Libia e disinformazione 
le tante montature Isis 
e i creduloni di Stato. Un’analisi di Don Giulio Albanese

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Giulio Albanese in questi giorni è in Africa, quella più nera e più profonda della costa Mediterranea, ma non smette di guardarsi attorno. lui, da giornalista-prete che i peccati raccontati li conosce individua al volo le bugie: allarmismi inutili o peggio disinformazione che conta sugli stupidi.

Per gentile concessione del sito: www.remocontro.it

Tutti hanno paura di quanto sta avvenendo in Libia. Ma cosa si può fare per arginare il delirio califfale? È importante rispondere con lucidità e freddezza. Contrariamente a quanto afferma certa informazione, lo Stato Islamico non sta conquistando la Libia. Semmai, alcune fazioni tribali, dalla caduta del regime di Gheddafi, continuano ogni giorno a massacrarsi, utilizzando il “brand” del califfato, in franchising, come ha scritto l’amico Lucio Caracciolo.

È il modo migliore per bucare lo schermo, ottenere visibilità, suggestionare le masse e reclutare adepti. La diffusione, nei giorni scorsi, del video in cui era mostrata la decapitazione di 21 egiziani copti è aberrante, ma rientra nel contesto di una strategia eversiva, criminale e massmediale. Personalmente, credo che occorra, innanzitutto, bloccare i flussi di denaro che foraggiano i gruppi armati.

Ma l’intelligence occidentale cosa sta facendo? È possibile che non sappiano chi sono i finanziatori delle bande libiche? Per favore, mettiamoci in testa che se gli aspiranti seguaci di al-Baghdadi in terra africana stanno facendo il bello e il cattivo tempo è perché finora è mancato un meccanismo di supporto internazionale che sia dotato dell’effettiva capacità di individuare e colpire le organizzazioni coinvolte nella lotta armata, al fine di indebolire i centri nevralgici che provocano instabilità e violenza.

In assenza di questo tipo d’intervento, la proliferazione di gruppi e organizzazioni del radicalismo islamico aumenterà esponenzialmente grazie alla facilità di ingresso delle attività illecite. Inoltre, la comunità internazionale deve evitare di cadere nella trappola manichea, quella di parte, cioè di chi spinge il sostegno a favore di una componete, a danno dell’altra.

Al contrario, è necessario favorire in ogni modo l’espansione del tavolo negoziale e dei processi politici che sostengano l’inclusione e la rappresentatività delle più diverse componenti. Ad esempio, riconoscere la legittimità delle forze politiche di ispirazione confessionale non solo è un’urgente necessità, ma anche l’unico vero modo per delegittimare le componenti radicali e jihadiste isolandole dal contesto politico e sociale libico.

Perché ciò sia possibile, però, è indispensabile agire con decisione contro le ingerenze esterne, riconoscendole e denunciandole senza esitazione, evitando così di trasformare la Libia in un terreno di scontro “per conto terzi”. È bene rammentare che Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita hanno le loro responsabilità a questo proposito. Il cammino è certamente tutto in salita. Occorre pertanto non perdere tempo.

Stiamo parlando di un Paese, per favore non dimentichiamolo, che è stato culla di civiltà: il teatro di Sabratha, la magnificenza di Leptis, le pitture rupestri dell’Acacus…

DAL SITO: http://www.remocontro.it/2015/02/21/libia-disinformazione-tante-montature-isis-i-creduloni/

 

Capire la Russia? Intervista Paolo Borgognone

capirelarussia4_1Quali sono le “radici” della prassi politica di Vladimir Putin? Come si sviluppa il dibattito politico in Russia? Lo abbiamo chiesto a un giovane studioso del pensiero politico russo contemporaneo, Paolo Borgognone. Autore di un grosso volume, pubblicato dall’Editrice Zambon: Capire la Russia (pagg. 680, € 25,00). 

Le sue risposte sono dichiaratamente filorusse, frutto di un’impostazione politica “patriotica anticoloniale” (così lui stesso la definisce). Sono tesi minoritarie in Occidente, ma che sono presenti, invece, nella politica russa. Questa è la prima di una serie di interviste sulla Russia, ne seguiranno altre con analisti di diversa impostazione.

Borgognone, la sua è una posizione marcatamente filorussa. Lei nel suo libro, tral’altro, analizza le “ragioni” storiche e culturali del “putinismo” nella storia politica recente della Russia. Quali sono queste “ragioni”?

In effetti non nego il mio interesse politico per le correnti nazional-patriottiche, neoeurasiatiste e “comuniste sostenitrici dello Stato” in Russia, così come in Jugoslavia e in Serbia ai tempi della guerra della Nato per lo smantellamento del piccolo ma valoroso Stato balcanico resistente, ma le mie opinioni politiche trascendono il lavoro di storico e sociologo della postcontemporaneità che porto avanti con fatica e passione. Infatti è proprio in base ai risultati di studi meticolosi e oggettivi che individuo ragioni storiche, culturali e politiche alla radice degli attuali processi di ricentralizzazione dei pubblici poteri portati avanti da Putin in Russia dopo il 2000. L’esecutivo di Putin, partito da posizioni indubbiamente liberali (Putin fu il successore designato di Eltsin, non scordiamolo mai…) ha maturato, sulla scorta di un’azione di governo caratterizzata dal confronto politico con la situazione di disfacimento nazionale, economico, militare, politico e sociale cui la Russia era giunta dopo 10 anni di capitalismo americano d’importazione, un approccio funzionale a recuperare allo Stato federale un certo qual grado di primazia politica nei confronti della pluralità di poteri oligarchico-mafiosi e di pulsioni secessioniste, spesso alimentate dall’esterno, contraddistinguenti lo spazio geopolitico russo di estrazione postsovietica dopo il 1991. In altri termini, contrastando fermamente gli oligarchi filoccidentali, recuperando al controllo statale i principali cespiti strategici dell’economia nazionale (petrolio, gas) e ponendo fine al secessionismo che allignava in varie entità territoriali della Federazione russa (Caucaso, Urali, Siberia), Putin ha parzialmente emancipato la Russia dalla condizione di servitù semi-coloniale nei confronti dell’Occidente (Usa in testa), caratterizzante il decennio eltsiniano.

Qual è la base sociale del “putinismo”?

Questa è una domanda molto pertinente e interessante. Pochi infatti si interrogano sull’effettiva base di consenso appannaggio di Putin e di quello che, in Occidente, viene definito il “partito del potere”, Russia Unita, quasi a voler dimostrare che l’attuale governo russo si trovi nella condizione di poter contare su di un consenso genericamente estorto, per via clientelare, mediatica o poliziesca, da parte di settori di popolazione “impauriti” e “manipolati” dal “regime autoritario di Putin”. Altri invece attribuiscono a Putin un consenso derivante dalla cosiddetta “atavica tentazione” a favore dello “stalinismo” coltivata dai russi. Naturalmente, le cose non stanno così. Oggi la base di consenso a Putin e a Russia Unita ha una connotazione descrivibile come l’alleanza strategica tra una borghesia “nazionale” di estrazione statale (soprattutto interna alle vaste aree provinciali della “Russia profonda”) e ampi strati popolari e periferici, pauperizzati dai processi di globalizzazione. Si tratta di un’alleanza patriottica, “nazional-borghese” a connotazione popolare, strumentale a integrare il percorso di emancipazione in chiave anti-coloniale della Russia post-eltsiniana. E’ molto importante ravvisare come questo tipo di alleanza dialettica tra una borghesia “nazional-statale” e gli strati popolari periferici, anche rurali, in funzione del recupero della sovranità politica dello Stato, sia diametralmente opposta al blocco sociale, se così lo si può definire, caratteristico degli odierni Stati coloniali postcontemporanei, le cui élite oligarchiche sono sostenute da una limitata classe media esterofila di estrazione privata e, a vario titolo, da settori sottoproletari di norma parcellizzati in indistinti atomi di consumo e desiderio (moltitudini biopolitiche globalizzate). L’alleanza pro-Putin respinge la struttura di classe, oligarchico-plebea, del capitalismo americano contemporaneo e tende alla costruzione, in Russia, di un moderno Stato postcoloniale (caratterizzato dalla coesistenza dialettica borghesia patriottica/proletariato patriottico) a ritrovata capacità di proiezione geopolitica autonoma. In sostanza, penso che Putin sia riuscito laddove i suoi predecessori comunisti hanno in qualche modo mancato, cioè nello stabilire una sorta di egemonia nei confronti dei ceti medi autoctoni.

Sia lei che Giulietto Chiesa (che ha fatto l’introduzione al suo volume) definite Putin un “democratico”. Francamente per un osservatore obiettivo è difficile pensare alla “democratura” di Putin come ad una democrazia di stampo liberale. Lei stesso afferma nel libro l’incompatibilità della Russia con l’Occidente: “Nessuna integrazione con l’Occidente è possibile”.  Quindi, per lei, sono due “mondi” destinati ad un perenne conflitto?

L’epiteto “democratico” in Russia, dopo l’esperienza politica del decennio eltsiniano, è perlopiù considerato alla stregua di un insulto per cui sia chiaro che non intendo offendere Putin nel momento in cui lo definisco “democratico”. Battute a parte, il nocciolo del problema sta proprio nel termine “democrazia liberale”. Io considero questa formula una specie di alibi dell’Occidente finalizzato a legittimare la Postmodernità Americanocentrica come religione identitaria unica di un mondo che si pretende interamente conquistato alle logiche della globalizzazione, del capitalismo sans frontières e della promozione, su scala globale, tramite guerre neocoloniali e “rivoluzioni colorate”, dei “diritti di libertà individuali” di un astratto individuo perfettamente addomesticato al cosmopolitismo del “consumo libero” occidentale. In altri termini, la “democrazia liberale” odierna non è che un’alternativa definizione caratterizzante la “Cultura McWorld” degli anni Novanta, evolutasi nell’attuale società della comunicazione multimediale globalizzata. La stessa categoria politica di democrazia moderna, intesa come ideologia e processo di emancipazione delle masse nell’ambito degli Stati nazionali a regime postcoloniale, è stata delegittimata e dissolta nell’ambito dell’odierna postdemocrazia di libero mercato e libero consumo (per chi se lo può permettere). La democrazia moderna ha chiuso il suo ciclo storico nel momento in cui, dopo il 1989, è stata decretata, dall’iperpotenza uscita vittoriosa dalla Guerra fredda, l’imminente fine capitalistica della Storia e il trionfo dell’“ultimo uomo” (volontario rimando di Fukuyama a Nietzsche), ossia l’individualizzato consumatore americanocentrico privo di qualsivoglia legame identitario a carattere collettivo (nazionale, politico, di classe, di genere). Il colonialismo dei nostri giorni si fonda appunto sull’estensione, su scala planetaria, del modello culturale della “società dei consumi e dello spettacolo” occidentale. E’ pertanto un colonialismo centrato sull’apertura di mercati e di “spazi di comunicazione” volti alla promozione del postmoderno cosmopolitismo del consumo e del desiderio. Oggi i gruppi strategici di riproduzione tardocapitalistica sono proprio le nuove classi medie giovanilistiche e americanizzanti che, in Russia, in special modo nelle città di Mosca e San Pietroburgo, esercitano una limitata ma rumorosa azione di opposizione al governo di Putin e che l’Occidente definisce, acriticamente, i “democratici” russi. Ponendo in discussione determinati postulati culturali tipici della postmodernità (marginalizzazione del ruolo degli Stati nazionali come organizzatori e gestori delle dinamiche di riproduzione sociale interna, società dell’Internet globalizzato, World Wide Web, esterofilia americanocentrica, gay-friendly inteso come affermazione di un nuovo tipo androgino unificato in luogo dei tradizionali generi sessuali maschio/femmina) il “putinismo” si pone in diretta continuità con una prospettiva di ripristino del moderno concetto di democrazia come processo di emancipazione e di liberazione collettiva da vincoli di derivazione coloniale.

Parliamo del partito di Putin “Russia Unita”. Un “partito conservatore e patriotico” . Così è visto dalla maggioranza dei suoi dirigenti. Vi sono altre “sensibilità”?

Il partito “Russia Unita” nasce nel 1999, con il nome di “Unità”, come braccio politico del declinante regime di Boris Eltsin, in funzione anticomunista. Negli anni successivi, questo partito ha integrato, all’interno delle sue strutture, importanti dirigenti di specchiata sensibilità patriottica, come l’ex ministro degli Esteri ed ex premier Evgenij Primakov. Nel corso degli anni, Russia Unita ha visto aumentare, al proprio interno, il ruolo degli esponenti maggiormente legati alla sensibilità patriottica, fuoriuscendo in parte dall’iniziale prospettiva sostanzialmente liberale. Russia Unita è un partito centrista, a direzione ideologica “nazional-borghese” e a forte connotazione elettorale popolare. Per questo definirei Russia Unita un partito conservatore (nell’accezione russa del termine) a vocazione popolar-patriottica. Vi sono certamente oligarchi sostenitori di Russia Unita ma oggi il consenso politico di cui gode Putin è talmente ampio che il ruolo esercitato dall’élite oligarchica nella direzione della cosa pubblica è sicuramente diverso rispetto al governo diretto degli oligarchi caratteristico del decennio eltsiniano. Con Putin la Russia ha in parte allontanato il rischio della plutocrazia senza mediazioni, riequilibrando il contenzioso dei poteri a vantaggio della frazione politica e a svantaggio di quella oligarchica. Soprattutto, gli oligarchi filoccidentali, largamente invisi alla popolazione, sono stati marginalizzati dal punto di vista politico. Nel novero di Russia Unita vi sono anche sensibilità politiche neoliberali che rendono questo partito indubbiamente caratterizzato da una pluralizzazione delle opinioni e degli interessi interni. Una pluralità interna sicuramente mediata dall’esercizio politico del carisma di Putin. Ma lo scenario politico russo non è solo Russia Unita. Il Partito comunista della Federazione russa è la seconda forza politica del Paese con il 20% dei voti e, stando ai dati del 2011, anno delle ultime elezioni parlamentari, con un numero crescente di giovani elettori. Vi sono poi i nazional-populisti di Zhirinovskij, rappresentanti la destra politica ed economica, con un seguito non trascurabile tra la piccola borghesia provinciale, i socialdemocratici di Russia Giusta e i piccoli gruppi neoliberali, sostenuti dall’Occidente ma con scarso seguito in patria. Questi partiti liberali ottengono infatti il 10-12% a Mosca e San Pietroburgo, metropoli caratterizzate dalla presenza di una consistente porzione di classe media occidentalizzante interna e percentuali da prefisso telefonico nella sterminata provincia industriale e rurale del Paese.

Che ruolo gioca la religione nel “putinismo”?

La spiritualità ortodossa ha, nel cosiddetto “putinismo”, un ruolo di mobilitazione delle masse funzionale al recupero, in chiave sovranista, dei valori tradizionali della Russia storica. Quella della spiritualità ortodossa è una funzione politica, non ha nulla a che vedere con una dinamica di confessionalizzazione della Federazione russa, che rimane uno Stato plurinazionale, plurilinguistico e multireligioso, dove ciascuna fede religiosa è riconosciuta come elemento costitutivo dello Stato-Nazione a vocazione geopolitica continentale. I valori tradizionali della Russia storica oggi fungono quale elemento di contraltare al dilagare della “società dei consumi e dello spettacolo” occidentale, costituiscono una risposta identitaria al tentativo di colonizzazione dell’immaginario pubblico russo verificatosi a seguito dell’imposizione del capitalismo americano quale religione idolatrica unica dopo il 1991. Non a caso, il ruolo della spiritualità religiosa (soprattutto ortodossa, ma non solo) quale cemento dell’unità politica nazionale della Russia in chiave di contrasto a determinati postulati culturali della globalizzazione americanocentrica, è contestato dai gruppuscoli libertari e radicaleggianti sponsorizzati e sostenuti dall’Occidente come attori politici della nominata “società dello spettacolo in Russia”, dalle Pussy Riot, anarco-capitaliste perfettamente interne, per loro stessa dichiarazione, alla cultura consumistica occidentale, fino ai “liberali 2.0” della “Rivoluzione dei Visoni” dell’inverno 2011-2012 ed è apprezzato dalle classi popolari, generalmente ostili alla globalizzazione e al liberalismo contemporaneo e per questo pesantemente invise alla media intellettualità euro-atlantica, che si ostina a considerare la spiritualità ortodossa, declinata in senso patriottico, come un retaggio “antimoderno” e “reazionario” da sostituire con l’idolatrico culto occidentale per il denaro, il successo individuale e il riconoscimento pubblico del singolo nell’ambito di una società interamente di spettacolo e in fase di crescente virtualizzazione.

Lei critica il globalismo occidentale e vede la Russia come “alternativa” a questa tendenza. Nell’esporre questa linea critica sia Eltsin, colpevole, secondo lei, di aver “venduto” la Russia all’ Occidente favorendo così la decadenza Russa. E critica pure Gorbaciov. Francamente non si possono mettere sullo stesso piano. Uno ha fatto crescere gli “oligarchi”, “oligarchi”, sia detto con chiarezza, presenti nella stessa gestione di potere di Putin, e l’altro, Gorbaciov, è un sincero democratico, un vero leader mondiale, che ha cercato di portare un rinnovamento etico politico in Russia. Per cui mi sembra non corretta, a mio modo di vedere, la sua posizione nei confronti di Gorbaciov…

La Russia è un Paese capitalistico, dopo il 1991 a regime capitalistico americano e solo negli ultimi anni, parzialmente e tra mille contraddizioni e nodi irrisolti, convertito a un modello capitalistico-nazionale e pertanto non rappresenta in toto un’alternativa al globalismo. Determinate correnti politiche e culturali interne al panorama politico russo, attualmente maggioritarie a livello di consensi pubblici, rappresentano invece tale alternativa. Personalmente, il mio auspicio è che queste correnti recitino, in futuro, un ruolo sempre più da protagonista nell’ambito del citato panorama politico russo. La mia disistima nei confronti di Gorbaciov come uomo politico e del suo sistema di potere è dovuta al fatto che la perestrojka, processo politico cui non credo estranei determinati settori liberaleggianti del Kgb, è stata pensata e attuata per realizzare un’integrazione dell’Unione Sovietica nella “comunità internazionale” in una prospettiva prettamente liberaldemocratica e, diciamolo pure, atlantista. L’apprendista stregone Gorbaciov ha tentato di integrare l’Urss in quello che l’allora élite “riformista” del Pcus definiva il “mondo civilizzato” mediante politiche di liberalizzazione strumentali a radicalizzare il processo di smantellamento dell’Unione Sovietica, un processo che il filosofo Costanzo Preve ha giustamente definito «controrivoluzione maestosa dei ceti medi sovietici» improvvidamente rivestitisi della forma mentis eurocentrica. Le stesse élite “riformiste” del Pcus hanno strumentalmente e interessatamente ravvisato nel liberalismo occidentale un mezzo politico attraverso cui portare avanti il proprio personale percorso di “redenzione democratica”. Non a caso, dopo il 1991, importanti esponenti “riformisti” del Pcus si sono prontamente riciclati come ceto politico “democratico” di complemento e come “imprenditori democratici” (leggasi, nuovi ricchi e oligarchi filoccidentali). Gorbaciov è stato altresì un attore politico propedeutico all’accelerazione del processo di ricolonizzazione, per tramite della Nato, dello spazio geopolitico ex sovietico. Non dubito che, in base a queste premesse, egli sia tuttora considerato, in Occidente, come un «leader democratico» fautore della “liberazione del proprio popolo” dai vincoli politici e ideologici del comunismo. Probabilmente, se Reagan avesse smantellato la Nato e favorito un processo di sovietizzazione degli Usa, oggi sarebbe onorato in Urss come un vero “padre del socialismo” occidentale…

Ovviamente non condivido questo giudizio su Gorbaciov come “apprendista stregone” . Ma torniamo a Putin. In questo periodo gode di grandi simpatie da parte di Partiti, e movimenti, di estrema destra europei e italiani (Lega Nord, ecc). Partiti e movimenti razzisti e xenofobi, che sono contro i diritti delle minoranze, omofobi e tanto altro di peggio. E Putin ricambia questa simpatia con il suo sostegno. Un sostegno che vuole far crescere l’euroscetticismo europeo. Non è una posizione cieca questa di Putin? Come può essere credibile, agli occhi dell’opinione pubblica europea, un leader che combatte i neonazisti ucraini e nello stesso tempo alimenta movimenti di tale natura?

Trovo perfettamente comprensibile che partiti e movimenti a vario titolo ostili al postmoderno e alla sociologia politica della open society dialoghino tra loro. Si è parlato addirittura di “Internazionale nera” dell’euroscetticismo per demonizzare tale esercizio dialogico tra forze politiche di varia estrazione e matrice culturale ma accomunate da una medesima vocazione a porre in essere meccanismi di comunicazione politica tesi al contrasto di significativi elementi culturali legittimanti l’odierno capitalismo speculativo. Il Front National, per esempio, negli anni Ottanta, più che un “partito fascista”, era un soggetto politico assai prossimo, ideologicamente, alla destra del Partito repubblicano Usa. Era un partito borghese, decisamente reazionario, filo-coloniale e atlantista. Dopo il 1992, il FN ha principiato a mutare i propri riferimenti concettuali, e oggi è un partito nazional-patriottico con un retaggio di destra, e un elettorato popolare. E’ un partito avversato dalla classe media cosmopolita parigina e sostenuto dagli strati borghesi e popolari provinciali, in non pochi casi ostili alla Ue. Lo stesso vale per il FIDESZ ungherese, un partito conservatore e di destra, di taglio nazional-borghese, ma non certamente un partito fascista. Nel momento in cui questi partiti “euroscettici”, che dispongono a oggi della maggioranza dell’elettorato operaio nei rispettivi Paesi, si pongono come elementi di contraddizione, in chiave sovranista, in un quadro politico europeo caratterizzato dal dominio dei partiti di riferimento delle classi medie cosmopolite di cui sopra e delle classi dirigenti oligarchiche transnazionali (popolari, socialdemocratici, liberaldemocratici e verdi europei), significa che hanno in qualche modo maturato una percezione politica corretta di quel che è la natura culturale del capitalismo contemporaneo. E il dialogo di queste forze politiche con Russia Unita si pone come conseguenza dell’elaborazione di siffatta analisi sociologica del capitalismo globalizzato. Un capitalismo che in primo luogo vede come suoi nemici la geopolitica, gli Stati e le nazioni resistenti. Tra l’altro, il dialogo di Russia Unita con questi partiti preserva il partito di governo russo da eventuali tentazioni “neodemocristiane” e costituisce una sorta di antidoto ad un ulteriore processo di imborghesimento di tale soggetto politico. Inoltre, questi partiti “euroscettici”, per quanto criticabili sotto vari aspetti (sono tutti partiti che propugnano, in economia, una qualche sorta di “liberismo temperato”), non possono essere in alcun modo assimilabili ai neofascisti ucraini. Il FN per esempio, chiede l’uscita della Francia dalla Nato, ponendosi in un’ottica di ostilità al principale fattore di colonizzazione geopolitica e militare dell’Europa, mentre i citati neofascisti e neonazisti ucraini sono favorevoli all’ingresso di Kiev nella Nato. Il FN, sotto la guida di Marine Le Pen, ha espulso dai suoi ranghi gli elementi riconducibili ad atteggiamenti estremisti e ha addirittura auspicato la vittoria elettorale di Syriza in Grecia, mentre la destra sciovinista ucraina inalbera la bandiera della Nato e ostenta apertamente una simbologia e pratiche politiche riconducibili al nazismo. Marine Le Pen ha capito molte cose relativamente alla natura del capitalismo odierno e per molti aspetti il suo partito svolge un ruolo di contrasto al dispiegarsi della filosofia destinalistica della fine capitalistica della Storia, i neonazisti ucraini sono più che altro degli accesi russofobici che caldeggiano l’ingresso di Kiev nella Nato in funzione anti-russa.

Veniamo al conflitto in Ucraina. L’espansionismo russo ha motivazioni geopolitiche di contrasto all’Occidente. Nella crisi ucraina l’Occidente ha commesso, certamente, degli errori. Ma c’è anche dell’altro. Ovvero la crisi economica che colpisce la Russia. Un sistema economico basato sulla potenza energetica che però, dagli ultimi dati, non garantisce il reale ammodernamento del Paese. Insomma non trova che l’aggressività nei confronti dell’Occidente sia una forma di “distrazione di massa” per coprire una crisi dell’operato del leader russo?

Nel 1989 la Nato aveva quale suo avamposto più orientale l’enclave di Berlino Ovest… Oggi i suoi missili sono a 400 km da Mosca. L’allargamento è frutto di una palese e dichiarata strategia atlantista di accerchiamento della Russia. Se oggi il Patto di Varsavia fosse arrivato in Messico, dopo aver inglobato tutta l’Europa occidentale, parleremmo di «espansionismo» statunitense? La Russia dal 1989 non solo non si espande, ma è sulla difensiva e vede sempre più in pericolo la propria sicurezza nazionale. Tutti gli alleati geopolitici rimasti a Mosca dopo il 1989 sono stati sottratti alla Russia dalla strategia occidentale delle guerre “umanitarie” e delle “rivoluzioni colorate”. Con la scusa che «là c’è un dittatore che l’Occidente ha il dovere di rimuovere per esportare la democrazia» sono stati illegalmente rovesciati i governi, considerati “filo-russi”, di Jugoslavia, Iraq, Libia, Georgia e Ucraina. Il tentativo di rovesciare il governo siriano è tuttora in corso e solo la crescente minaccia dell’Is (Stato islamico) lo ha momentaneamente rallentato. La Crimea ha deciso di ricongiungersi alla Russia a seguito di un referendum che ha visto il 97 per cento degli elettori recatisi alle urne (l’84 per cento del totale della popolazione) votare a favore della riunificazione. Ciò significa che hanno votato per la riunificazione anche gli ucraini residenti nella Penisola, e anche molti tatari di Crimea. La crisi economica che colpisce la Russia è il portato di una politica di sanzioni e di attacchi speculativi concertati tra Usa, Ue e Arabia Saudita. Qualcosa di simile era già stato realizzato nel 1985. L’economia russa va modernizzata e resa meno dipendente dal fattore energetico? Sicuramente, ma attraverso un percorso diametralmente opposto rispetto a quello portato avanti dai “democratici” eltsiniani a partire dal 1992… Una stagione di “riforme liberali” che i russi non rimpiangono affatto.

Ultima domanda : E’ possibile una coabitazione tra Occidente e Russia? Su che basi questo può avvenire?

Una coabitazione tra Europa e Russia è auspicabile, non solo possibile. Tale integrazione necessita il superamento dell’Unione europea come progetto transatlantico e il conseguente riorientamento geopolitico dell’Europa (che è cosa assai diversa rispetto all’attuale Ue) verso la Russia. Soltanto se riscopre la sua vocazione continentale, l’Europa potrà connotarsi come comunità di popoli indipendenti e nazioni sovrane, strategicamente alleati e culturalmente contigui alla Russia. Per il resto, la cultura politica e filosofica europea va sottoposta a un vero e proprio «bucato delle idee», una rivisitazione complessiva. Perché questo possa accadere è necessario, anzi, indispensabile, che l’Europa recuperi la propria sovranità geopolitica.

“La Parola Contraria” di Erri De Luca

Erri de Luca (fondazioneerrideluca.com)

Erri de Luca (fondazioneerrideluca.com)

Erri De Luca a processo, secondo l’accusa della procura di Torino, per “istigazione a delinquere” per le parole pronunciate in una intervista all’Huffington Post del primo settembre 2013: “La Tav va sabotata (…) Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti”.

Parole ruvide, quelle dello scrittore napoletano, sull’opera della Tav, che lui ritiene, in solidarietà con la stragrande maggioranza della popolazione della Val Susa, “un’opera nociva e inutile”. Nociva a causa dell’amianto e del materiale radioattivo presente in quelle montagne.

Le parole sul “sabotaggio”, così, hanno fatto scattare la denuncia, alla magistratura di Torino, dell’azienda italo-francese che gestisce i cantieri Ltf. Il processo, iniziato il 28 gennaio, riprenderà a marzo.

Un processo che sta facendo discutere l’opinione pubblica europea e che ha suscitato la solidarietà di molti (vedi iostoconerri.net )

In questo suo libretto, dal titolo fortemente evocativo, la “parola contraria”, pubblicato da Feltrinelli (pag. 62 € 4) e che finora ha venduto più di 100 mila copie, spiega le sue ragioni e mette in evidenza la posta in gioco con questo processo:

“Nell’aula del Tribunale di Torino (…) non sarà la discussione la libertà di parola. Quella ossequiosa è sempre libera e gradita. Sarà in discussione la libertà di parola contraria”. Ecco il punto: in quel tribunale c’è in gioco il diritto di esprimere “la parola contraria”. Ovvero la parola di dissenso forte, detta anche con ruvidità, una ruvidità tipica di un uomo mite come Erri de Luca. Abituato per “mestiere” alla parola ruvida e contraria (dalla Bibbia ai classici).

Un uomo, per la sua storia personale, abituato ad andare in “direzione ostinata e contraria”.

E a questo riguardo a proposito di parole “ruvide” e di significati delle parole, scrive De Luca: «Rivendico il diritto di adoperare il verbo sabotare come pare e piace alla lingua italiana. Il suo impiego non è ristretto al significato di danneggiamento materiale, come pretendono i pubblici ministeri di questo caso. Per esempio: uno sciopero, specialmente di tipo a gatto selvaggio, senza preavviso, sabota la produzione di un impianto, di un servizio. Un soldato che esegue male un ordine, lo sabota. Un ostruzionismo parlamentare contro un disegno di legge, lo sabota. Le negligenze, volontarie o no, sabotano. L’accusa contro di me sabota il mio diritto costituzionale di parola contraria. Il verbo sabotare ha vasta applicazione in senso figurato e coincide con il significato di ostacolare… Se avessi inteso il verbo sabotare in senso di danneggiamento materiale, dopo averlo detto sarei andato a farlo».

E per rendere ancor più forte il senso della “parola contraria” e della sua potenza di “istigazione”, non a compiere reati ovviamente, ma a prendere partito per la giustizia , parla delle sue letture giovanili che lo hanno “istigato” a diventare quello che è. “Perché la letteratura agisce sulle fibre nervose di chi si imbatte nel fortunoso incontro tra un libro e la propria vita. Sono appuntamenti che non si possono prenotare né raccomandare. A ogni lettore spetta la sorpresa di fronte alla mescola improvvisa tra i suoi giorni e le pagine di un libro”.

Così per Erri De Luca è stato l’incontro con George Orwell e il suo “Omaggio alla Catalogna”, che è stato “il mio primo picchetto piantato di una mia tenda accampata fuori da ogni partito e parlamento”, e l’ha istigato a diventare anarchico. Una anarchia antica quella di De Luca, che si è alimentata degli scritti di Borges e di Shalamov, così come l’opera di Pasolini che “mi istigava a formarmi un’opinione in disaccordo con lui”.
“Se – continua De Luca – dalla parola pubblica di uno scrittore seguono azioni, questo è un risultato ingovernabile e fuori dal suo controllo” E cita il caso di Goethe, “I dolori del giovane Werther, e dell’autore della Marsigliese: “È istigazione presente nella Marsigliese, inno nazionale francese, il più bello che conosco. Incita alla guerra civile, a prendere le armi contro il tiranno. Fa da colonna sonora sottintesa di ogni insurrezione.
Claude Joseph Rouget de Lisle, autore del testo, aspetta da un paio di secoli denuncia per istigazione”.

Quindi l’istigazione della “parola contraria” serve a istigare ad un sentimento di giustizia che già esiste, ma che non ha ancora trovato le parole per dirlo e dunque riconoscerlo. Perché la “ragione sociale” di uno scrittore è quella di farsi portavoce di chi è senza ascolto (“apri la tua parola al muto” dice la Bibbia).

Le parole non si processano, le parole si liberano!

Di questa resistenza civile ha bisogno la nostra democrazia, ancora di più in tempi cupi come i nostri.

LA CASSAFORTE DEGLI EVASORI.
La storia di Hervé Falciani in un libro di Chiarelettere

EPA/FACUNDO ARRIZABALAGA

EPA/FACUNDO ARRIZABALAGA

“In banca esisteva una struttura per aiutare i clienti a evadere le tasse e io volevo impadronirmi delle prove.” (hervé Falciani).

Falciani è l’ uomo che ha dato inizio a “swissleaks”. Suscitando un grande clamore a livello globale.

Ecco in PRIMA EDIZIONE MONDIALE la versione dell’UOMO PIÙ TEMUTO d’Europa, inseguito da servizi segreti, magistrati, poliziotti, una primula rossa versione 2.0, ex dipendente di una delle più grandi banche del mondo, la Hsbc, attraverso la quale transitano immensi patrimoni illegali

legati anche al narcotraffico e alle mafie.

 

Lui ha messo ko il segreto bancario svizzero. Non era mai successo che l’intero archivio di una banca fosse copiato e rivelato alla pubblica opinione. La famosa liSTa FalCiani ha fatto tremare i salotti buoni di tutta Europa e continua ad agitare il sonno di politici, banchieri, imprenditori, campioni sportivi e riciclatori di enormi somme di denaro (sarebbero più di diecimila i clienti italiani, per un totale di 8 miliardi di euro). Alcuni nomi sono già stati riportati dal “Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi”. Per Falciani il potere della Banca Hsbc “è legato ai suoi più importanti clienti e al controllo che può esercitare grazie a queste enormi fortune e all’intreccio di interessi di clienti, manager e politici”. Nel libro si fanno importantissimi.

 

LA SUA STORIA non l’aveva ancora raccontata: dai primi passi al casinò di Montecarlo alla banca di Ginevra, la fuga dalla Svizzera, le minacce di morte, il finto rapimento, il viaggio in libano, il carcere a Madrid, la collaborazione con i magistrati spagnoli, francesi e americani (mentre l’Italia sta alla finestra per timore che salti fuori qualche nome importante) che ha fruttato il recupero di centinaia di milioni di euro.

 

UN’AVVENTURA dopo l’altra che culmina con il progetto di una rete internazionale per aiutare le GOLE PROFONDE che denunciano casi di corruzione e di frode fiscale: lui le chiavi per far saltare il sistema le ha e lo dice, rischiando grosso.

 

La cassaforte degli evasori piatto fascettaIl libro, che in Italia uscirà il prossimo 23 febbraio, riporta, anche, un documento importante: l’accordo standar che L’Hsbc firmava con gli intermediari che presentavano nuovi clienti, cui veniva riconosciuto il 25% delle commissioni (!!!).

 

GLI AUTORI

 

Hervé Falciani è un ingegnere informatico italofrancese. Dal 2009 ha collaborato con le polizie di diversi paesi permettendo loro di accedere al sistema informatico della banca privata Hsbc di Ginevra, dove lavorava dal 2001. La cosiddetta lista Falciani (130.000 nomi) ha reso possibile il recupero di milioni di euro evasi da cittadini soprattutto francesi e spagnoli.

 

Angelo Mincuzzi è caporedattore e inviato del quotidiano “Il Sole 24 Ore” e autore di importanti inchieste su politica ed economia. Ha pubblicato con Giuseppe Oddo il libro OpuS dEi. il SEgRETO dEi SOldi. dEnTRO i miSTERi dEll’OmiCidiO ROVERaRO (Feltrinelli 2012).

 

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un breve estratto

 

Prefazione

L’uomo che vale miliardi

di Angelo Mincuzzi

Il fantasma di Bouvet

L’isola di Bouvet, a metà strada tra l’Africa e l’Antartide, è il posto più remoto del pianeta. Sulla sua superficie, quasi interamente coperta di ghiaccio, vivono leoni marini, foche, gabbiani e pinguini, oltre ad alcune specie di vegetali semplici come muschi e licheni, ma nessun essere umano. Com’è possibile allora che un suo abitante abbia aperto un conto e depositato dei soldi in una delle più grandi banche del mondo? È una delle tante domande che si pongono gli investigatori francesi quando, nel 2009, cominciano a esaminare migliaia di file della Hsbc Private Bank sequestrati nel computer di un dipendente dell’istituto. Da dove salta fuori il misterioso cittadino di Bouvet, se l’isola non ha neppure un residente? È un errore di chi ha trascritto quei dati o una procedura interna per proteggere l’identità di un importante evasore fiscale? E per quale motivo un istituto come la Hsbc avrebbe alterato i suoi registri inventando una falsità così grossolana?

Il «fantasma di Bouvet» è uno dei 127.000 clienti della Hsbc Private Bank di Ginevra finiti al centro di un caso che nel 2009 ha fatto tremare il mondo bancario svizzero. Il 20 gennaio di quell’anno, su richiesta della magistratura elvetica, la Procura di Nizza perquisisce una casa sulle colline di Mentone, al confine con l’Italia, e sequestra il computer del suo proprietario, Hervé Falciani, ingegnere informatico nato nel 1972 a Montecarlo ma con doppia cittadinanza, francese e italiana.

Quando cominciano ad analizzare i file archiviati nella memoria del computer, gli investigatori restano a bocca aperta: tra i clienti della Hsbc ci sono migliaia di società, trust e fondi d’investimento domiciliati nei paradisi fiscali. Gli agenti ritrovano anche le transazioni dei depositi bancari e tutti gli strumenti finanziari utilizzati nella gestione dei soldi, come opzioni, obbligazioni e azioni. Sullo schermo si materializzano inoltre documenti interni riservati, i nomi dei gestori che amministrano i patrimoni depositati, i rapporti scritti dopo ogni visita ai clienti e la rete completa degli intermediari, vale a dire i punti di contatto tra clienti e gestori, intersezioni strategiche nell’attività della banca. L’archivio segreto della Hsbc è, insomma, sotto i loro occhi.

• Hervé Falciani con Angelo Mincuzzi La cassaforte degli evasori. I Segreti dei Pardisi Fiscali (con documenti inediti) , Chiarelettere, Milano 2015, pagg.224, € 13,90

La beatificazione di Monsignor Oscar Romero. Una riflessione

Monsignor Oscar Romero (Tratta da www.acs-italia.org)

Grande eco ha avuto nell’opinione pubblica internazionale la firma che Papa Francesco  ha messo nel decreto che sancisce che l’arcivescovo Romero, a  capo della diocesi di San Salvador fu ucciso, il 24 marzo 1980, “in odio della fede” e quindi è un martire. E presto sarà beato.Il suo assassinio avvenne durante la celebrazione dell’Eucarestia. I mandanti furono le oligarchie e il potere politico di allora.

Subito, per il popolo povero del Salvador  e di tutta l’America Latina, fu San Romero d’America. A sigillare che il suo sacrificio fu un vero e proprio martirio per la lotta per la giustizia e la liberazione dei poveri.

La Chiesa, così,  riconosce un martire della Chiesa Latinoamericana, quella del Salvador. Facendone un “Padre della Chiesa” dell’America Latina. Tanti Vescovi di quell’immenso continente negli ultimi 60 anni, senza dimenticare i precursori come Bartolomeo De Las Casas che nel ‘500 si batterono per la dignità degli indios coderntro la dominazione spagnola e portoghese, hanno edificato, con la loro testimonianza, per alcuni di loro fino al sacrificio estremo, la Chiesa dell’ America Latina. Facendola così diventare una protagonista della Storia della Chiesa. Sono tanti i nomi di questi padri: dom Helder Camara, dom Manuel Larrain, dom Enrique Angelleli, dom Luis Proaño, dom Evaristo Arns, dom Aloisio Lorscheider, dom Samuel Ruiz. Solo per citarne alcuni. La svolta teologica e pastorale avviene con l’assemblea del CELAM a Medellin nel 1968. Quell’incontro avvenuto nell’immediato post-concilio prese a cuore la situazione di oppressione dei poveri, le sue parole chiave furono: l’opzione preferenziale per i poveri, giustizia e liberazione.

Una svolta per quella che non molto tempo prima era considerata una Chiesa “coloniale”. Certo il cammino del dopo Medellin ha conosciuto le resistenze della Curia romana e della normalizzazione. Ma il seme di Medellin ha continuato a dare i suoi frutti con la teologia della liberazione, le comunità di base e la lotta degli innumerevoli testimoni della fede.

In questo solco si colloca la vita e la testimonianza di Oscar Romero.

Il Salvador negli  anni ottanta era dominato da oligarchie terriere e da militari violenti. C’erano gli “squadroni della morte”, vere bande di criminali al soldo del potere, che facevano stragi di vittime innocenti tra i contadini e chiunque difendesse i diritti dei poveri. Tra questi c’era Mons. Romero. Come tutti sanno Oscar Romero era stato scelto alla guida della Diocesi di San Salvador perché ritenuto un “conservatore”. Invece il suo cuore di Pastore messo di fronte alla povertà del popolo ebbe una conversione radicale, si schierò dalla parte dei poveri e di tutti quelli che operano a favore dei poveri. La sua conversione avvenne con l’omicidio, ad opera degli oligarchi produttori di caffè, di Padre Rutilio Grande.

“A Monsignore caddero le bende dagli occhi e si convertì”, così scrive magnificamente il teologo gesuita Jon Sobrino (Sta in Concilium 5/2009). Da li è cominciata la proiezione continua verso la svolta pastorale e teologica della  Chiesa salvadoregna. La Chiesa dei Poveri, le comunità di base, le organizzazioni per i diritti umani (Un’altra vittima dell’oppressione è stata Marianella Garcia Villas, giovane donna avvocato a capo dell’organizzazione per i diritti umani, amica di Romero), i gesuiti dell’Università del Centro America (in particolare Ignacio Ellacuria). Denunciò senza sosta l’oppressione politica, economica del potere politico e militare nei confronti del popolo del Salvador: “inserita tra gli oppressi la chiesa doveva e poteva essere medicina per sanare i sottoprodotti negativi della lotta” (J.Sobrino). Una Chiesa lievito che fa fermentare lo spirito del Vangelo nella società. Ma anche una Chiesa di martiri: “Monsignor Romero ha propiziato una chiesa della “liberazione”, il che presuppone l’incarnazione storica nelle lotte per la giustizia, per i diritti fondamentali del popolo. Non si poteva essere chiesa dei poveri e abbandonarli alla loro sorte. Il fatto che si trattava di “lotta”, con la sua ambiguità non lo ha bloccato” (J.Sobrino). Le oligarchie gli gettarono addosso calunnie di ogni tipo. Ma lui prendendo sul serio Dio e la realtà come un profeta biblico denunciò il grande male che affliggeva il Salvador ovvero: “la ricchezza, la proprietà privata, come un assoluto intoccabile. E guai a chi tocca questo filo ad alta tensione! Si brucia”.

Oppure  in  un omelia affermava: “È inconcepibile che qualcuno si dica cristiano e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri. È uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché pensa “in favore” dei poveri. Questo non è cristianesimo! […] Molti, carissimi fratelli, credono che quando la Chiesa dice “in favore dei poveri”, stia diventando comunista, stia facendo politica, sia opportunista. Non è così, perché questa è stata la dottrina di sempre. […] A tutti diciamo: Prendiamo sul serio la causa dei poveri, come se fosse la nostra stessa causa, o ancor più, come in effetti poi è, la causa stessa di Gesù Cristo”

Nella sua ultima  omelia sapeva di dover morire quando, il giorno prima, in cattedrale, aveva affermato: «Io vorrei lanciare un appello in modo speciale agli uomini dell’esercito, e in concreto alle basi della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme. Fratelli, che fate parte del nostro stesso popolo, voi uccidete i vostri stessi fratelli contadini! Mentre di fronte a un ordine di uccidere dato a un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice: “Non uccidere”! Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno è tenuto a osservarla. È ormai tempo che riprendiate la vostra coscienza e obbediate alla vostra coscienza piuttosto che alla legge del peccato. La Chiesa, sostenitrice dei diritti di Dio, della dignità umana, della persona, non può restarsene silenziosa davanti a tanto abominio. In nome di Dio, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono ogni giorno più tumultuosi fino al cielo, vi supplico, vi prego, vi ordino: basta con la repressione!”.

 

La sua eredità si tramandò poi nella Chiesa Salvadoregna, tra gli altri, attraverso i gesuiti dell’Università Uca, anche loro martiri.

“È un fatto provvidenziale”, ha detto mons. Paglia, postulatore della causa di beatificazione, “che questa beatificazione giunga con il pontificato del primo papa latinoamericano”, che essa avvenga “in un momento di grande travaglio storico, rappresentando una fede che non resta nei principi, che sceglie di sporcarsi le mani coi più poveri, per far capire che Dio è dalla loro parte”.

 

Davvero, come affermava Ignacio Ellacuria (il gesuita martire dell’Uca), “con Monsignor Romero Dio è passato per il Salvador”.