli anni novanta, uno dei protagonisti della “concertazione” buona (con i governi Amato e Ciampi), qual è il suo giudizo su questo atteggiamento di Renzi? Non lo trova arrogante?

Quel “se il sindacato non è d’accordo, ce ne faremo una ragione” sa di sfida ed è irritante. Di converso, sostenere come fa Camusso che è espressione di “una torsione democratica” mi sembra altrettanto esagerato. Mi limito a dire che sulle questioni del lavoro una cosa è l’opinione via Internet di un pur ottimo impiegato dello Stato o di un intellettuale e un’altra è il pensiero del sindacato. La distinzione, anche nelle forme della consultazione, non può che essere diversificata. E tutto ciò senza scomodare la concertazione.

Lei è stato Segretario Generale della Fim-Cisl e successivamente Segretario generale aggiunto della Cisl, quindi ha una storia ricca nel Movimento Sindacale italiano. La Cisl, la sua antica “radice”, è il sindacato partecipativo e concertativo per eccellenza. La “concertazione” implica un “scambio politico” tra gli attori. Ora di fronte all’offensiva renziana non si riesce a cogliere bene però cosa contrappone Il Movimento sindacale italiano su questo punto.

E già. C’è una buona dose di confusione, piuttosto che un vero e proprio conflitto. Se fosse soltanto questo, non ci sarebbe da preoccuparsi. Il conflitto muove il progresso. Ma la confusione prevale e speriamo che non si trasformi in reciproca delegittimazione. Il dato fondamentale e importante è che il lavoro sta conquistando la prima fila nel dibattito politico e può  ritornare di attualità il conflitto tra primato della politica e primato del sociale. Era dai tempi della scala mobile, dell’inflazione a due cifre, della stagflation che non si assisteva ad una avvisaglia di contrapposizione tra politica e sociale, come quella che si profila. Ma non è un replay di quella fase. Neanche una sua brutta copia. Non ci sono più né un Berlinguer che non accetta di essere scavalcato da un’intesa tra un Governo – specie se a guida Craxi – e i sindacati, né un Carniti e Benvenuto che in nome dell’autonomia, interrompono l’unità con Lama. Non c’è più né il tentativo di realizzare una politica dei redditi concertata, né la scelta di dare un’alternativa al contrattualismo conflittuale, che aveva contrassegnato gli anni 70 e 80 e che tuttora aleggia nelle dinamiche tra le parti sociali.

Ma il Paese ha bisogno di migliorare la propria produttività complessiva, pena un irreversibile degrado. Il Governo ne ha fatto la propria cifra. Forse definendo non brillantemente le priorità, forse facendo dell’irruenza una bandiera inusuale. Ma ha posto una questione cruciale e di difficile contestabilità. Per di più, lo ha fatto caricando la molla più sulle inefficienze esterne alla produzione (istituzioni più snelle ed efficaci, pubblica amministrazione meglio organizzata, trasparenza nella gestione) che sulla solita ricetta della spremitura del lavoro per assicurare competitività al sistema delle imprese. Anche le definitive soluzioni sul contratto a tempo determinato e sull’apprendistato non sono ascrivibili alla cattiva flessibilità, indipendentemente dallo scambio proposto con gli 80 euro di sgravio fiscale a chi lavora e guadagna poco.

Il sindacato confederale  esca dal difensivismo. Non ragioni solo politicamente (“potere contro potere” fu slogan degli anni 70 dello scorso secolo). Non si faccia irretire da accuse strumentali di neolaburismo (sua  presunta etero direzione di almeno una parte del partito guidato dal Presidente del Consiglio). Non si rinchiuda nel fortino corporativo, aspettando che passi il cadavere dell’antagonista. Vada a bucare il palloncino. Faccia il suo mestiere, coniugandolo con i tempi attuali. Da una parte c’è la necessità di stare in Europa con un’ autonomia propositiva molto coesa e dall’altra occorre dare risposte alle voci che reclamano, in modi sempre più  perentori e rabbiosi, di ricomporre il mercato del lavoro. Ce n’è abbastanza per definire una strategia complessiva che convinca i propri iscritti e l’opinione pubblica. Una strategia che si collochi oltre il puro rivendicazionismo, oltre lo sterile opinionismo e sappia tenere insieme contrattazione e confronto istituzionale.

Il pendolo, finora è stato troppo esposto sul versante legislativo, risultato al dunque fragile e discutibile. Ci vuole una correzione più energica e innovativa verso la contrattazione, rivendicando ad essa il ruolo di primogenitura della ricomposizione del mondo del lavoro, in cambio di un sostegno senza riserve della crescita della produttività complessiva. Quindi, da una parte occorre accettare la sfida di ridurre le sacche di rendita politiche, burocratiche, professionali e finanziarie esistenti fuori dal sistema produttivo e dall’altra puntare  a rappresentare tanto i “ben occupati”, quanto “i male occupati” e i senza lavoro, ma anche i più deboli sul piano sociale (pensionati poveri, famiglie numerose, immigrati da integrare). Fare cioè il sindacalismo degli interessi generali, come si diceva una volta.

Maurizio Landini, con toni molto polemici nei confronti della Camusso, si è posto come un “rottamatore” della oligarchia sindacale in nome   della trasparenza e di un maggior protagonismo del sindacato. Dove ha ragione e dove ha torto il “conflittualismo” di Landini?

Non entro nel merito del conflitto interno alla CGIL sull’egemonia. Mi attengo ai fatti e da quel che emerge si può soltanto dedurre che quello di Landini non è un classico conflittualismo sindacale che presuppone che, se attivato, deve essere finalizzato ad un risultato contrattuale. Il suo è piuttosto un conflittualismo social politico, un po’ agitatorio che, nei limiti in cui non si traduce in una soluzione, rischia di trasformarsi in un puro e semplice “opinionismo”, legittimissimo, spesso applauditissimo ma sostanzialmente poco influente nella realtà dei fatti. Ovviamente, la FIOM firma anche accordi, anche importanti, come per ultimo quello alla Elettrolux, ma nell’insieme non favorisce un’azione incisiva del movimento sindacale, mette piombo nell’iniziativa della CGIL e ciò indebolisce oggettivamente la forza persuasiva del sindacato sia verso i lavoratori che verso le controparti imprenditoriali ed istituzionali.

Non sarebbe ora, per il Sindacato Confederale, di inaugurare una nuova stagione di unità mettendo da parte rendite di posizione ormai superate dalla storia?

Mi da fastidio la moda recente che tende ad associare il sindacato all’idea di conservazione. Al peggio, il sindacato negli ultimi tempi ha peccato di troppa rappresentanza dei propri iscritti, piuttosto che dell’insieme del variegato mercato del lavoro. Ma questo non è neanche corporativismo, figuriamoci se va iscritto nella casella conservazione. Detto questo, per il sindacato confederale c’è l’urgenza, come ho detto, di ricomporre il mercato del lavoro. Il decennio passato è stato quello di maggiore scomposizione del mercato del lavoro, senza incidere seriamente sul lavoro nero; con la conseguenza che la vertenzialità individuale giudiziaria ha registrato un boom senza precedenti, con i ringraziamenti del corpo forense.

Il risultato è che tutti sono insoddisfatti, dai cultori del diritto, agli osservatori economici, dai sindacati agli imprenditori ma soprattutto dalle persone che non riescono più a districarsi tra buona e cattiva flessibilità. Ora che si è trovato un punto di equilibrio (fragile) in Parlamento su contratto a termine e apprendistato, varrebbe la pena di fare il “tagliando” a tutta la regolamentazione del mercato del lavoro, con l’obiettivo della sua ricomposizione. Di conseguenza, la delega lavoro, presentata dal Governo, andrebbe ritirata o quanto meno congelata soprattutto per la parte relativa alla contrattualistica e rinviata ad una ampia discussione tra le forze sociali, professionali, economiche e culturali.

E’ in questo contesto che l’unità tra le centrali confederali può riprendere vitalità e prospettiva. Non è un problema di buona volontà dei gruppi dirigenti, ma di condivisione delle prospettive che si intendono perseguire e la fase ha bisogno di “visionari” piuttosto che di abili pattinatori nella congiuntura.