Il boom elettorale di Matteo Renzi continua ad alimentare il dibattito politico italiano ed europeo. Per alcuni osservatori, e protagonisti della lotta politica, il PD di Renzi è la nuova DC. E’ davvero così? Oppure è un’esagerazione? Su questo abbiamo intervistato Marco Damilano, cronista politico del settimanale “L’Espresso”.
Damilano, incominciano dalla sorprendente vittoria Del PD alle Europee. per molti osservatori è stata la vittoria più di Renzi che della “ditta”. per Lei?
«Lo è in termini quantitativi: alcune ricerche hanno provato a calcolare l’apporto di Renzi al risultato del Pd, almeno il dieci per cento. E questo nonostante, saggiamente, il premier avesse evitato di inserire il suo nome nel simbolo. La Ditta di Bersani nel 2013 si era bloccata al 25 per cento, non era riuscito a sfondare oltre il proprio bacino elettorale tradizionale, anzi, aveva perso voti che si erano posizionati su Scelta civica o nel Movimento 5 Stelle. Ora quell’elettorato è tornato a casa. E lo è, ancor di più, in termini qualitativi, politici. Perfino Stefano Fassina ammette di essersi sbagliato. L’ho scritto anch’io, l’ha sostenuto soprattutto Ilvo Diamanti: il Pd oggi è un PdR, il Partito di Renzi».
Il boom del PD, un risultato che è andato oltre il 40/%, ha scatenato nella pubblica opinione paragoni storici un poco azzardati. Ovvero il riferimento è quello, secondo Antonio Polito,con la DC di Fanfani. Ora se è vero che il PD di Renzi ha fagocitato i centristi di “scelta civica”, stando allo studio dei flussi elettorali dell’Istituto Cattaneo, però lo sfondamento verso verso l’elettorato di Forza Italia è stato minimo. D’altra parte, però, in queste elezioni Renzi ha conquistato casalinghe,imprenditori e under 24. Insomma siamo davvero di fronte alla DC 2.0, ovvero ad un “interclassismo” aggiornato per la società liquida?
«L’interclassismo era la parola magica con cui la Democrazia cristiana ha governato per decenni: rappresentare insieme contadini e operai, piccoli imprenditori settentrionali e pubblico impiego, soprattutto il grande, infinito ceto medio italiano. A questo blocco sociale si contrapponeva quello della sinistra che ruotava attorno al Pci. Negli ultimi venti anni, quelli della Seconda Repubblica, gli unici che hanno provato a definire e a rappresentare un blocco sociale di riferimento sono stati Berlusconi e la Lega, mentre, negli stessi anni, la sinistra ha quasi totalmente smarrito un’idea sull’Italia da rappresentare. Ha confuso la conquista del centro della società con l’inciucio con il centro del Palazzo, con Casini, ha inseguito una visione tutta politicistica, alleanze di vertice, della rappresentanza politica. Ora tocca a Renzi, che in tanti hanno raffigurato come superficiale e leggero, coltivare l’idea di ricostruire un blocco sociale, una coalizione di consenso non politica ma sociale. Una grande coalizione, non nel Palazzo, ma nel Paese. Non alla tedesca, tra partiti, ma all’americana, nella società. Nessuno può riuscirci meglio del post-ideologico Renzi».
Come si comporterà Renzi con l’ala sinistra, intendo con quelle componenti della Lista Tsipras?
«Alla sinistra del Pd, in Sel, il dibattito è aperto: il raggiungimento del quorum dimostra che c’è un elettorato che si rifiuta di confluire nel Pd, ma non vuole neppure restare isolato rispetto a un progetto di governo, eternamente all’opposizione. Nichi Vendola rappresenta bene questa contraddizione. E il dilemma dei prossimi mesi sarà: fare la sinistra renziana, un po’ come Alfano si è posizionato alla destra, oppure testimoniare una presenza irriducibile della sinistra che non si contamina con la coalizione di governo? In Parlamento un pezzo di Sel è pronto a votare alcuni provvedimenti del governo, Gennaro Migliore parla già di federazione. Ma decisivo sarà quello che Renzi ha già individuato come il suo interlocutore privilegiato in quest’area: il segretario della Fiom Maurizio Landini. Un altro che come Renzi rappresenta un pezzo di società, e non di ceto politico o sindacale».
Adesso nel PD si assiste ad uno sport italico: “salire sul carro del vincitore”. Insomma vige la “pax renziana”, una variante aggiornata del “doroteismo”, non rischia di diventare un limite?
«È un rischio che esiste. In Italia c’è la tendenza a trasformare una vittoria elettorale nell’alba di un regime. Il pensiero unico di un partito unico di un leader solo. La melassa di certi commenti, il conformismo, la gara a trasformarsi in renziani della prima ora, anzi, della primissima… Per evitarlo Renzi deve continuare a lavorare a uno schema della democrazia dell’alternanza e del bipolarismo. Il primo ad augurarsi che nasca presto a destra o in 5 Stelle un credibile e competitivo anti-Renzi deve essere proprio Renzi: fa bene al suo governo, fa bene alla democrazia italiana».
Il governo sicuramente è uscito rafforzato, Renzi, come ha sottolineato Marcello Sorgi sulla Stampa, avrà da “curare” ben “4 Forni”. Riuscirà a giocare così a tutto campo?
«L’abilità politica del premier è ormai riconosciuta da tutti, i forni possono diventare anche più di quattro, in questo momento, a ben guardare, nessuno in partenza esclude di poter fare un pezzo di strada con Renzi. La forza di Renzi è di apparire, a un tempo, uomo di rottura del vecchio sistema, ma anche leader inclusivo, che in partenza non respinge nessuno. Ha detto di voler essere «il presidente di tutti», ma ancora una volta toccherà a lui stabilire i confini: più è largo il consenso, più diventano ambigue le risposte. Questa è una lezione che arriva da decenni di trasformismo italico».
Renzi , secondo alcuni, è il nuovo leader della sinistra europea. Non è una esagerazione?
«L’ha scritto perfino il francese “Le Monde”, dopo la catastrofe dei socialisti di Hollande. Di certo Renzi è un uomo fortunato: nella sinistra europea si muove nel vuoto, di leadership, di prospettive, di progetto. Per la prima volta la sinistra italiana, il Pd, più che la guida può aspirare a essere il modello delle altre formazioni europee».
Tornando alla Storia: Renzi è il nuovo Fanfani?
«Ci sono molte analogie, la comune origine toscana, l’attivismo, il pragmatismo, il desiderio di portare al potere una nuova generazione, in fondo Fanfani rottamò la generazione di De Gasperi nel 1954. E poi la sensibilità sociale e una certa idea di interventismo della politica nell’economia. Detto questo, però, nessun paragone è possibile perché quella è tutta un’altra storia. Il Pd non è la Dc, Fanfani voleva essere il leader dello sfondamento, a sinistra e a destra, ma fallì nell’operazione perché c’era la guerra fredda e un mondo spaccato a metà dagli accordi di Yalta. Mentre Renzi vive in una società liquida in cui non esistono muri, fili spinati e confini. Per lui, lo sfondamento è possibile, sempre che non fallisca nella scommessa di governo».