“Io, killer mancato”. Il giornalista cresciuto con i mafiosi un libro di Francesco Viviano

SeriesBAW08ALTIl Libro

ll ragazzo sta per ammazzare un uomo. È in un vicolo di Palermo e deve vendicare suo padre. Quel ragazzo poco più che adolescente ha imparato a sopravvivere nel cuore nero della Sicilia e ora è a un bivio. Io,killer mancato è la storia di Francesco Viviano, cresciuto tra i mafiosi e diventato uno dei più importanti inviati italiani.

“Nel mio quartiere – scrive Viviviano – c’erano personaggi legati a diverse famiglie mafiose: Madonia, Riccobono, Scaglione, Troia, Liga Nicoletti, Di Trapani, Davì, Pedone, Gambino, Bonanno, Micalizzi e Mutolo, la crema di Cosa nostra. Vivevamo fianco a fianco.”

È la storia di un ragazzo che ce l’ha fatta. Che non si arrende ai soldi facili, che non cede alla vendetta: non vuole fare come i suoi amici e diventare il braccio destro dei boss della Piana dei Colli.

Cameriere, marmista, pellicciaio, muratore, commesso. Poi la svolta, fattorino e telescriventista per l’Ansa, quindi giornalista. Prima all’Ansa, poi a “la Repubblica”. È qui che Francesco Viviano tira fuori tutto quello che ha imparato tra i vicoli di Palermo, perché lui sa come muoversi e dove trovare le notizie, sa con chi deve parlare e come farlo.

Attraverso il suo sguardo, il lettore rivive gli anni folli delle guerre di mafia, il maxiprocesso nell’aula bunker dell’Ucciardone, gli omicidi Falcone e Borsellino, le grandi confessioni dei pentiti, l’arresto di Brusca, la caccia al papello di Riina, le prime rivelazioni sulla trattativa tra mafia e Stato. Viviano vuole i nomi e sa da chi ottenerli.

IO,KILLER MANCATO è anche la storia dell’amicizia con Peppe D’Avanzo, Mario Francese e Attilio Bolzoni, di chi ha fatto giornalismo cercando insieme gli scoop o strappandoseli di mano. È il ritratto della Sicilia e delle sue contraddizioni attraverso gli occhi di uno dei suoi migliori giornalisti.

L’autore

Francesco Viviano, cresciuto nel quartiere Albergheria di Palermo e inviato de “la Repubblica”, ha seguito i principali processi di mafia, analizzando l’evoluzione di Cosa nostra dalle stragi a oggi. Inviato in Iraq e in Afghanistan, è stato insignito di numerosi riconoscimenti e nominato più volte Cronista dell’anno (2004, 2007, 2008, 2009 e 2010). Per Aliberti ha pubblicato MICHELE GRECO, IL MEMORIALE (2008), MAURO DE MAURO, UNA VERITÀ SCOMODA (2009); con Alessandra Ziniti: I MALEDETTI E GLI INNOCENTI (2010), MOTI E SILENZI ALL’UNIVERSITÀ (2010), I MISTERI DELL’AGENDA ROSSA (2010), CAPACI,VIA D’AMELIO (2012) e VISTI DA VICINO (2012). Per Flaccovio, ANNETTA E IL GENERALE (2005).

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un breve estratto del libro

 Vicolo Arena 12

La casa di mio nonno era composta da una sola stanza con il pavimento in cemento; una tenda separava la cucina da un gabinetto rudimentale. Il tappo sul water scavato nella roccia non riusciva a bloccare gli odori della fogna a cielo aperto che scorreva all’esterno. In quella casa-stanza in vicolo Arena 12 vivevamo in sette: mio nonno Francesco Viviano detto “don Ciccio”, mastro muratore, mia nonna Giovanna Spano, mia madre Enza Bruno, io, due sorelle e un fratello di mio padre. Altri tre zii dormivano dai parenti che abitavano nello stesso vicolo. Due di loro facevano i cordai vicino a casa, sotto

le mura di cinta di piazza Montalto. Io mi divertivo a guardare la ruota che attorcigliava i filamenti mentre i miei zii, con una saccoccia sulla pancia come quella dei canguri, sfilavano la canapa camminando all’indietro.

All’angolo del vicolo c’era via Albergheria, che finiva dritta dritta, fra case diroccate e distrutte dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, nella piazza principale del mercato di Ballaro, nel cuore della vecchia Palermo. Il nostro era un quartiere popolarissimo, abitato prevalentemente da poveracci, borsaioli, scippatori, rapinatori, ricettatori, ma anche da persone perbene che riuscivano a sbarcare il lunario in maniera onesta.

Chi cercava un lavoro fisso si rivolgeva alle due uniche aziende del quartiere, quella per la lavorazione del pesce e delle olive, della famiglia Amodeo, e quella per l’inscatolamento del pomodoro, della caponata di melanzane e dei preparati di finocchietto per il condimento della pasta con le sarde, della famiglia Pensabene.

Io ero cresciuto li e ci stavo bene. Giocavo in strada con i ragazzi della mia eta, ben protetto da mia madre e soprattutto da mio nonno. Fra i suoi nipoti diretti e indiretti, che erano una quarantina, io ero il suo preferito perche ero il “figlio della buonanima”. Quando tornava dal lavoro, sporco di calce anche in faccia, mi portava con se nelle taverne del quartiere. All’ingresso ricevevamo sempre la stessa accoglienza: “un quarto di vino per don Ciccio e un bicchiere di passito per il figlio della

buonanima. Tutto pagato nostro”. Per non far bere i suoi clienti a stomaco vuoto, il taverniere portava una cesta di fil di ferro piena di uova sode e una pentola di coccio con “fave a coniglio” cotte in un brodo saporitissimo. Il venerdi c’era sempre un vassoio di baccala fritto.

Restavo li fino a quando il taverniere annunciava con molto tatto che era ora di chiudere, ma prima che la

saracinesca si abbassasse c’era sempre tempo per l’ultimo quarto di vino. Qualche volta per strada mio nonno barcollava, ma mi teneva sempre stretto per mano. Non diceva mai una parola, comunicavamo con gli sguardi. Lo adoravo, e lui adorava me. Tornati a casa trovavamo la cena pronta e il fuoco acceso

nella cardarella, il secchio di metallo che don Ciccio usava per impastare la calce. Per riscaldare quella piccola stanza non c’era bisogno di molta legna. La tavola quadrata poteva ospitare appena quattro persone per volta, perciò si mangiava a turno: prima i miei zii (i fratelli e le sorelle di mio padre), poi mia madre, i nonni e io. Non ho mai patito la fame. Divoravo le minestre di fagioli o quello che passava il convento, e chiudevo sempre il pasto con un po’ di pane e olio. Il secondo non c’era quasi mai. La domenica ci si trattava meglio: pasta al sugo con tritato, cotoletta di carne di cavallo, che costava meno di quella di vacca, oppure polpette con le “sarde a mare”,cioè niente sarde e molta mollica, pinoli e finocchietto di montagna. Si andava a letto prestissimo. Il primo era sempre mio nonno, che appena si stendeva sul materasso cominciava a russare, e mia nonna lo seguiva poco dopo. Quando c’era bel tempo ci si attardava sull’uscio di casa con i vicini, che in gran parte erano nostri parenti. Tutti sedevano fuori a chiacchierare. Si rideva, anche se molti non sapevano come avrebbero sbarcato il lunario il giorno dopo e se sarebbero riusciti a mettere in pentola qualcosa da mangiare. Per strada passavano i venditori che offrivano castagne bollite o piedini di agnello e di porco bolliti, e urlavano in dialetto: “Se non li vendo me li mangio”.

Ogni volta che qualcuno usciva di galera, e accadeva spesso, si organizzava u triunfo, una festa di vicinato. Si facevano gli schiticchi (pasti in compagnia) e una piccola banda suonava il violino, il contrabbasso e la fisarmonica.

Si restava in strada fino a tardi per festeggiare l’ex detenuto, che il piu delle volte finiva per tornare in prigione di li a breve.

Eravamo poveri, poverissimi, ma dignitosi. Mio nonno era molto rispettato nel quartiere. Nei vicoli, nei cortili e nei chioschi don Ciccio raccoglieva di continuo saluti deferenti. Molti andavano a trovarlo a casa per esporgli qualche problema da risolvere. Non era un mafioso, altrimenti non sarebbe stato cosi povero, ma era rispettato dai boss, che lo invitavano alle loro scampagnate

domenicali. In qualità di ≪figlio della buonanima≫, ero l’unico bambino ammesso a quelle tavolate, dove il vino non mancava mai. Bevevo sempre il passito, una sorta di gassosa colorata. Gli adulti parlavano tranquillamente, a bassa voce. Non ho mai assistito a risse o alterchi. Mio nonno era amico dei boss ma non faceva affari con loro.

Francesco Viviano, Io Killer Mancato. Il giornalista cresciuto con i mafiosi, Ed. Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 160.

Ecco perché Bonanni ha lasciato la Cisl. Intervista a Carlo Clericetti

imagesDa ieri Raffaele Bonanni è dimissionario dall’incarico di Segretario Generale della Cisl, una decisione imprevista. Per saperne di più, e per capire dove andrà la Cisl del dopo Bonanni,  abbiamo intervistato Carlo Clericetti, giornalista economico del gruppo editoriale “Espresso”.

 

Clericetti, Raffaele Bonanni ha rassegnato le dimissioni da Segretario Generale della Cisl con un certo anticipo. In una intervista Bonanni ha affermato che “non è uomo per tutte le stagioni”,  però, a leggere alcune voci giornalistiche, sembrano più dimissioni “spintanee” che spontanee. Che è successo, secondo lei?

Quello che mi hanno riferito varie fonti interne alla Cisl è che circolava un dossier da cui risulterebbe che da alcuni anni i versamenti all’Inps per la pensione di Bonanni corrisponderebbero a uno stipendio mai visto nei sindacati. Non è chiaro se ci siano state o meno irregolarità, e di fatto se così non fosse sembrerebbe un po’ poco per provocare una tale reazione, ma comunque questo avrebbe provocato la richiesta di dimissioni immediate da parte dell’esecutivo della Cisl. D’altronde fino a pochissimi giorni fa non c’era stato assolutamente nessun segnale dell’intenzione di passare la mano, quindi è credibile che la cosa sia stata provocata da un evento improvviso e imprevisto come questo.

La Cisl di questi anni (gli anni di Bonanni) non ha brillato molto nello scenario politico-sindacale. Qual è secondo lei il bilancio della Segreteria Bonanni?

 Premesso che anche la Cgil appare in difficoltà non indifferenti, Bonanni lascia un sindacato che dà l’impressione di non avere alcuna strategia né capacità di proposta, e si limita a giocare di rimessa preoccupandosi più di conservare un ruolo di interlocutore del governo e della Confindustria che di contrapporre un disegno alternativo alla politica di svalutazione del lavoro figlia dell’ideologia neo-liberista, che nonostante i danni prodotti continua ad essere egemone. Una volta il sindacato era un centro di discussione, elaborazione e proposta, ma di queste cose oggi non si vede neanche l’ombra, di dibattito interno non si vede traccia e i tempi di Ezio Tarantelli appaiono da libro di storia.

Qual è stato il suo limite? 

Aver assecondato il disegno di divisione del sindacato confederale e di emarginazione della Cgil, perseguito tenacemente dall’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e da alcuni manager come Sergio Marchionne. Un errore particolarmente grave in una fase di debolezza del mondo del lavoro, prima pressato dalle conseguenze della globalizzazione, poi messo in ginocchio dall’esplosione della crisi e dalla sua gestione in una logica profondamente conservatrice. La divisione del sindacato, peraltro, non è solo una questione di vertici, è diffusa anche in una parte della base e dei quadri: in particolare nella Cisl c’è spesso una forte animosità nei confronti della Cgil. Invece di lavorare per ricucire, Bonanni ha fatto di questa divisione la cifra della sua politica. Questo ha ancor più aggravato le difficoltà già pesantissime e oggi, se non ci sarà un radicale cambiamento di linea, i sindacati corrono il rischio concreto di diventare irrilevanti. Alcuni aspetti dei provvedimenti annunciati dal governo, se passeranno così come sono stati ventilati, potrebbero segnare un rapido declino dei sindacati, Cisl compresa. Non sembra che Bonanni l’avesse capito.

Come si presenta al suo interno la Cisl dopo le dimissioni di Bonanni? Ripartirà il confronto?

Al momento si può solo sperarlo. Come ho detto, finora non c’era una vera opposizione a Bonanni, ma questo abbandono improvviso e imprevisto potrebbe rimescolare le carte e riaprire un dibattito interno da cui potrebbe emergere un nuovo leader. Al momento la cosa più probabile e più logica è che al prossimo Consiglio generale, già convocato per l’8 ottobre, venga affidata la guida all’attuale numero 2, Anna Maria Furlan, ma quasi certamente si deciderà di anticipare il Congresso, che si sarebbe dovuto tenere fra tre anni. Ora i tempi sono troppo stretti perché possa svilupparsi una discussione sui temi di fondo, che probabilmente invece si svilupperà nel periodo successivo.

Il prossimo Segretario Generale della Confederazione sarà dunque, molto probabilmente, Anna Maria Furlan. Sindacalista genovese, proveniente dalla categoria delle Poste. Per alcuni non ha “robustezza” sindacale. Come sarà , secondo lei, la Cisl della Furlan?

E’ difficile che si possa assistere a svolte immediate e radicali, anche se vale sempre il vecchio adagio che a volte un papa è molto diverso da quando era cardinale. Sulla carta quella della Furlan non sembrerebbe una segreteria “forte”, ma questo forse non è neanche un male, perché potrebbe favorire la riapertura del dibattito e un rinnovamento reale della dirigenza Cisl. La sua potrebbe anche essere una segreteria “di passaggio”. Vedremo presto se nella Cisl ci sono ancora uomini e risorse intellettuali in grado di restituire al sindacato quel ruolo di protagonista della politica nazionale che in passato è stato più volte determinante.

Alla vigilia del Sinodo scontro in Vaticano sulla Famiglia. Intervista a Marco Politi

Dal 5 al 19 Ottobre si svolgerà in Vaticano l’importante Sinodo sulla Famiglia. L’evento sta creando un forte dibattito all’interno della Chiesa Cattolica. Ne parliamo con Marco Politi, vaticanista del Fatto Quotidiano e autore di “Francesco tra i lupi” (ed. Laterza).

foto da www.lavanguardia.com

Politi, il “Corriere della Sera” oggi ha portato alla luce lo Scontro vaticano, alla Vigilia del Sinodo dedicato alla Famiglia che si aprirà il prossimo 5 ottobre a Roma, sulla pastorale familiare. La presa di posizione, con la pubblicazione “Permanere nella verità di Chiesa: Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, di 5 Cardinali (tra cui Muller e Cafarra) contro    le aperture del Cardinale Kasper sulla comunione ai divorziati risposati e non solo. Insomma il fronte conservatore fa muro. Quanto è diffusa l’ostilità a questi tentativi di innovazione pastorale?

C’è una parte di Chiesa – non solo nella Curia, ma anche tra gli episcopati del mondo e tra i sacerdoti – che in  perfetta buona fede è rimasta ancorata ai veti del passato, chiudendo gli occhi  sul grande scollamento, che si è realizzato negli ultimi decenni  tra l’astratta dottrina dei vertici da una parte e lo stato d’animo dei fedeli e l’atteggiamento di misericordia di tanti parroci.

Il Sinodo ha avuto un’intensa preparazione, grazie anche alla consultazione con lo strumento del questionario diffuso a tutto il popolo cattolico, dove è emersa chiaramente tutta la problematica della famiglia nella sua realtà sociale (comprese ovviamente le nuove forme di famiglia). Le chiedo saprà il Sinodo essere all’altezza delle sfide?

Papa Francesco ha programmato ben due Sinodi sul tema della famiglia e della vita di relazione delle coppe e delle persone perché vuole rportare nella Chiesa il clima del libero dibattito conciliare. Come già al concilio Vaticano II assisteremo al Sinodo ad un confronto anche aspro tra le diverse opinioni.  Il libro  dei cinque cardinali, che respingono la possibilità di dare la comunione ai divorziati risposati,  è il segnale che l’opposizione alla nuova pastorale di Francesco si sta organizzando.

La Chiesa italiana come si è comportata nella preparazione al Sinodo? La mia impressione è che la Cei non ha brillato…

La Chiesa italiana finora sta andando a rimorchio del Papa. L’ “Avvenire” a suo tempo non ha pubblicato nemmeno on line  il sondaggio lanciato dal Vaticano sui problemi familiari e sessuali (lo ha confinato solo nell’inserto-famiglia). Ma, ricordando l’esperienza del Vaticano II, la libertà di dibattito voluta dal Papa finirà per dare coraggio anche a tanti vescovi che finora non si sono espressi.

Una domanda sul Prefetto della Congregazione sulla Dottrina della Fede, il Cardinale Muller.

Colpisce la sua apertura quasi totale sulla Teologia della Liberazione (in particolare sulla teologia di Gustavo Gutierrez) e colpisce pure questa rigidità estrema verso l’apertura ad “una teologia fatta in ginocchio” verso quei cristiani che hanno, per diversi motivi, fallito un percorso d’amore. Non trova contraddittoria la sua posizione?

E’ sempre sbagliato inchiodare una persona ad un’etichetta. Specialmente nella Chiesa.  Il cardinale Mueller,  a cui proprio Francesco ha voluto dare la porpora, come molti presuli può avere posizioni aperte su un problema e più tradizionali su un altro.  Ci sono presuli a favore di un atteggiamento misericordioso verso gli omosessuali ma contrari a dare posti di responsabilità alle donne nella Curia. Oppure aperti sulle questioni sociali e restii a cambiare la linea sul matrimonio.  La Chiesa è un mosaico e una stessa persona può avere un ventaglio di opinioni differenti.

Ultima domanda.  Come sta procedendo il cammino di Papa Francesco e la  sua opera di profondo rinnovamento?

Francesco è consapevole dell’opposizione al suo progetto di rinnovamento, specialmente quella nascosta e in particolare le varie forme di resistenza passiva. Ma, come ha detto sin dall’inizio, una Chiesa che non ha il coraggio di uscire dai recinti muore.

Marco Politi, autore di “Francesco tra i lupi” (ed.Laterza), vaticanista de Il Fatto Quotidiano

Guerriere, La resistenza delle nuove mamme italiane. Un libro di Elisabetta Ambrosi.

guerriere_Sovra_SeriesBAW08ALTGUERRIERE,“La resistenza delle nuove mamme italiane” è un libro di Elisabetta Ambrosi con la prefazione di Lia Celi, uscito per la casa editrice “Chiarelettere”, getta lo sguardo su una realtà dimenticata nel nostro Paese.

Ovvero su quelle donne che con il cuore in gola, telefonino all’orecchio, orologio sotto gli occhi, sono le mamme acrobate di oggi che inseguono un equilibrio tra lavoro, famiglia, figli e se stesse. Donne abituate a salti mortali, a silenziose battaglie quotidiane su mille fronti, mentre lo Stato sembra dimenticarle.
Queste combattenti sono le nuove mamme italiane di cui ci parla Elisabetta Ambrosi.
Come riuscire a sopravvivere in mezzo agli ostacoli? Se lo Stato promette servizi che non mantiene, vara leggi sulla tutela delle madri lavoratrici che poi non fa rispettare, mentre il lavoro dà sempre meno reddito, l’innovazione più radicale deve partire dalla piccola repubblica rappresentata dalla famiglia. Non resta che rimboccarsi le maniche, trovare strategie alternative, scegliere bene le battaglie da combattere per indirizzare al meglio le energie.
La prima a farlo è stata proprio Elisabetta Ambrosi che ha deciso di indagare le tattiche di sopravvivenza quotidiana di amiche e donne conosciute attraverso il blog “Sex and (the) stress”, alle quali ha chiesto di raccontare le loro giornate, la ripartizione dei carichi in famiglia, la divisione dei ruoli con il padre, il percorso professionale, il lavoro attuale, lo stipendio e ciò che vorrebbero dallo Stato. Ne nasce un libro fatto di voci femminili, precarie, autonome, partite Iva, dipendenti, per le quali avere un figlio non è più una scelta normale, è un lusso. Ma anche un vademecum alla sopravvivenza, fisica e mentale, fatto di consigli da mettere in pratica per far quadrare i conti.

Chi è l’autrice?
Elisabetta Ambrosi è nata Roma e ha conseguito una laurea e un dottorato in Filosofia politica. Giornalista professionista, ha collaborato con varie testate nazionale. Oggi scrive per “Il Fatto” e Vanityfair.it, dove cura il blog “Sex and (the) stress”. È autrice di NON È UN PAESE PER GIOVANI (con Alessandro Rosina), INCONSCIO LADRO. MALEFATTE DEGLI PSICOANALISTI, CHI HA PAURA DI NICHI VENDOLA?,MAMMA A MODO MIO. GUIDA PRATICA ED EMOTIVA PER NEOMAMME FUORI DAL CORO e SOS TATA 6–9 ANNI.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro

La mia giornata

Mi alzo alle sei e mezzo senza bisogno di sveglia: il mio Super-io mammesco-lavoratore fa tutto da solo. Sguscio fuori dal letto cercando di non fare rumore e tentando in ogni modo di non urtare la sagoma di mio figlio Paolo che ogni notte, quando la paura di crescere si fa acuta, si alza come un sonnambulo scavalcando le pile di giocattoli – incredibilmente non inciampa mai – per venire nel lettone, nonostante i vani e ripetuti tentativi di applicare il metodo Estivill sui letti separati: la vita è sempre un’altra cosa.
Ingurgito un caffè e realizzo che il latte in frigo non basterà a riempire il biberon e che mi toccherà fare un’aggiuntina di acqua sentendomi per l’ennesima volta una madre sciagurata e, approfittando del pochissimo tempo di solitudine che mi resta, leggo veloce i giornali, dove si racconta di quello strano mondo parallelo che si svolge tra Palazzo Montecitorio e i salotti tv.
Un passo felpato mi avvisa che il quattrenne si è alzato: eccolo arrivare in pigiama spaiato e ciuffo barbarico a reclamare come suo diritto acquisito, da cui è impossibile retrocedere pena il ricorso alla corte costituzionale dei bambini, biberon e cartoni animati.
Mentre scorrono i barbatrucchi dei Barbapapà, e il loro mondo fantastico dove tutto è facile da ottenere perché ci si può trasformare a piacimento (chissà come sarebbe bello il sesso avendo un barbacorpo), ho già il computer acceso e consulto l’Ansa in cerca di notizie da commentare sui miei due blog: per quello pop scelgo il tradimento, argomento facile che tira sempre, per il blog politico l’ultimo rapporto Istat, dove si racconta che nessuno fa più figli perché costano troppo.
Questo con gli occhi, perché le mie orecchie sono tese a intercettare la pubblicità e cambiare canale, ma non solo per Paolo: l’insopportabile réclame di Sofia la Principessa alle sette del mattino può rovinare la giornata persino al più caparbio sostenitore dei ruoli tradizionali (lei è una principessa che sta nel castello e deve sedurre un principe avventuroso che se la spassa per il mondo).
Ecco che inizia la girandola di aerosol mattutino, lotta per la vestizione del pargolo alla ricerca di una terza via tra gli abiti preparati (un paio di semplici calzoni e un golf ) e quelli che lui vorrebbe (tuta e per sempre tuta, più la maglietta di Superman che ormai gli va troppo piccola), preparazione della merenda – oddio non c’è nulla, afferro i soliti cracker e succo di frutta con il senso di colpa di chi sa che, secondo il nuovo bio-Zeitgeist alimentare, sta avvelenando il figlio –, infine l’affannosa ricerca del pupazzo per dormire il pomeriggio, che però ha una manica rotta che non ho fatto in tempo a cucire (in realtà non so cucire ma evito di dirlo perché ancora, in Italia, a una moglie è richiesta competenza in materia).
Via in macchina, anzi no, prima alla ricerca della macchina, poi, cronometro alla mano, count down per arrivare all’asilo, trovare un parcheggio di fortuna sperando che i vigili siano al bar, accompagnare il bambino dentro la classe per poi salutarlo con circa dieci minuti di riti di saluto, abbracci, promesse di programmi paradisiaci per il dopo scuola, doppio bacio a lui e bacione al pupazzo. Anche una fan dell’asilo nido precocissimo come me – ricordo che lo iscrissi, mai scelta fu più lungimirante, col pancione, per poter partorire sapendo di avere un alleato – in quei minuti deve scacciare l’immagine di terroristi in agguato fuori dalla scuola pronti a far incursione quando mi sarò allontanata.
O quella del prosciutto del panino che si incastra nella gola, unita al timore che le maestre non abbiano mai fatto quel corso sulla manovra di Heimlich che pure campeggia sul muro dell’asilo sopra un tranquillizzante cartello.
Allontanati dalla mente gli scenari catastrofici, in fondo oggi c’è il sole e stranamente non c’è sciopero dei mezzi né manifestazioni, torno a casa senza intoppi e tento di fare ordine, raccogliendo calzini e briciole, ascoltando la rassegna stampa alla radio, con l’iPad che mi segue per le stanze con la voce del barboso notista politico di turno. Poi salto in motorino e raggiungo il mio ufficio in coworking: qualche anno fa ho affittato uno spazio con altre persone per sfuggire alla solitudine della casa e ricordarmi che oggi lo status bisogna darselo da soli.
Sono le nove e la giornata può iniziare.

Il “gioco” pericoloso di Putin in Ucraina. Intervista a Paolo Garimberti

Paolo Garimberti

Paolo Garimberti

La tregua nell’Est dell’Ucraina traballa, oggi a Donetsk c’è stata la prima vittima dopo l’accordo di cessate il fuoco firmato a Minsk venerdì. Sui possibili sviluppi del conflitto tra Russia e Ucraina abbiamo intervistato Paolo Garimberti, editorialista del quotidiano “La Repubblica” e Presidente di “Euronews”.

Presidente Garimberti, c’è da fidarsi di Putin?

Io credo che la situazione in Ucraina di Putin sarà di mantenere viva una certa instabilità perché dal suo punto di vista questo continua a tenere una tensione politica, oltreché militare, con una guerra a bassa intensità, che non cessa mai e mantiene uno stato di allerta e allarme a Kiev ma anche in Occidente. Questo è il suo obiettivo, probabilmente la tregua nel suo insieme terrà, ma terrà con incidenti, delle violazioni, dei momenti di polemica. Perché questo è l’obiettivo: continuare a fare quello in cui è maestro, cioè una provocazione dietro l’altra senza mai fermarsi.

Siamo, con il conflitto Russo-Ucraino, nel periodo peggiore per l’Europa post-1989. Vladimir Putin è stato definito, in passato, un “Piccolo Zar”. Gli avvenimenti degli ultimi anni, però, ci hanno fatto conoscere uno Zar potente con idee molto chiare. In meno di un anno ha vinto la sua seconda guerra di “annessione” (dopo Crimea ora con la “Novorossija”). Certamente tra i fattori di successo c’è la potenza militare ed energetica. Quali sono gli altri fattori?

Il fattore principale è il grande consenso interno di cui gode. Putin ha preso il potere al Cremlino con elezioni legittime e libere nel 2000, prendendo il posto di Eltsin che per un decennio circa aveva lasciato la Russia nel caos, in una situazione di economia declinante, di potenza militare praticamente nulla rispetto a quella che era l’URSS del passato. Quindi Putin ha ristabilito in qualche modo una dignità agli occhi della sua popolazione, i russi, che sono sempre stati fortemente orgogliosi e nazionalisti. Putin ha saputo ricreare in qualche modo quell’URSS la cui scomparsa aveva definito “una delle più grandi tragedie della storia”. Ha fatto quello che i russi si aspettavano da lui: ha ristabilito ordine, ha ridato un certo credito internazionale, credibilità economica e militare alla Russia. Certo non riesce nel suo grande disegno, che sarebbe quello di ricreare in un qualche modo l’URSS. Ha provato a farlo proponendo una sorta di associazione economica simile all’Unione Europea, le ex repubbliche sovietiche, aggiungendo Kazakistan e Bielorussia, ma non ha avuto molto successo, hanno risposto positivamente solo queste due, ma ora le sanzioni occidentali stanno incrinando anche queste alleanze. Tutto sommato Putin ha giocato la leva del nazionalismo, e sull’Ucraina il suo operato ha l’87% dei consensi nella popolazione, perché il russo medio, ma anche una certa intellighenzia, ha sempre pensato che l’Ucraina sia inscindibile dalla Russia, in fondo la Russia è nata in Ucraina, quindi alla fine la storia dice che c’è un legame molto forte tra la Russia e l’Ucraina.

Secondo alcuni commentatori della stampa internazionale lo Zar Putin, in Ucraina, sta applicando la “dottrina Breznev” sul diritto di intervento qualora il socialismo fosse in “pericolo” (vedi l’invasione della Cecoslovacchia del 1968). Ora la variante putiniana dice: interverremo ovunque i russi siano in pericolo. Le chiedo: c’è da aspettarsi, a breve termine, l’applicazione della “dottrina” d’intervento anche in altri scenari dell’ex Urss?

Intanto si possono fare certi paragoni, ma con molto giudizio, la dottrina Breznev a sovranità limitata era in un’epoca in cui il mondo che era diviso in due, soprattutto per ragioni ideologiche. Si diceva che si proteggeva il socialismo laddove era minacciato, l’intervento del 1956 e nel 1968 a Praga era dettato da questo: la protezione del socialismo nei paesi dove era al potere. Oggi Putin agisce in base a fattori diversi: il nazionalismo e la protezione delle minoranze russe. Ora, esistono minoranze russe che certamente non sono in situazioni di grande prosperità, né economica né dal punto di vista dei diritti, nelle ex repubbliche sovietiche, in particolare nelle repubbliche baltiche. Io non credo però che Putin si spingerà a fare nelle repubbliche baltiche quello che ha fatto in Ucraina. Intanto perché la popolazione di lingua russa in Ucraina , in quella che viene definitiva dai separatisti “nuova Russia “, è molto più forte delle repubbliche baltiche. Secondariamente perché queste fanno parte della NATO , hanno la protezione della Nato. Putin sa benissimo che scatterebbe il famoso art. 5, per cui se un paese della Nato subisce un’aggressione immediatamente gli altri paesi devono intervenire in suo soccorso. Putin è sicuramente arrogante, ma è tutt’altro che stupido. È uno zar potenziale e vuol tornare ad essere tale, ma che sa quali sono i limiti della politica nel mondo di oggi. Sa anche che è accettabile per l’occidente che una parte dell’Ucraina abbia una situazione, anche costituzionale, di federazione con il resto del Paese; non sarebbe accettabile che Putin voglia ricostruire un’Unione Sovietica com’era fino al 1990.

Torniamo alla crisi Ucraina: quali sono stati gli errori dell’Occidente in questa vicenda?

Gli errori dell’Occidente sono stati soprattutto degli Stati Uniti e del presidente Obama perché non dobbiamo dimenticarci che la potenza leader politica e militare dell’Occidente sono gli Stati Uniti. Sono state le sottovalutazioni di Obama, l’ignoranza di quello che accadeva nella Russia, dopo che Putin è andato al Cremlino, ciò che è dimostrata dall’impoverimento dei centri di studi e analisi della Russia, di quelli che una volta erano i centri di studio dell’Unione Sovietica, che erano non solo prosperi, ma anche di primissimo livello. Oggi, dopo la caduta del muro, alla Casa Bianca ci si è concentrati su quello che appariva il problema maggiore, cioè la situazione in Medioriente, l’Iraq, naturalmente il terrorismo, l’Afghanistan. Questo ha fatto sì che ad un certo punto si pensasse che la Russia fosse completamente fuori dai grandi giochi. Clinton, che è stato l’ultimo presidente americano che ha avuto una visione di politica internazionale, poi i suoi successori sono stati un disastro. Bush figlio lo è stato per l’arroganza e anche la stupidità dei suoi consiglieri, oltreché per i motivi economici; Obama è stato di una totale ingenuità, ha pensato che con i proclami si potesse fare la politica estera, ha fatto dei discorsi molto belli che sono rimasti tali.

Quali sono i punti deboli di Putin su cui l’occidente può puntare per tornare ad un clima di dialogo e cooperazione necessari per stabilizzare altri scenari di conflitti?

Bisognerebbe strangolare la Russia economicamente, ma è molto difficile perché sarebbe un boomerang anche per noi: l’energia che consumiamo viene in gran parte dalla Russia. Io credo che ci sono due cose che bisognerebbe fare per far capire a Putin che non siamo inerti: la prima è militare, anche se deve essere più simbolica che reale, ma comunque mandare dei segnali, per esempio mettere delle truppe Nato simbolicamente, ma non solo, ricordiamoci gli Euro-missili degli anni ottanta, che furono la risposta al rafforzamento missilistico a medio e corto raggio dell’Unione Sovietica. Questo alla fine provocò la caduta della vecchia Unione Sovietica e l’inizio della nuova era con Gorbaciov. Misure militari di carattere psicologico, poi bisogna colpire gli oligarchi Russi che hanno interessi in Occidente dove investono, pensiamo al calcio. Gli oligarchi a questo punto toglierebbero, probabilmente, a Putin il loro consenso che sicuramente è fatto di paura. Quindi colpirli strangolando l’economia di esportazione (cioè di soldi). Putin minaccia perché finora ha subito solo delle risposte debolissime, ma questo è lo stile dell’uomo che piace tanto ai russi. Lo stile di Putin, anche questo va contrastato: deve capire che fare il gradasso non paga più. Se ogni volta che Putin abbaia noi ci prendiamo paura e abbassiamo il livello delle ritorsioni, delle sanzioni. La cosa più stupida che possiamo pensare è che Putin ragioni come noi. Putin non ragiona come noi, non ragiona con la politica, ma con la forza e bisogna rispondere con la forza.