A vent’anni dall’Ulivo: l’eredità politica di Romano Prodi. Intervista a Marco Damilano.

 

prodimissioneincompiuta

Nel ventennale dell’Ulivo Marco Damilano, cronista parlamentare dell’Espresso, ha pubblicato, per Laterza, una lungo libro-intervista al suo “padre fondatore”: Romano Prodi. Il titolo del volume è assai significativo: “Romano Prodi, Missione incompiuta.Intervista su politica e democrazia” (pagg. 180, € 12,00). In questa intervista ripercorriamo i punti fondamentali dell’eredità politica del Professore.

Damilano, in questo suo libro-intervista a Romano Prodi, che lei stesso definisce come una “lettera ad un  partito mai nato”, ci offre l’occasione, tra l’altro, di comprendere meglio la figura del Professore. Ne esce un quadro di un riformista “solido”.Cita, al riguardo, Edmondo Berselli: «Romano ama i macchinari, gli strumenti tecnici, l’automazione, le gru, i carrelli elevatori, la verniciatura, il montaggio, l’assemblaggio, lo stoccaggio, l’imballaggio. Nelle sue parole, e anche nei suoi gesti, la piastrella di Sassuolo diventava un oggetto raggiunto da un soffio di vita che animava l’argilla. Ai politici, abituati ai giochi di corridoio per strappare un assessorato, offriva la sensazione irresistibile del ritmo e del rumore della modernità». Cosa intendeva dire Berselli con queste parole?

«Ho utilizzato questo bellissimo ritratto di Berselli per descrivere Prodi, riformista atipico, “empirico brutale”, come si definisce lui stesso. Con un qualche vezzo Prodi dice di essere incapace di fare un discorso teorico, filosofico, ideologico. “È stato per me un fattore di forza, ma anche di debolezza. La sistemazione teorica generale in questo Paese fa premio”. In realtà Prodi è stato un economista che già nel 1968 parlava del capitalismo renano, il modello tedesco di economia sociale, mentre gli studiosi vagheggiavano un nuovo modello di sviluppo di impostazione marxista, salvo poi rifugiarsi nei decenni successivi nella difesa del pensiero unico mercatista. Prodi è stato il presidente del Consiglio dell’ingresso nell’euro e il presidente della Commissione europea dell’allargamento dell’Europa ai paesi dell’Est, oggi se ne può discutere ma all’epoca furono due grandi progetti strategici, portati avanti con grande pragmatismo».

Veniamo, più in profondità, alle “radici” cattoliche di Romano Prodi. Lui stesso si è autodefinito un “cattolico adulto”, affermazione che gli ha creato non pochi problemi, in particolare con il Cardinale Ruini. Eppure la definizione di “cattolico adulto” è molto conciliare. Dove stava la ragione strategica del conflitto con Ruini?

«Nella ricostruzione che ne fa Prodi la rottura – lui nega che ci sia stata ma storicamente è difficile definirla diversamente – ci fu al momento della sua decisione di candidarsi alla guida della coalizione di centrosinistra, nel 1995, il nascente Ulivo. Il cardinale-presidente della Cei in quel momento e successivamente riteneva che i cattolici dovessero piuttosto impegnarsi in un polo moderato, per strappare in prospettiva a Berlusconi l’egemonia del centrodestra. Eppure il ritratto che Prodi fa di Ruini è davvero non banale. Una figura appassionata di politica e con un tratto pessimista, convinto in fondo che senza potere politico, senza un legame forte con la politica, il cattolicesimo italiano sia destinato a indebolirsi, a diventare irrilevante, come è successo in Francia dopo la fine del partito democristiano. C’è un filo nell’intervista, l’incontro di Prodi con grandi personaggi che hanno in comune una visione pessimista della realtà. Un altro è il presidente di Mediobanca Enrico Cuccia: non crede nelle novità, esprime giudizi taglienti sugli homines novi, al fondo crede che senza il suo salotto buono il sistema sia destinato a crollare».

Certo è che tutto l’itinerario dell’esperienza di Prodi, dall’Università – passando per il grande impegno di Presidente dell’IRI – all’impegno di Premier italiano fino alla Presidenza della Commissione europea,  é stato  quello, che lui stesso ha definito, come la “politica del cacciavite”. Però questa politica era, ed è, animata da una profonda visione strategica e ideale. Qual’è questa visione ideale?

«Sul piano economico-sociale sicuramente l’impostazione keynesiana. La complessità del reale. Un ruolo del pubblico e dello Stato come leva dello sviluppo. Sul piano politico, l’intuizione di venti anni fa, l’Ulivo. Il più ambizioso tentativo di dare forza e soggettività politica al riformismo italiano. Un popolo e una cultura di governo. Il pragmatismo delle soluzioni e una visione complessiva delle riforme più urgenti. Il superamento degli steccati tra laici e cattolici, la difesa del bipolarismo che significa competizione tra proposte alternative di governo, qualcosa di più di uno schema politologico. Un valore in sé per un paese come l’Italia, condannato quasi sempre nella sua storia a dividersi tra un corpaccione moderato di governo e minoranze di testimonianza, più o meno nobili, ma incapaci di proporsi come alternative di governo, appagate dalla loro purezza di oppositori».

Nel libro viene fuori la figura di un grande europeista. E’ ancora attuale la visione sull’Europa di Romano Prodi?

«Nel libro c’è la scena della notte di capodanno del 2002, quando Prodi da presidente della Commissione europea comprò allo scoccare della mezzanotte a Vienna un mazzo di fiori per sua moglie Flavia con le prime banconote di euro. “Il mio ricordo più bello”, dice il Professore. Quella moneta sembrava il futuro, invece nel decennio successivo è diventata il simbolo della divisione. L’Europa di fine anni Novanta, la moneta unica e l’allargamento all’est, era un progetto politico, dalla guerra in Iraq in poi è stato sostituito dal ritorno degli egoismi nazionali: sotto forma di populismi, pronti ad approfittare della grande recessione per incolpare l’euro, o dei governi che difendono il loro territorio come quello di Angela Merkel. Ma quel progetto resta attuale, perché o si torna indietro o si va avanti. E se si va avanti con la costruzione dell’Europa politica non si può non ritornare alle intuizioni di quella stagione e dei suoi protagonisti: Kohl, Ciampi, Prodi…».

Il capolavoro politico di Prodi, come si sa, è stato l’Ulivo. Ovvero quell’incontro tra riformismi di diverse componenti (i riformismi storici dell’Italia) che ha consentito al centrosinistra di vincere su Berlusconi. Molte sono state le ragioni della sua fine. Ma se dovesse trovare una causa che inglobi le altre, quale potrebbe essere?

«L’Ulivo, ammette Prodi, “non ha fallito, è stato sconfitto”. Per resistenze esterne, aggiungo io, ma anche per contraddizioni interne, per gelosie di apparato, per la debolezza delle sue leadership, per l’incapacità di fondare una cultura politica condivisa che sorreggesse l’opera di governo. Prodi ammette di aver sbagliato a non fare una sua lista alle elezioni del 2006, dopo le trionfali primarie del 2005 che lo avevano eletto a candidato premier del centrosinistra, dice la verità, quel progetto era già stato logorato dal ritorno in campo dei partiti che non avevano mai accettato fino in fondo l’anomalia ulivista. L’altro fattore di debolezza è che non si è mai riusciti a dare un compimento istituzionale al bipolarismo: soltanto enunciato, con un paese in cui la cultura politica restava proporzionalista, profondamente ostile alla competizione in politica (e alla concorrenza in economia…)».

Rimaniamo sempre sull’Ulivo. Quell’esperienza aveva una carica ideale, davvero imparagonabile a quella dei giorni nostri, un “popolo” motivato. Insomma l’Ulivo scaldava i cuori e le menti degli italiani e in più proponeva un’idea di futuro. Oggi c’è il PD. Quanto Ulivo c’è nel PD? E ancora: Prodi esprime un giudizio duro su un ipotetico “Partito della Nazione”, perché?

«Il Partito della Nazione è l’opposto dell’Ulivo. L’Ulivo è il sogno di una democrazia della competizione tra schieramenti alternativi, il partito della Nazione ripropone il vizio della politica italiana, da Cavour in poi. Si governa dal centro, con un partito unico (o con un’area modello pentapartito) che raggruppa tutte le culture e tutti i personaggi che indistintamente si aggregano per restare al potere. Se così fosse, il Pd partito della Nazione si trasformerebbe in un motore immobile, un fattore di paralisi e non di modernizzazione».

Veniamo a Matteo Renzi. E’ figlio dell’Ulivo?

«Un amico ha ritrovato un foglio con i numeri telefonici dei comitati Italia che vogliamo di venti anni fa, i comitati prodiani e ulivisti: c’era anche Matteo Renzi, all’epoca ventenne. Di quell’esperienza c’è molto nell’intuizione originale di Renzi. Un leader competitivo che supera le culture del Novecento. Ma nell’Ulivo c’era molto altro: la partecipazione dei cittadini (il programma nel 1995 fu votato in assemblee popolari da migliaia di persone), le primarie, il dialogo tra culture diverse, il rispetto dei corpi intermedi… Tutte cose che non si vedono nel secondo Renzi, il Renzi onnipotente e egemone di Palazzo Chigi».

Ultima domanda: Lei chiude il libro affermando che l’eredità dell’Ulivo aspetta ancora di essere realizzata. Ovvero si tratta di una  missione che è rimasta incompiuta ma che è, su alcune cose, una missione in attesa di compimento?  Cosa intende dire?

«La costruzione di un sistema politico moderno è qualcosa di più della riforma del Senato e perfino della riforma elettorale. Richiede una cultura e una classe dirigente nuova. Da questo punto di vista tutto resta ancora da fare, da compiere».

CARTA DI MILANO (EXPO 2015 – TESTO INTEGRALE)

Pubblichiamo il documento base, che sarà arricchito da ulteriori apporti, di Expo 2015 che inizierà il 1 maggio a Milano

CARTA DI MILANO (EXPO 2015 – TESTO INTEGRALE)

“Salvaguardare il futuro del pianeta e il diritto delle generazioni future del mondo intero a vivere esistenze prospere e appaganti è la grande sfida per lo sviluppo del 21° secolo. Comprendere i legami fra sostenibilità ambientale ed equità è essenziale se vogliamo espandere le libertà umane per le generazioni attuali e future.”

Human Development Report 2011

Noi donne e uomini, cittadini di questo pianeta, sottoscriviamo questo documento, denominato Carta di Milano, per assumerci impegni precisi in relazione al diritto al cibo che riteniamo debba essere considerato un diritto umano fondamentale.

Consideriamo infatti una violazione della dignità umana il mancato accesso a cibo sano, sufficiente e nutriente, acqua pulita ed energia.

Riteniamo che solo la nostra azione collettiva in quanto cittadine e citta- dini, assieme alla società civile, alle imprese e alle istituzioni locali, nazio- nali e internazionali potrà consentire di vincere le grandi sfide connesse al cibo: combattere la denutrizione, la malnutrizione e lo spreco, pro-muovere un equo accesso alle risorse naturali, garantire una gestione sostenibile dei processi produttivi.

Sottoscrivendo questa Carta di Milano

affermiamo la responsabilità della generazione presente nel mettere in atto azioni, condotte e scelte che garantiscano la tutela del diritto al cibo anche per le generazioni future; ci impegniamo a sollecitare decisioni politiche che consentano il raggiungimento dell’obiettivo fondamentale di garantire un equo accesso al cibo per tutti.

Noi crediamo che

• tutti abbiano il diritto di accedere a una quantità sufficiente di cibo sicuro, sano e nutriente, che soddisfi le necessità alimentari personali lungo tutto l’arco della vita e permetta una vita attiva;

• il cibo abbia un forte valore sociale e culturale, e non debba mai essere usato come strumento di pressione politica ed economica;

• le risorse del pianeta vadano gestite in modo equo, razionale ed efficiente affinché non siano sfruttate in modo eccessivo e non avvantaggino alcuni a svantaggio di altri;

• l’accesso a fonti di energia pulita sia un diritto di tutti, delle generazioni presenti e future;

• gli investimenti nelle risorse naturali, a partire dal suolo, debbano essere regolati, per garantire e preservare alle popolazioni locali l’accesso a tali risorse e a un loro uso sostenibile;

• una corretta gestione delle risorse idriche, ovvero una gestione che tenga conto del rapporto tra acqua, cibo ed energia, sia fondamentale per garan- tire il diritto al cibo a tutti

• l’attività agricola sia fondamentale non solo per la produzione di beni ali- mentari ma anche per il suo contributo a disegnare il paesaggio, proteg- gere l’ambiente e il territorio e conservare la biodiversità.

Noi riteniamo inaccettabile che

• ci siano ingiustificabili diseguaglianze nelle possibilità, nelle capacità e nelle opportunità tra individui e popoli;

• non sia ancora universalmente riconosciuto il ruolo fondamentale delle donne, in particolare nella produzione agricola e nella nutrizione;

• circa 800 milioni di persone soffrano di fame cronica, più di due miliardi di persone siano malnutrite o comunque soffrano di carenze di vitamine e minerali; quasi due miliardi di persone siano in sovrappeso o soffrano di obesi- tà; 160 milioni di bambini soffrano di malnutrizione e crescita ritardata;

• ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo prodotto per il consumo umano siano sprecati o si perdano nella filiera alimentare;

• più di 5 milioni di ettari di foresta scompaiano ogni anno con un grave danno alla biodiversità, alle popolazioni locali e sul clima;

• le risorse del mare siano sfruttate in modo eccessivo: più del 30% del pesca- to soggetto al commercio è sfruttato oltre la sua capacità di rigenerazione;

• le risorse naturali, inclusa la terra, possano essere utilizzate in contrasto con i fabbisogni e le aspettative delle popolazioni locali;

sussista ancora la povertà energetica, ossia l’accesso mancato o limitato a servizi energetici e strumenti di cottura efficienti, non troppo costosi, non inquinanti e non dannosi per la salute.

Siamo consapevoli che

• una delle maggiori sfide dell’umanità è quella di nutrire una popolazione in costante crescita senza danneggiare l’ambiente, al fine di preservare le risorse anche per le generazioni future;

• il cibo svolge un ruolo importante nella definizione dell’identità di ciascuna persona ed è una delle componenti culturali che connota e dà valore a un territorio e ai suoi abitanti;

• gli agricoltori, gli allevatori e i pescatori operano in una posizione fonda- mentale per la nostra nutrizione; essi hanno uguali diritti e doveri in rela- zione al loro lavoro, sia come piccoli imprenditori sia come grandi imprese;

• siamo tutti responsabili della custodia della terra, della tutela del territorio e del suo valore ambientale;

• è possibile favorire migliori condizioni di accesso a cibo sano e sufficiente nei contesti a forte urbanizzazione, anche attraverso processi inclusivi e partecipativi che si avvalgano delle nuove tecnologie;

• una corretta educazione alimentare, a partire dall’infanzia, è fondamentale per uno stile di vita sano e una migliore qualità della vita;

• la conoscenza e la pratica dei modi di produrre, sia tradizionali sia avanza- ti, è essenziale per l’efficienza dei sistemi agricoli, dall’agricoltura familiare fino a quella industriale;

• il mare ha un valore fondamentale per gli equilibri del pianeta e richiede politiche sovranazionali: un ecosistema marino integro e sano ha una rilevanza cruciale per il benessere collettivo, anche perché la pesca fornisce lavoro a milioni di persone e il pesce, per molti, rappresenta l’unica fonte di nutrienti di alta qualità;

• per far fronte in modo sostenibile alle sfide alimentari future è indispensabile adottare un approccio sistemico attento ai problemi sociali, culturali, economici e ambientali e che coinvolga tutti gli attori sociali e istituzionali.

Poiché sappiamo di essere responsabili

di lasciare un mondo più sano, equo e sostenibile alle generazioni future in quanto cittadine e cittadini, noi ci impegniamo a

• avere cura e consapevolezza della natura del cibo di cui ci nutriamo, infor- mandoci riguardo ai suoi ingredienti, alla loro origine e al come e dove è prodotto, al fine di compiere scelte responsabili;

• consumare solo le quantità di cibo sufficienti al fabbisogno, assi- curandoci che il cibo sia consumato prima che deperisca, donato qualora in eccesso e conservato in modo tale che non si deteriori; evitare lo spreco di acqua in tutte le attività quotidiane, domestiche e produttive;

• adottare comportamenti responsabili e pratiche virtuose, come riciclare, rigenerare e riusare gli oggetti di consumo al fine di proteggere l’ambiente;

• promuovere l’educazione alimentare e ambientale in ambito familiare per una crescita consapevole delle nuove generazioni;

• scegliere consapevolmente gli alimenti, considerando l’impatto della loro produzione sull’ambiente;

• essere parte attiva nella costruzione di un mondo sostenibile, anche attraverso soluzioni innovative, frutto del nostro lavoro, della nostra creatività e ingegno.

In quanto membri della società civile, noi ci impegniamo a

• far sentire la nostra voce a tutti i livelli decisionali, al fine di determinare progetti per un futuro più equo e sostenibile;

• rappresentare le istanze della società civile nei dibattiti e nei processi di formazione delle politiche pubbliche;

• rafforzare e integrare la rete internazionale di progetti, azioni e iniziative che costituiscono un’importante risorsa collettiva;

• promuovere l’educazione alimentare e ambientale perché vi sia una con- sapevolezza collettiva della loro importanza;

• individuare e denunciare le principali criticità nelle varie legislazioni che disciplinano la donazione degli alimenti invenduti per poi impegnarci attivamente al fine di recuperare e ridistribuire le eccedenze;

• promuovere strumenti che difendano e sostengano il reddito di agricoltori, allevatori e pescatori, potenziando gli strumenti di organizzazione e cooperazione, anche fra piccoli produttori;

• valorizzare i piccoli produttori locali come protagonisti di una forma avanzata di sviluppo e promuovere le relazioni dirette tra produttori, consuma- tori e territori di origine.

In quanto imprese, noi ci impegniamo a

• applicare le normative e le convenzioni internazionali in materia ambientale e sociale e favorire forme di occupazione che contribuiscano alla realizzazione personale delle lavoratrici e dei lavoratori;

• investire nella ricerca promuovendo una maggiore condivisione dei risultati e sviluppandola nell’interesse della collettività, senza contrapposizione tra pubblico e privato;

• promuovere la diversificazione delle produzioni agricole e di allevamento al fine di preservare la biodiversità e il benessere degli animali;

• migliorare la produzione, la conservazione e la logistica, in modo da evi- tare (o eliminare) la contaminazione e da minimizzare lo spreco, anche dell’acqua, in tutte le fasi della filiera produttiva;

• produrre e commercializzare alimenti sani e sicuri, informando i consumatori su contenuti nutrizionali, impatti ambientali e implicazioni sociali del prodotto;

• promuovere adeguate tecniche di imballaggio che permettano di ridurre i rifiuti e facilitino lo smaltimento e il recupero dei materiali usati;

• promuovere innovazioni che informino i consumatori su tempi di consumo compatibili con la natura, qualità e modalità di conservazione degli alimenti;

• riconoscere il contributo positivo della cooperazione e degli accordi strutturali sulla filiera, specialmente quella alimentare, tra agricoltori, produttori e distributori, per una più efficace previsione della domanda;

• contribuire agli obiettivi dello sviluppo sostenibile sia attraverso l’innovazione dei processi, dei prodotti e dei servizi sia attraverso l’adozione e l’adempimento di codici di responsabilità sociale.

Quindi noi, donne e uomini, cittadini ‘di questo pianeta, sottoscrivendo questa Carta di Milano, chiediamo con forza a governi, istituzioni e organizzazioni internazionali di impegnarsi a:

• adottare misure normative per garantire e rendere effettivo il diritto al cibo e la sovranità alimentare;

• rafforzare le leggi in favore della tutela del suolo agricolo, per regolamenta- re gli investimenti sulle risorse naturali, tutelando le popolazioni locali;

• promuovere il tema della nutrizione nei forum internazionali tra governi, assicurando una effettiva e concreta attuazione degli impegni in ambito nazionale e un coordinamento anche nell’ambito delle organizzazioni internazionali specializzate;

• sviluppare un sistema di commercio internazionale aperto, basato su re- gole condivise e non discriminatorio capace di eliminare le distorsioni che limitano la disponibilità di cibo, creando le condizioni per una migliore sicurezza alimentare globale;

• considerare il cibo un patrimonio culturale e in quanto tale difenderlo da contraffazioni e frodi, proteggerlo da inganni e pratiche commerciali scorrette, valorizzarne origine e originalità con processi normativi trasparenti;

• formulare e implementare regole e norme giuridiche riguardanti il cibo e la sicurezza alimentare e ambientale che siano comprensibili e facilmente applicabili;

• sostenere e diffondere la cultura della sana alimentazione come strumento di salute globale;

• combattere ed eliminare il lavoro sia minorile sia irregolare nel settore agroalimentare;

• lavorare alla realizzazione di una struttura sovranazionale che raccolga le attività di informazione e analisi dei reati che interessano la filiera agro-alimentare e che rafforzi la cooperazione per il contrasto degli illeciti;

• declinare buone pratiche in politiche pubbliche e aiuti allo sviluppo che siano coerenti coi fabbisogni locali, non emergenziali e indirizzati allo sviluppo di sistemi alimentari sostenibili;

• promuovere patti globali riguardo le strategie alimentari urbane e rurali in relazione alla sostenibilità e all’accesso al cibo sano e nutriente, che coinvolgano sia le principali aree metropolitane del pianeta sia le campagne;

• aumentare le risorse destinate alla ricerca, al trasferimento dei suoi esiti, alla formazione e alla comunicazione;

• introdurre o rafforzare nelle scuole e nelle mense scolastiche i programmi di educazione alimentare, fisica e ambientale come strumenti di salute e prevenzione, valorizzando in particolare la conoscenza e lo scambio di culture alimentari diverse, a partire dai prodotti tipici, biologici e locali;

• sviluppare misure e politiche nei sistemi sanitari nazionali che promuovano diete sane e sostenibili e riducano il disequilibrio alimentare, con attenzione prioritaria alle persone con esigenze speciali di nutrizione, di corretta idratazione e di igiene, in particolare anziani, donne in gravidanza, neonati, bambini e malati;

• promuovere un eguale accesso al cibo, alla terra, al credito, alla formazione, all’energia e alle tecnologie, in particolare modo alle donne, ai piccoli produttori e ai gruppi sociali più svantaggiati;

• creare strumenti di sostegno in favore delle fasce più deboli della popolazione, anche attraverso il coordinamento tra gli attori che operano nel set- tore del recupero e della distribuzione gratuita delle eccedenze alimentari;

• includere il problema degli sprechi e delle perdite alimentari e idriche all’interno dell’agenda internazionale e nazionale, attraverso investimenti pubblici e privati a favore di sistemi produttivi più efficaci;

• valorizzare la biodiversità a livello sia locale sia globale, grazie anche a indicatori che ne definiscano non solo il valore biologico ma anche il valore economico;

• considerare il rapporto tra energia, acqua, aria e cibo in modo complessivo e dinamico, ponendo l’accento sulla loro fondamentale relazione, in modo da poter gestire queste risorse all’interno di una prospettiva strategica e di lungo periodo in grado di contrastare il cambiamento climatico.

Poiché crediamo che un mondo senza fame sia possibile e sia un fatto di dignità umana, nell’Anno Europeo per lo sviluppo e in occasione di Expo Milano 2015, noi ci impegniamo ad adottare i principi e le pratiche esposte in questa Carta di Milano, coerenti con la strategia che gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno elaborato per sradicare il problema della fame entro il 2030.

Sottoscrivendo questa Carta di Milano noi dichiariamo di portare la nostra adesione concreta e fattiva agli Obiettivi per uno Sviluppo Sostenibile promossi dalle Nazioni Unite.

Un futuro sostenibile e giusto è anche una nostra responsabilità.

Firme

 

 

 

 

 

 

 

 

Elenco dei Contributor e dei documenti di riferimento

1 Associazione Volontari per il Servizio Internazionale (AVSI), Università di Milano, MLFM, Rotary Aquaplus, Contributo per la Carta di Milano

2 BancaMondiale,HumanOpportunityIndex

3 Barilla Center for food and nutrition, Milan Protocol

4 Comitato scientifico delle Università di Milano per Expo – Comune di Mila- no, Contributo per la Carta di Milano

5 Commissione Europea (EU), Food Use for Social Innovation by Optimising Waste Prevention Strategies

6 Commissione Europea (EU), Impact assessment on measures addressing food waste to complete SWD (2014) 207 regarding the review of the EU wa- ste management targets

7 Comunicazione della Commissione Europea al Parlamento Europeo, al Consiglio Europeo, al Comitato Economico e sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, Tackling unfair trading practices in the business-to-business food suply chain

8 Conclusioni dell’Indagine conoscitiva della Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati sulla valorizzazione delle produzioni agroalimentari nazionali con riferimento all’Esposizione Universale di Milano 2015, 27 novembre 2014 Indagine conoscitiva 27/11/14 Commissione Agricoltura – Camera dei Deputati del Parla- mento Italiano

9 CNH Industrial, Contributo per la Carta di Milano

10 Consorzio AASTER, Il territorio e Expo

11 Feeding knowledge, Best Practices – Expo Milano 2015

12 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scien- za: Access to Energy and Economic Development, a cura di S. Pareglio, E. Chiappero-Martinetti, J. Bonan, N. von Jacobi e M. Fabbri

13 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scien- za: Collective Goods, a cura di S. Pareglio, E. Chiappero-Martinetti, J. Bonan, N. von Jacobi e M. Fabbri

14 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scien- za: Social Sustainability, a cura di S. Pareglio, E. Chiappero-Martinetti, J. Bonan, N. von Jacobi e M. Fabbri

15 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scien- za: The way to future food production, a cura di C. Sorlini, B. Dendena, S. Grassi

16 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scienza: Food security: what’s behind and what’s next, a cura di C. Sorlini, B. Dendena, S. Grassi

17 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scienza: Safe and nutritious food for all, a cura di C. Sorlini, B. Dendena, S. Grassi

18 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scienza: Food aesthetics and culture of the senses, a cura di U. Fabietti, F. Riva, M. Badii

19 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scienza: Food and belonging: bodies, territories and agricultures, a cura di U. Fabietti, F. Riva, M. Badii

20 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scienza: Food Heritage, a cura di U. Fabietti, F. Riva, M. Badii

21 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scienza: Technological and social innovation, a cura di S. Vicari, D. Diamantini, E. Colleoni, N. Borrelli

22 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scienza: New Urban Governance, a cura di S. Vicari, D. Diamantini, E. Colleoni, N. Borrelli

23 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Laboratorio Expo, Patto della Scienza: Urban equity, a cura di S. Vicari, D. Diamantini, E. Colleoni, N. Borrelli

24 Fondazione Triulza, Contributo per la Carta di Milano

25 Gruppo San Pellegrino, Paper per Expo delle Idee

26 Inalca, La clessidra ambientale: una proposta per la Carta di Milano

27 International Food Policy Research Institute (IFPRI), Contributo per la Carta di Milano

28 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report tavolo tematico 1 – Il mondo che ha fame: vecchi e nuovi poveri e il diritto al cibo

29 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 2 – Fino all’ultima goccia d’acqua

30 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 3 – La nostra madre terra

31 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 4 – Sviluppo sostenibile: modelli a confronto

32 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 5 – Una casa per la società civile: Cascina Triulza

33 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 6 – Ricettività e turismo: obiettivo 20 milioni di visitatori

34 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 7 – Un’occasione unica per lavoro e imprese

35 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 8 – Quota 50 miliardi: l’export dell’agroalimentare italiano

36 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 9 – La lotta alla contraffazione alimentare

37 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 10 – Agromafie

38 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 11 – La sfida alle indicazioni geografiche

39 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 12 – La sfida di Expo 2015: la cultura come seme per l’età della conoscenza

40 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 13 – Patrimonio UNESCO: dalla dieta mediterranea agli stili di vita

41 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 14 – Educazione Alimentare: un investimento per il futuro

42 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 15 – Vietato sprecare

43 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 16 – Aggiungi un posto a tavola: la ristorazione di domani

44 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 17 – WE – Women for Expo

45 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 18 – Il cibo dello spirito

46 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 19 – Cibo sport e benessere

47 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 20 – Un incrocio di culture: le comunità straniere ad Expo Milano 2015

48 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 21 – Il Padiglione Italia: il Paese in vetrina

49 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 22 – i Paesi partecipanti di Expo 2015: un’agenda internazionale

50 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 23 – I cluster: un modello innovativo

51 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 24 – La cooperazione internazionale allo sviluppo

52 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 25 – La biodiversità salverà il mondo

53 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 26 – Mondo obeso e malnutrito: salute, malattie e disturbi alimentari

54 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 27- Sai cosa mangi? La sicurezza alimentare

55 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 28 – Mare Magnum

56 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 29 – La ricerca in campo agroalimentare

57 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 30 – AgriLAB: Innovazione in agricoltura

58 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 31 – La logistica del cibo

59 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 32 – Milano la città che ospita Expo

60 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 33 – Regione Lombardia, terra dell’Expo

61 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 34 – I territori in Expo

62 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 35 – La città nella città

63 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 36 – Expo: una smart city che guarda al futuro

64 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 37 – Per una Esposizione Universale sostenibile

65 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 38 – Open Expo

66 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 39 – Legalità: un valore non negoziabile, una best practice per il futuro

67 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 40 – Post Expo: che fare?

68 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 41 – 1 novembre 2015: l’eredità politica di Expo 2015

69 Le idee di Expo verso la Carta di Milano, Report Tavolo tematico 42 – Guerra alla povertà

70 Mediterranean Nutrition Group, La nutrizione nei primi 1000 giorni

71 Milan Center for Food Law and Policy

72 Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale – Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo (MAECI-DGCS), Contributo per la Carta di Milano

73 Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Nuove linee guida sulla cooperazione internazionale

74 Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Carta di Livorno

75 Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Carta di Bologna contro gli sprechi alimentari

76 Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Piano Nazionale di Prevenzione dello Spreco Alimentare (PINPAS)

77 Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (MiPAAF), Contributo per la Carta di Milano

78 Ministero Federale Tedesco per la Nutrizione e l’Agricoltura, Review of the Global Forum for Food and Agriculture (GFFA) 2015

79 Mozione a prima firma on. Fiorio, Atto 1/00052 del 27 maggio 2013 di- scusso e approvato il 3 giugno 2014 (in nota: Parlamento Italiano, Atto 1/00052 3/06/2014.)

80 Mozione a prima firma sen. Formigoni, Atto 1/00269 del 10 giugno 2014 e altre abbinate. Discusse e approvate il 18 giugno 2014. (in nota: Parla- mento Italiano, Atto 1/00269 3/06/2014.)

81 Mozione a prima firma sen. Gaetti, Atto 1/00275 del 17 giugno 2014 discusso e approvato il 18 giugno 2014 (in nota:Parlamento Italiano, Atto 1/00275 3/06/2014.)

82 Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), Millenium Development Goals, 2000

83 Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), UN Water: The post 2015 Water Thematic Consultation Report

84 Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), Zero Hunger Challenge

85 Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura(FAO), Contributo per la Carta di Milano

86 Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) e Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Dichiarazione di Roma sulla nutrizione, 2014

87 Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura(FAO), Declaration of the World Summit on Food Security, 2009

88 Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura(FAO), How to feed the World 2050

89 Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura(FAO), State of World Fisheries and Aquaculture 2014

90 Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura(FAO), Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo, Programma Alimentare Mondiale, The State of Food Insecurity in the World 2014

91 Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, Human Development Index

92 Sindacati confederali Milano (CIGL, CISL, UIL), Contributo per la Carta di Milano

93 Steering Committee del Comitato Scientifico dell’Unione Europea per Expo, Global food and nutrition security and the role of research in the EU: a discussion paper

94 Urban Food Policy Pact, coordinato dal Comune di Milano

95 Waste Watcher Knowledge for Expo, Rapporto 2014

96 Women for Expo, Contributo per la Carta di Milano

ABOLIRE IL CARCERE?

 

Abolire il carcere_ManconiUna ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini in un libro di “chiarelettere”

Non ci appare stupefacente che in tanti secoli l’umanità che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita a immaginare nulla di diverso da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?” Dalla postfazione di Gustavo Zagrebelsky

 IL LIBRO  

Non è una provocazione. Certo in tempi come questi sicuramente può sembrarlo. Eppure nel 1978 il parlamento italiano votò la legge per l’abolizione dei manicomi dopo anni di denunce della loro disumanità. Ora dobbiamo abolire le carceri, che, come dimostra questo libro, appena uscito in libreria, servono solo a riprodurre crimini e criminali e tradiscono i principi fondamentali della nostra Costituzione. Tutti i paesi europei più avanzati stanno drasticamente riducendo l’area del carcere (solo il 24 per cento dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra, in Italia l’82 per cento). Nel nostro paese chi ruba in un supermercato si trova detenuto accanto a chi ha commesso crimini efferati. Il carcere è per tutti, in teoria. Ma non serve a nessuno, in pratica. I numeri parlano chiaro: la percentuale di recidiva è altissima. E dunque? La verità è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani non ha idea di che cosa sia una prigione. Per questo la invoca, ma per gli altri. La detenzione in strutture in genere fatiscenti e sovraffollate deve essere quindi abolita e sostituita da misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori di reati più gravi (solo una piccola quota dei detenuti) quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena, oggi sistematicamente disatteso. Il libro indica Dieci proposte, già oggi attuabili, per provare a diventare un paese civile e lasciarci alle spalle decenni di illegalità, violenze e morti.

 GLI AUTORI

Luigi Manconi insegna Sociologia dei fenomeni politici presso l’università Iulm di Milano. È parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Nel 2001 ha fondato A Buon Diritto. Associazione per le libertà.

Stefano Anastasia è ricercatore di Filosofia e sociologia del diritto presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’università di Perugia, dove coordina la Clinica legale penitenziaria. È stato presidente dell’associazione Antigone.

Valentina Calderone è direttrice di A Buon Diritto. Associazione per le libertà e autrice di saggi sul tema della detenzione.

Federica Resta è avvocato, dottore di ricerca in Diritto penale e funzionario del Garante per la protezione dei dati personali.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto della Postfazione di Gustavo Zagrebelsky _ Carcere e Costituzione

Questo bel libro di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta costituisce una importante occasione per affrontare un tema generalmente ignorato. Partiamo da un primo assunto. Nel suo nudo concetto, il carcere e amputazione dalla vita sociale tramite restrizione della libertà e soggezione a una disciplina speciale in appositi luoghi a ciò predisposti. Poiché da una tale segregazione nascono sofferenze, si dice che il carcere e una pena e che la pena e una sanzione giustificata dalla violazione della legge. Questo e il nudo concetto che corrisponde a una concretissima realtà che percepiamo con turbamento ogni volta che mettiamo piede in uno stabilimento penitenziario o anche, soltanto, passiamo a fianco di muraglioni, grate e bocche di lupo (dove ancora esistono) e pensiamo al mondo che esiste al di la, segregato da quello in cui ci muoviamo. Ma il carcere come tale – prima ancora del regime carcerario, cioè delle condizioni della detenzione più o meno avvilenti – non chiama in causa solo sentimenti e risentimenti, ma solleva anche fondamentali interrogativi di natura costituzionale. Non è facile parlare del carcere, del carcere come tale, senza avvertire tutta la contraddizione ch’esso introduce nel più venerato tra i principi dell’attuale nostro vivere civile. Si dirà: pero, i detenuti se lo sono meritato. Cosi dice il senso comune: prima di dedicarci a pensare ai delinquenti e alla loro condizione, c’e ben altro di cui dobbiamo preoccuparci. Ci sono i problemi della gente per bene, quali noi amiamo considerarci. E difficile far comprendere a chi ragiona cosi che la questione carceraria riguarda si i detenuti, ma solo in seconda istanza, come conseguenza della rappresentazione che la società dei liberi e rispettati cittadini da di se stessa,quali noi ci compiacciamo di essere. Insomma: se le carceri sono un problema, lo sono innanzitutto per noi, che ci interroghiamo sui caratteri della società in cui vogliamo vivere e sui principi ai quali diciamo di essere affezionati. Che vi sia un rapporto di derivazione diretta tra struttura sociale e sistema delle pene e una verità che, dal celebre studio di Michel Foucault,1 non può essere messa in dubbio. Parlando del carcere non parliamo solo dei carcerati: parliamo in primo luogo di noi stessi. Non ce ne si rende conto facilmente. Di solito si ragiona come se ci fossimo noi e loro, distanti gli uni dagli altri. E facile cedere all’illusione e al preconcetto.

Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta ABOLIRE IL CARCERE. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (Prefazione di Gustavo Zagrebelsky), Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 128. € 12,00

 

 

 

 

 

COMPLICI. CASO MORO: IL PATTO SEGRETO TRA DC E BR. UN LIBRO DI CHIARELETTERE

Dopo quarant’anni, quattro processi, continui depistaggi, un’inchiesta con nuovi fatti e testimonianze. La verità non è mai stata così vicina.

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IL LIBRO
CI HANNO MENTITO. Sul caso Moro ci hanno raccontato una VERITÀ AGGIUSTATA.

Nella storia dell’Italia repubblicana non si è mai verificato un delitto politico che abbia presentato tanti RISVOLTI OSCURI come il delitto Moro. Un delitto politico che è ancora cronaca viva: dopo cinque indagini giudiziarie e quattro processi, è stato istituita un’apposita Commissione d’inchiesta parlamentare per indagare ancora. Perché quello che sappiamo oggi è il frutto della TRATTATIVA tra Democrazia cristiana e i vertici delle Brigate rosse. Ed è solo una minima parte di QUANTO È DAVVERO ACCADUTO.
Chi c’era in via Fani la mattina del sequestro? Chi sparò? Dov’erano la o le prigioni di Moro? Chi era il suo QUARTO CARCERIERE? Che fine hanno fatto le carte scritte dal presidente democristiano durante i cinquantacinque giorni e le REGISTRAZIONI dei suoi interrogatori? E, soprattutto, chi ha sottratto la LUNGA LISTA DEGLI APPARTENENTI A GLADIO stilata da Moro durante la prigionia?
L’inchiesta di Stefania Limiti e Sandro Provvisionato ricostruisce tasselli e scava dentro i fatti. Quelli acclarati e quelli nascosti. Li enumera e li analizza. E li inserisce ciascuno nel loro esatto contesto insieme ai protagonisti di quella stagione: il presidente Giulio Andreotti e il ministro Francesco Cossiga, suor Teresilla e don Mennini, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa e il suo braccio destro, il generale Nicolò Bozzo. E brigatisti, mafiosi, uomini della Xa Mas, del Sismi e di Gladio, poliziotti, carabinieri e massoni. Una ricostruzione che ci porta davanti a una verità destabilizzante. 

 

GLI AUTORI
Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con varie testate su temi di attualità politica. Con Chiarelettere ha pubblicato L’ANELLO DELLA REPUBBLICA (2009) e DOPPIO LIVELLO (2013).

Sandro Provvisionato, scrittore e giornalista professionista. Docente di criminologia e problemi della sicurezza presso diversi master, è direttore del sito www.misteriditalia.it. Con Chiarelettere, insieme a Ferdinando Imposimato, ha pubblicato DOVEVA MORIRE (2008) e ATTENTATO AL PAPA (2011).

 

PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE PUBBLICHIAMO UN ESTRATTO DEL LIBRO

Questo libro
Quella che state per leggere è l’anatomia di un delitto politico avvenuto oltre trentasette anni fa. Abbiamo analizzato minuziosamente, con gli strumenti dell’inchiesta giornalistica, un avvenimento storico che, nonostante il tempo passato, è ancora cronaca viva, al punto da meritare, dopo cinque indagini giudiziarie e quattro processi, l’istituzione di una nuova  Commissione d’inchiesta parlamentare, la seconda, senza considerare le tante sedute dedicate al tema dalle Commissioni stragi che si sono succedute nel tempo. Una cronaca così viva che perfino oggi, come potrete leggere, emergono novità e non di poco conto. A cominciare da quelle che riguardano il luogo dove il 16 marzo 1978 tutto è cominciato: via Fani, il teatro della strage che tolse la vita a cinque servitori dello Stato: loro difendevano quella di un uomo politico che da quel momento, per cinquantacinque giorni, finirà nelle mani di una banda terroristica prima di essere assassinato.
È per questo che il nostro racconto comincia proprio in via Fani dove – ora è possibile dirlo senza più ombra di dubbio – l’agguato delle Brigate rosse non andò come hanno stabilito le tante sentenze giudiziarie e neppure come ha raccontato l’unica «voce di dentro» dell’organizzazione armata presente sul luogo della strage: Valerio Morucci. Infatti quella mattina il commando non era composto solo da dieci brigatisti (otto uomini e due donne), ma ben supportato da elementi estranei che parteciparono in maniera attiva. In questo libro ricostruiamo pazientemente, e con l’aiuto indispensabile delle tante perizie tecnico-scientifiche che si sono susseguite negli anni, la dinamica di un’operazione terroristica che fino a oggi presentava troppi buchi illogici, troppe anomalie, troppe discrasie.  A cominciare dagli effettivi brigatisti presenti sul posto, per finire a quelle oscure presenze in veste di osservatori, ma anche di facilitatori, di persone che con l’eversione armata non c’entravano nulla, semmai puntavano a una diversa azione eversiva, per così dire «statale». Con stupore abbiamo dovuto constare che, quando c’è odore di servizi segreti, magistrati anche molto preparati e audaci hanno come un mancamento e diventano improvvisamente poco curiosi.
Sappiamo già che solo questa nuova ricostruzione dell’assalto del 16 marzo – e solo per aver fatto il nostro mestiere di giornalisti – basterà a farci piovere addosso le solite, stucchevoli critiche di «dietrologia» e «complottismo». Non ce ne rammarichiamo. Se l’esercizio di buon giornalismo comporta anche il fatto di non accontentarsi mai delle verità ufficiali o delle mezze verità, e quindi di studiare non solo la scena ma anche il retroscena dei fatti, il buon giornalista deve per forza essere un po’ «dietrologo». Altrimenti è solo un megafono altrui.
In questo libro abbiamo passato al microscopio ogni singolo istante di quei tormentati cinquantacinque giorni con un unico scopo: dare senso logico a ciò che senso ne aveva ben poco. Abbiamo voluto dare dimensione a tutti quei fatti, grandi o piccoli, sui quali ancora non esiste un’accettabile convergenza tra racconti, indizi, prove, dichiarazioni, testimonianze.
Dall’analisi minuziosa della dinamica della sparatoria e del rapimento dell’ostaggio alle confuse vie di fuga del commando; dalle tante bugie sulla «prigione del popolo» in cui Aldo Moro venne detenuto all’opaca e nebulosa gestione politica del più importante sequestro di persona mai compiuto in Italia; dai silenzi calcolati dei brigatisti alle campagne d’opinione di una parte consistente della Democrazia cristiana, gli uni e le altre finalizzati all’ottenimento e alla concessione del «perdono». Una soluzione tombale sotto cui seppellire la verità dei fatti, scomoda per le Brigate rosse così come per il potere, non solo quello democristiano; per finire con l’infinita e scandalosa gestione delle carte recuperate a rate in via Monte Nevoso – e che contenevano il vero pensiero del prigioniero – fino all’individuazione, quanto mai tardiva, del misterioso «quarto uomo» a guardia della prigione. Tutti aspetti che, oltre ogni ragionevole dubbio, non hanno mai quadrato, innegabilmente frutto di occultamenti, silenzi, omertà. Quali verità dovevano essere coperte?
Prendiamo un singolo fotogramma: 16 marzo 1978, poco dopo le 9 di mattina, in via Licinio Calvo. Lì i brigatisti riportano le auto usate nell’agguato: perché sfidare la sorte e rischiare di tornare così vicini al luogo del delitto? Si burlano delle forze dell’ordine rischiando tutto? Non c’è logica. A meno che, attorno a quella via, ci sia una loro base. Aldo Moro trascorre lì i primi momenti dopo l’inferno di via Fani? Scrivendo a sua moglie Eleonora, solo il 20 aprile le dice: «Chiama Antonio Mennini, viceparroco di Santa Lucia, e fallo venire a casa». La parrocchia è vicina all’abitazione della famiglia Moro e vicina a via Fani: Moro stava dando una precisa indicazione?
Si era reso conto del breve tragitto fatto per giungere al (primo) covo? È uno scenario verosimile, che spiega gli ingarbugliati e contraddittori racconti dei brigatisti sulla loro fuga dalla scena della strage.
Ricomponendo i mille pezzi di quel maledetto puzzle che va sotto il nome di «caso Moro», abbiamo cercato di dimostrare che almeno una parte dei tanti misteri sono racchiusi nei contatti e nelle trattative tra una parte della Democrazia cristiana e i vertici delle Brigate rosse; trattative che, al di fuori di quelle conosciute, cominciano addirittura quando il sequestro Moro è ancora in corso. Nella complicità tra i due principali attori visibili di questa tragedia tutta italiana – il terzo era Moro che cercò disperatamente una via d’uscita – si racchiude la massa enorme di contraddizioni, di mezze bugie e di mezze verità che hanno reso la vicenda un’inestricabile matassa, una nube tossica che ha occultato e protetto i personaggi invisibili.
Questo libro non affronta le trattative avviate (o fintamente avviate) per salvare la vita di Moro, un capitolo senz’altro rilevante del quale molto si è appreso nel corso degli anni. Anche se ancora non abbiamo una ragionevole spiegazione del perché fallì la possibilità di un accordo. Continua a essere oscuro il motivo per cui Paolo VI non riuscì nel suo pressante tentativo di restituire Moro al paese e alla sua famiglia. Eppure, come dimostra l’audizione di don Mennini in Commissione Moro del 9 marzo 2015, c’era stato il tentativo di aprire un «canale di ritorno», utile a una comunicazione diretta tra le Br e la famiglia Moro.
E forse anche qualcosa in più. Dice il sacerdote amico di Moro: «Il 20 aprile 1978, vestito da prete, andai a ritirare un messaggio delle Br nascosto nei pressi di un bar. Lì vidi un uomo con i baffi che in seguito riconobbi dalle foto segnaletiche: era Valerio Morucci. Solo che in tutte le foto segnaletiche pubblicate, dopo la fine del sequestro, Morucci è senza baffi». Cosa ci vuol dire don Mennini? Che ci fu un contatto diretto tra i due?
Ci siamo chiesti dove fossero le crepe della ricostruzione ufficiale. Dopo aver analizzato il piano militare dell’operazione, ci siamo calati nelle interminabili giornate del sequestro e poi, a dramma concluso, nel lungo dialogo a distanza, pubblico e clandestino al tempo stesso, tra i brigatisti sconfitti e gli uomini della Dc. Abbiamo così seguito il filo della loro complicità che ha reso il «caso Moro» una lunga trattativa, pressoché infinita, tra la Democrazia cristiana e le Brigate rosse, che forse si è conclusa con la scarcerazione degli uomini e delle donne più in vista dell’organizzazione.
La Dc non poteva permettere che venisse alla luce il suo sbandamento e la sua responsabilità per la perdita della vita dell’ostaggio Aldo Moro. Si pensi alle tante ambiguità sugli effettivi sforzi compiuti nella localizzazione della «prigione del popolo», alla scarsa capacità che ebbero i suoi massimi dirigenti di respingere le intrusioni esterne: da quel folto consesso piduista insediatosi al Viminale durante i giorni del sequestro, fino alle manovre degli esperti americani per orientare i rapitori all’eliminazione dell’ostaggio.
Le Brigate rosse, dal canto loro, hanno sempre voluto rivendicare la loro purezza rivoluzionaria. E alcuni superstiti di quella stagione, certamente in buona fede e inconsapevoli dei tanti compromessi che i loro capi hanno intessuto sulle loro teste, ancora oggi tentano questa disperata impresa. Anche di fronte alle evidenze più contrarie. Anche di fronte agli errori più macroscopici. Ma non solo questo importava ai grandi capi di una rivoluzione impossibile, soffocata nelle stanze del potere. Importavano anche gli sconti di pena, una legittima aspirazione che doveva però accompagnarsi al senso di responsabilità di dire come erano andate veramente le cose, momento per momento, senza inganni. Oppure dobbiamo credere che entrambe, la Dc e le Brigate rosse, divennero allora ostaggio di un potere intrigante e intelligente, capace di insinuarsi nelle pieghe del Partito di Moro e tra gli uomini della rivoluzione, ottenendo da entrambi una resa. E la morte di Moro.
E allora ecco che continuare a discutere di quel tempo e di quegli anni – che ci appaiono così diversi e lontani – è importante per capire non solo uno dei volti nascosti della nostra Repubblica, ma anche per riflettere sul paese in cui viviamo. Per farlo è necessario tornare indietro e andare frugare negli angoli bui della storia perché la verità, e purtroppo non solo nel «caso Moro», non è divenuta coscienza di tutti, patrimonio dell’opinione pubblica, storia condivisa: qualcuno voleva tenerla nascosta in qualche cassetto segreto.
Gli interrogativi che ancora rimangono troveranno in futuro nuove risposte. Qualcuno sostiene che un giorno sarà aperto un cassetto degli archivi di Washington, in forza del famoso Freedom of Information Act, e salterà fuori qualche altro frammento di verità. Anche perché molti tra coloro che si sono occupati della vicenda sono ormai convinti che la verità sia Oltreoceano. Gli stessi ritengono che Giulio Andreotti e Francesco Cossiga siano stati tra i maggiori depositari dei misteri del «caso Moro». Non si sa con chi abbiano stretto il patto ferreo del silenzio, ma lo hanno fatto. Certamente hanno condiviso con altri notizie importanti, e non è detto che i loro confidenti siano stati soltanto loro amici di partito. Magari nella ristretta cerchia ci sono anche uno o più avversari politici: ma il patto ha retto lo stesso.
Se avessimo saputo subito cosa fosse davvero successo prima, durante e dopo quei cinquantacinque giorni, la coscienza collettiva del paese avrebbe potuto fare un salto in avanti e magari contrastare le forme più deteriori di una democrazia in affanno. Ma non è mai troppo tardi per conoscere la verità e per questo è importante il contributo di analisi dato in questi anni da studiosi, giornalisti, ricercatori. Continuare a discutere attorno all’azione brigatista più clamorosa e scioccante dell’Italia repubblicana è molto importante perché non possiamo, non dobbiamo, accettare la versione «ufficiale» e di comodo dei fatti. Sbagliano, o forse sono in malafede, coloro che ritengono che sia ora di smettere di cercare, che sarebbe più comodo consegnare alla storia tutto il dossier Moro così com’è. Tra essi ci sono coloro che vogliono che nulla si muova, che tutto resti immobile: questo non solo non è accettabile, ma non è neppure possibile.

Stefania Limiti e Sandro Provvisionato  COMPLICI. CASO MORO. IL PATTO SEGRETO TRA DC E BR, Ed Chiarelettere, Milano 2015, Pagg. 320

La Grecia verso il default?
Intervista a Vladimiro Giacché

 

Continua senza sosta la corsa del governo greco per evitare il default del Paese. Ci riuscirà? Ne parliamo, in questa intervista, con Vladimiro Giacché. Giacché è un economista laureato e perfezionato alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Professione: Dirigente nel settore finanziario. E’ presidente del Consiglio di Amministrazione del Centro Europa Ricerche di Roma.

Negli ultimi anni ha pubblicato La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (DeriveApprodi, 2011), Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato (Aliberti 2012) e ha curato e tradotto Karl Marx, Il capitalismo e la crisi (DeriveApprodi 2009, rist. 2010). L’ultima sua fatica è : Anschluss. L ‘annessione (imprimatur Editore).È editorialista de Il Fatto Quotidiano. Suoi saggi sono usciti su numerose riviste italiane e straniere.

Giacché, le parole del ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, tornano a spaventare l’eurozona. Per il ministro, infatti, la Grecia ha in cassa circa due miliardi di euro. Troppo pochi per pagare i rimborsi del FMI. Insomma siamo agli sgoccioli. Default inevitabile?

Da mesi ormai assistiamo a uno stillicidio di notizie sulla situazione del debito greco: la scadenze di pagamento si susseguono, e anche se finora sono state onorate dal governo Tsipras, sembra certo che entro giugno (e forse già molto prima) questo non sarà più possibile. Quanto al default bisogna intendersi sul significato dei termini: in questi anni ci sono stati diversi default che sono stati semplicemente chiamati in un altro modo. Io infatti posso non onorare un debito in diversi modi: non ripagandolo (in tutto o in parte) oppure allungando le scadenze di pagamento (come nel caso greco è già successo). In realtà tra le due cose concettualmente non c’è alcuna differenza. Anche per questo, anziché impiccarsi alle parole, è bene andare alla sostanza. E la sostanza è che il debito greco non è ripagabile. È questa la realtà con cui l’establishment europeo non vuole fare i conti.

Le parole molto preoccupate di Mario Draghi, presidente della BCE, che pur affermando che di fronte ad un default greco “siamo più equipaggiati rispetto al 2010 e 2012” ha ammesso, però, che ci troveremmo in “acque inesplorate”. Insomma c’è di che preoccuparsi. Secondo lei cosa intende dire Draghi con queste parole?

Draghi qui dice una cosa giusta: il default greco aprirebbe scenari che nessuno oggi è in grado di prevedere. È un punto importante di differenza rispetto, ad esempio, ai governanti tedeschi (e in particolare a Schäuble), che – non saprei se per tattica o per irresponsabilità – stanno lasciando credere alla loro opinione pubblica che un “grexit” non sarebbe un problema. La verità è quella che ha detto Draghi: per quanto la Grecia sia un piccolo Stato, per quanto il suo prodotto interno lordo si aggiri intorno al 2 per cento del pil totale dell’eurozona, l’uscita della Grecia dall’euro avrebbe conseguenze potenzialmente incontrollabili.

Indiscrezioni giornalistiche affermano che nell’Eurotower si stanno mettendo a punto misure, per non far saltare il sistema creditizio , “non convenzionali”: si parla di questa valuta parallela “Iou” (una sorta di “pagherò”). Sono sufficienti questi tecnicismi finanziari?

È probabile che si stiano approntando misure di emergenza. Ma è dubbio che queste misure rendano meno “inesplorate” le “acque” di cui parla Draghi. Il problema non è di ordine quantitativo: l’uscita della Grecia dall’euro, e già una doppia circolazione monetaria (come quella rappresentata dall’uso di “Iou”), infatti, comporterebbe un radicale mutamento di scenario. Di colpo si dovrebbe affiancare alla moneta comune qualcosa di molto simile a un’altra moneta, e – nel caso più estremo – ciò che era ritenuto impossibile e addirittura impensabile (ossia che uno dei Paesi membri abbandoni la moneta unica) diventerebbe realtà. Sarebbe la fine di un tabù – quello dell’intangibilità dell’euro – che ci ha accompagnato in tutti questi anni, diventando per molti una certezza incrollabile come le verità di fede. Una certezza che è lecito revocare in dubbio, se si pensa che nel solo Novecento non meno di 70 unioni monetarie si sono dissolte. Il problema è che l’eternità (e in ambito umano è meglio parlare di “durata”) di un’istituzione, cosi come di un accordo monetario, non può fondarsi sulla convinzione della sua “irreversibilità”. Può fondarsi soltanto sul fatto di funzionare bene. Un’istituzione disfunzionale e una moneta disfunzionale prima o poi lasceranno il posto a qualcosa di diverso.

Secondo lei quanto è alto il rischio di “contagio” per il nostro Paese?

Ho letto in questi giorni diversi commenti tranquillizzanti a questo riguardo. Devo dire che non li condivido, e devo dire che a volte ascoltando certi commentatori mi è parso che con quelle rassicurazioni volessero in realtà esorcizzare le proprie paure. Il rischio di contagio lo leggiamo nello spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi di pari durata. È senz’altro vero che esso è ancora contenuto, ma è altrettanto incontestabile che in poche settimane è cresciuto di 50 punti base. Segno che il nervosismo è palpabile. E che ci sono Stati, come l’Italia e la Spagna, sui quali le tensioni che interessano i titoli di Stato greci si ripercuotono più facilmente. E non perché siano stati particolarmente pigri nell’attuare le famose “riforme strutturali”: ma perché la percezione dei mercati è che un’Europa incapace di gestire il caso greco sarebbe a maggior ragione impotente nel gestire una crisi in Spagna o in Italia, viste le ben diverse dimensioni di queste economie e del rispettivo debito.

La crisi greca ha avuto costi sociali enormi in quel Paese. Da un lato c’è la responsabilità dei precedenti governi, quelli prima di Tsipras, e dall’altro, certamente, della UE con le sua politica di austerità. Resta il punto: i creditori (FMI e UE) vogliono che la Grecia sia credibile nella sua “road map” per uscire dalla crisi. Se dovesse dare un consiglio ai leader greci quale darebbe?

Di non seguire i cattivi consigli che Fondo Monetario e Unione Europea continuano a dar loro. Sulla strada dell’austerity, che ha già fatto precipitare il prodotto interno lordo greco di 26 punti percentuali (quasi un record in tempo di pace), non c’è alcuna ripresa e non c’è alcuna possibilità di rendere meno gravoso il fardello del debito. È vero il contrario, e gli anni passati lo dimostrano. Già anni fa l’ufficio studi della banca centrale irlandese ha dimostrato che la Grecia aveva fatto “i compiti a casa” che le venivano impartiti. I risultati sono però stati contrari a quanto sperato. E non per caso: quei compiti hanno mandato alle stelle la disoccupazione, fatto crollare i consumi e quindi distrutto la domanda interna e il prodotto interno lordo. E siccome il rapporto debito/pil è per l’appunto un rapporto, essendo crollato il denominatore di questa frazione (il pil), il numeratore (il debito) è cresciuto e diventato ancora più insostenibile.

Per la Grecia si parla, smentiti da Varoufakis, di aiuti Russi e Cinesi. Non c’è il rischio di complicare ulteriormente la situazione?

Io credo che la Grecia abbia tutto l’interesse ad aumentare il numero dei propri interlocutori, soprattutto se si considera il trattamento che ha ricevuto da quelli che dovevano essere i suoi interlocutori privilegiati, ossia gli Stati dell’Unione Europea e in particolare dell’Eurozona. Qui qualcuno potrebbe obiettare: “ma perbacco, l’Unione Europea ha salvato la Grecia prestandole un mucchio di soldi dal 2010 in poi!”. La verità è un po’ diversa: in realtà quei soldi prestati alla Grecia sono serviti a salvare non il paese ellenico, ma i suoi creditori privati, ossia le banche francesi e tedesche. Queste banche hanno infatti potuto riportare a casa i soldi che avevano prestato alla Grecia precisamente perché c’era qualcun altro che comprava i titoli di Stato greci in loro possesso: ossia il Fondo Salva-Stati dell’Unione Europea, la BCE e il Fondo Monetario Internazionale. L’errore che è stato fatto allora (se vogliamo chiamarlo così) è stato duplice: da un lato si sono fatti altri prestiti alla Grecia senza però tagliare il valore dei crediti vantati dai creditori (crediti che quindi sono semplicemente passati di mano, e sono rimasti inesigibili come erano prima), dall’altro questi nuovi crediti concessi sono stati condizionati a politiche che si sono dimostrate fallimentari e controproducenti, mettendo in ginocchio l’economia greca. In questo modo si è caricato tutto il peso dell’aggiustamento sul debitore, senza chiedere alcun sacrificio ai creditori privati della Grecia, e proprio per questo si è resa la situazione senza via d’uscita.
Oggi l’assoluta sordità dell’Europa alle richieste dei Greci di farla finita con quelle politiche fallimentari è precisamente ciò che spinge il governo greco a cercare nuovi interlocutori. E mi sembra davvero bizzarro l’atteggiamento di chi non ti vuole prestare aiuto, e al tempo stesso ti minaccia se provi a cercare aiuto altrove. Poi è chiaro che la faccenda si complica perché in gioco entrano variabili geopolitiche e anche militari (la Grecia è un tassello importante nel sistema della NATO), ma forse bisognava pensarci prima.

Parliamo di UE. Certo è che la dottrina dell’austerity tedesca, quella dei falchi della Bundesbank e del ministro Schauble, ha fatto molto male all’Europa. Paul Krugman, in un articolo sul New York Times, afferma, con toni ironici nei confronti dei teorici del “pensiero unico” liberista, “che se avessimo continuato ad aderire alla macroeconomia dei vecchi tempi staremmo di gran lunga meglio”. Insomma la via dell’Europa è di nuovo Keynes?

È quella del buon senso e di chi sa imparare dagli errori del passato. La cosa più impressionante in tutta questa vicenda è che la cabina di comando europea ha ripetuto errori di policy che già negli anni Trenta erano costati molto cari: la crisi non si combatte con politiche deflazionistiche, e tantomeno si combatte con politiche deflazionistiche attuate contemporaneamente in tutti i Paesi di un’area economica fortemente integrata. Ma precisamente questo è quello che è stato fatto. Le somiglianze con la fine del gold standard, negli anni Trenta del secolo scorso, sono impressionanti. E anche inquietanti, visto quello che avvenne dopo.

Ultima domanda: come giudica il “quantitative easing”?

Tardivo e insufficiente. Tardivo, perché la Bce ha atteso molto, troppo tempo prima di intervenire: da oltre due anni, infatti, l’inflazione dell’eurozona si trova sotto il limite stabilito dallo Statuto della Bce. Insufficiente a rilanciare l’economia, perché gli effetti benefici della liquidità immessa nel sistema dalla Banca centrale europea per acquistare (anche) titoli di Stato sono destinati a farsi sentire quasi esclusivamente a livello finanziario: dando una boccata d’ossigeno alle banche e creando una bolla speculativa sia sul mercato azionario che su quello dei titoli di debito, ma senza produrre effetti degni di nota sul credito alle famiglie e – soprattutto – alle imprese. E infatti già si parla di una bad bank da pagare con denaro pubblico per far ripartire il credito alle imprese da parte delle banche italiane. Se si pensa che negli anni Novanta abbiamo privatizzato tutte le banche pubbliche nella convinzione che il privato fosse in grado di fare meglio il credito alle imprese pesando meno sullo Stato, la situazione odierna appare il peggiore dei mondi possibili: una restrizione formidabile del credito alle imprese e un suo rilancio possibile soltanto con fondi pubblici. Non sarà il “quantitative easing” a risolvere questo genere di problemi.