Dopo quarant’anni, quattro processi, continui depistaggi, un’inchiesta con nuovi fatti e testimonianze. La verità non è mai stata così vicina.
IL LIBRO
CI HANNO MENTITO. Sul caso Moro ci hanno raccontato una VERITÀ AGGIUSTATA.
Nella storia dell’Italia repubblicana non si è mai verificato un delitto politico che abbia presentato tanti RISVOLTI OSCURI come il delitto Moro. Un delitto politico che è ancora cronaca viva: dopo cinque indagini giudiziarie e quattro processi, è stato istituita un’apposita Commissione d’inchiesta parlamentare per indagare ancora. Perché quello che sappiamo oggi è il frutto della TRATTATIVA tra Democrazia cristiana e i vertici delle Brigate rosse. Ed è solo una minima parte di QUANTO È DAVVERO ACCADUTO.
Chi c’era in via Fani la mattina del sequestro? Chi sparò? Dov’erano la o le prigioni di Moro? Chi era il suo QUARTO CARCERIERE? Che fine hanno fatto le carte scritte dal presidente democristiano durante i cinquantacinque giorni e le REGISTRAZIONI dei suoi interrogatori? E, soprattutto, chi ha sottratto la LUNGA LISTA DEGLI APPARTENENTI A GLADIO stilata da Moro durante la prigionia?
L’inchiesta di Stefania Limiti e Sandro Provvisionato ricostruisce tasselli e scava dentro i fatti. Quelli acclarati e quelli nascosti. Li enumera e li analizza. E li inserisce ciascuno nel loro esatto contesto insieme ai protagonisti di quella stagione: il presidente Giulio Andreotti e il ministro Francesco Cossiga, suor Teresilla e don Mennini, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa e il suo braccio destro, il generale Nicolò Bozzo. E brigatisti, mafiosi, uomini della Xa Mas, del Sismi e di Gladio, poliziotti, carabinieri e massoni. Una ricostruzione che ci porta davanti a una verità destabilizzante.
GLI AUTORI
Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con varie testate su temi di attualità politica. Con Chiarelettere ha pubblicato L’ANELLO DELLA REPUBBLICA (2009) e DOPPIO LIVELLO (2013).
Sandro Provvisionato, scrittore e giornalista professionista. Docente di criminologia e problemi della sicurezza presso diversi master, è direttore del sito www.misteriditalia.it. Con Chiarelettere, insieme a Ferdinando Imposimato, ha pubblicato DOVEVA MORIRE (2008) e ATTENTATO AL PAPA (2011).
PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE PUBBLICHIAMO UN ESTRATTO DEL LIBRO
Questo libro
Quella che state per leggere è l’anatomia di un delitto politico avvenuto oltre trentasette anni fa. Abbiamo analizzato minuziosamente, con gli strumenti dell’inchiesta giornalistica, un avvenimento storico che, nonostante il tempo passato, è ancora cronaca viva, al punto da meritare, dopo cinque indagini giudiziarie e quattro processi, l’istituzione di una nuova Commissione d’inchiesta parlamentare, la seconda, senza considerare le tante sedute dedicate al tema dalle Commissioni stragi che si sono succedute nel tempo. Una cronaca così viva che perfino oggi, come potrete leggere, emergono novità e non di poco conto. A cominciare da quelle che riguardano il luogo dove il 16 marzo 1978 tutto è cominciato: via Fani, il teatro della strage che tolse la vita a cinque servitori dello Stato: loro difendevano quella di un uomo politico che da quel momento, per cinquantacinque giorni, finirà nelle mani di una banda terroristica prima di essere assassinato.
È per questo che il nostro racconto comincia proprio in via Fani dove – ora è possibile dirlo senza più ombra di dubbio – l’agguato delle Brigate rosse non andò come hanno stabilito le tante sentenze giudiziarie e neppure come ha raccontato l’unica «voce di dentro» dell’organizzazione armata presente sul luogo della strage: Valerio Morucci. Infatti quella mattina il commando non era composto solo da dieci brigatisti (otto uomini e due donne), ma ben supportato da elementi estranei che parteciparono in maniera attiva. In questo libro ricostruiamo pazientemente, e con l’aiuto indispensabile delle tante perizie tecnico-scientifiche che si sono susseguite negli anni, la dinamica di un’operazione terroristica che fino a oggi presentava troppi buchi illogici, troppe anomalie, troppe discrasie. A cominciare dagli effettivi brigatisti presenti sul posto, per finire a quelle oscure presenze in veste di osservatori, ma anche di facilitatori, di persone che con l’eversione armata non c’entravano nulla, semmai puntavano a una diversa azione eversiva, per così dire «statale». Con stupore abbiamo dovuto constare che, quando c’è odore di servizi segreti, magistrati anche molto preparati e audaci hanno come un mancamento e diventano improvvisamente poco curiosi.
Sappiamo già che solo questa nuova ricostruzione dell’assalto del 16 marzo – e solo per aver fatto il nostro mestiere di giornalisti – basterà a farci piovere addosso le solite, stucchevoli critiche di «dietrologia» e «complottismo». Non ce ne rammarichiamo. Se l’esercizio di buon giornalismo comporta anche il fatto di non accontentarsi mai delle verità ufficiali o delle mezze verità, e quindi di studiare non solo la scena ma anche il retroscena dei fatti, il buon giornalista deve per forza essere un po’ «dietrologo». Altrimenti è solo un megafono altrui.
In questo libro abbiamo passato al microscopio ogni singolo istante di quei tormentati cinquantacinque giorni con un unico scopo: dare senso logico a ciò che senso ne aveva ben poco. Abbiamo voluto dare dimensione a tutti quei fatti, grandi o piccoli, sui quali ancora non esiste un’accettabile convergenza tra racconti, indizi, prove, dichiarazioni, testimonianze.
Dall’analisi minuziosa della dinamica della sparatoria e del rapimento dell’ostaggio alle confuse vie di fuga del commando; dalle tante bugie sulla «prigione del popolo» in cui Aldo Moro venne detenuto all’opaca e nebulosa gestione politica del più importante sequestro di persona mai compiuto in Italia; dai silenzi calcolati dei brigatisti alle campagne d’opinione di una parte consistente della Democrazia cristiana, gli uni e le altre finalizzati all’ottenimento e alla concessione del «perdono». Una soluzione tombale sotto cui seppellire la verità dei fatti, scomoda per le Brigate rosse così come per il potere, non solo quello democristiano; per finire con l’infinita e scandalosa gestione delle carte recuperate a rate in via Monte Nevoso – e che contenevano il vero pensiero del prigioniero – fino all’individuazione, quanto mai tardiva, del misterioso «quarto uomo» a guardia della prigione. Tutti aspetti che, oltre ogni ragionevole dubbio, non hanno mai quadrato, innegabilmente frutto di occultamenti, silenzi, omertà. Quali verità dovevano essere coperte?
Prendiamo un singolo fotogramma: 16 marzo 1978, poco dopo le 9 di mattina, in via Licinio Calvo. Lì i brigatisti riportano le auto usate nell’agguato: perché sfidare la sorte e rischiare di tornare così vicini al luogo del delitto? Si burlano delle forze dell’ordine rischiando tutto? Non c’è logica. A meno che, attorno a quella via, ci sia una loro base. Aldo Moro trascorre lì i primi momenti dopo l’inferno di via Fani? Scrivendo a sua moglie Eleonora, solo il 20 aprile le dice: «Chiama Antonio Mennini, viceparroco di Santa Lucia, e fallo venire a casa». La parrocchia è vicina all’abitazione della famiglia Moro e vicina a via Fani: Moro stava dando una precisa indicazione?
Si era reso conto del breve tragitto fatto per giungere al (primo) covo? È uno scenario verosimile, che spiega gli ingarbugliati e contraddittori racconti dei brigatisti sulla loro fuga dalla scena della strage.
Ricomponendo i mille pezzi di quel maledetto puzzle che va sotto il nome di «caso Moro», abbiamo cercato di dimostrare che almeno una parte dei tanti misteri sono racchiusi nei contatti e nelle trattative tra una parte della Democrazia cristiana e i vertici delle Brigate rosse; trattative che, al di fuori di quelle conosciute, cominciano addirittura quando il sequestro Moro è ancora in corso. Nella complicità tra i due principali attori visibili di questa tragedia tutta italiana – il terzo era Moro che cercò disperatamente una via d’uscita – si racchiude la massa enorme di contraddizioni, di mezze bugie e di mezze verità che hanno reso la vicenda un’inestricabile matassa, una nube tossica che ha occultato e protetto i personaggi invisibili.
Questo libro non affronta le trattative avviate (o fintamente avviate) per salvare la vita di Moro, un capitolo senz’altro rilevante del quale molto si è appreso nel corso degli anni. Anche se ancora non abbiamo una ragionevole spiegazione del perché fallì la possibilità di un accordo. Continua a essere oscuro il motivo per cui Paolo VI non riuscì nel suo pressante tentativo di restituire Moro al paese e alla sua famiglia. Eppure, come dimostra l’audizione di don Mennini in Commissione Moro del 9 marzo 2015, c’era stato il tentativo di aprire un «canale di ritorno», utile a una comunicazione diretta tra le Br e la famiglia Moro.
E forse anche qualcosa in più. Dice il sacerdote amico di Moro: «Il 20 aprile 1978, vestito da prete, andai a ritirare un messaggio delle Br nascosto nei pressi di un bar. Lì vidi un uomo con i baffi che in seguito riconobbi dalle foto segnaletiche: era Valerio Morucci. Solo che in tutte le foto segnaletiche pubblicate, dopo la fine del sequestro, Morucci è senza baffi». Cosa ci vuol dire don Mennini? Che ci fu un contatto diretto tra i due?
Ci siamo chiesti dove fossero le crepe della ricostruzione ufficiale. Dopo aver analizzato il piano militare dell’operazione, ci siamo calati nelle interminabili giornate del sequestro e poi, a dramma concluso, nel lungo dialogo a distanza, pubblico e clandestino al tempo stesso, tra i brigatisti sconfitti e gli uomini della Dc. Abbiamo così seguito il filo della loro complicità che ha reso il «caso Moro» una lunga trattativa, pressoché infinita, tra la Democrazia cristiana e le Brigate rosse, che forse si è conclusa con la scarcerazione degli uomini e delle donne più in vista dell’organizzazione.
La Dc non poteva permettere che venisse alla luce il suo sbandamento e la sua responsabilità per la perdita della vita dell’ostaggio Aldo Moro. Si pensi alle tante ambiguità sugli effettivi sforzi compiuti nella localizzazione della «prigione del popolo», alla scarsa capacità che ebbero i suoi massimi dirigenti di respingere le intrusioni esterne: da quel folto consesso piduista insediatosi al Viminale durante i giorni del sequestro, fino alle manovre degli esperti americani per orientare i rapitori all’eliminazione dell’ostaggio.
Le Brigate rosse, dal canto loro, hanno sempre voluto rivendicare la loro purezza rivoluzionaria. E alcuni superstiti di quella stagione, certamente in buona fede e inconsapevoli dei tanti compromessi che i loro capi hanno intessuto sulle loro teste, ancora oggi tentano questa disperata impresa. Anche di fronte alle evidenze più contrarie. Anche di fronte agli errori più macroscopici. Ma non solo questo importava ai grandi capi di una rivoluzione impossibile, soffocata nelle stanze del potere. Importavano anche gli sconti di pena, una legittima aspirazione che doveva però accompagnarsi al senso di responsabilità di dire come erano andate veramente le cose, momento per momento, senza inganni. Oppure dobbiamo credere che entrambe, la Dc e le Brigate rosse, divennero allora ostaggio di un potere intrigante e intelligente, capace di insinuarsi nelle pieghe del Partito di Moro e tra gli uomini della rivoluzione, ottenendo da entrambi una resa. E la morte di Moro.
E allora ecco che continuare a discutere di quel tempo e di quegli anni – che ci appaiono così diversi e lontani – è importante per capire non solo uno dei volti nascosti della nostra Repubblica, ma anche per riflettere sul paese in cui viviamo. Per farlo è necessario tornare indietro e andare frugare negli angoli bui della storia perché la verità, e purtroppo non solo nel «caso Moro», non è divenuta coscienza di tutti, patrimonio dell’opinione pubblica, storia condivisa: qualcuno voleva tenerla nascosta in qualche cassetto segreto.
Gli interrogativi che ancora rimangono troveranno in futuro nuove risposte. Qualcuno sostiene che un giorno sarà aperto un cassetto degli archivi di Washington, in forza del famoso Freedom of Information Act, e salterà fuori qualche altro frammento di verità. Anche perché molti tra coloro che si sono occupati della vicenda sono ormai convinti che la verità sia Oltreoceano. Gli stessi ritengono che Giulio Andreotti e Francesco Cossiga siano stati tra i maggiori depositari dei misteri del «caso Moro». Non si sa con chi abbiano stretto il patto ferreo del silenzio, ma lo hanno fatto. Certamente hanno condiviso con altri notizie importanti, e non è detto che i loro confidenti siano stati soltanto loro amici di partito. Magari nella ristretta cerchia ci sono anche uno o più avversari politici: ma il patto ha retto lo stesso.
Se avessimo saputo subito cosa fosse davvero successo prima, durante e dopo quei cinquantacinque giorni, la coscienza collettiva del paese avrebbe potuto fare un salto in avanti e magari contrastare le forme più deteriori di una democrazia in affanno. Ma non è mai troppo tardi per conoscere la verità e per questo è importante il contributo di analisi dato in questi anni da studiosi, giornalisti, ricercatori. Continuare a discutere attorno all’azione brigatista più clamorosa e scioccante dell’Italia repubblicana è molto importante perché non possiamo, non dobbiamo, accettare la versione «ufficiale» e di comodo dei fatti. Sbagliano, o forse sono in malafede, coloro che ritengono che sia ora di smettere di cercare, che sarebbe più comodo consegnare alla storia tutto il dossier Moro così com’è. Tra essi ci sono coloro che vogliono che nulla si muova, che tutto resti immobile: questo non solo non è accettabile, ma non è neppure possibile.
Stefania Limiti e Sandro Provvisionato COMPLICI. CASO MORO. IL PATTO SEGRETO TRA DC E BR, Ed Chiarelettere, Milano 2015, Pagg. 320