“Lo Spirito di Stella”: una vita al massimo. Intervista ad Andrea Stella

Andrea-Stella GDL 2014
E’ stato Candido Cannavò, il grande direttore della Gazzetta dello Sport deceduto nel 2009, a scoprirlo qualche anno fa. Nel suo bellissimo libro “E li chiamano disabili”, ci aveva raccontato la storia di Andrea Stella e di altre persone straordinarie.  Ora Andrea presiede una Onlus, “Lo Spirito di Stella”, che ha diversi progetti tra cui i “Sailing Campus”. Una vera e propria scuola di vela itinerante. Una iniziativa , cominciata cinque anni fa, che sta avendo successo. Coinvolge, infatti, persone abili e disabili insieme. Il “Tour” è iniziato a giugno a Desenzano sul Lago di Garda e terminerà a settembre a Savona, dopo aver toccato importanti località come Trieste e La Spezia. Questo ci offre l’occasione per parlare della storia di Andrea e fare un piccolo bilancio della sua attività.

 

Andrea, lei è un bellissimo esempio. Una persona che ha fatto del “limite” una forza che gli ha consentito di rompere le barriere di ogni tipo. Può raccontarci, sinteticamente, l’origine della sua storia?

Avevo 24 anni, mi ero appena laureato in legge e, prima di cominciare a lavorare, sono andato a Miami per una vacanza. Volevo divertirmi e studiare un po’ di inglese, ma una sera dei malviventi  mi hanno sparato per rubarmi un’auto presa a noleggio. Non avevo reagito in alcun modo, probabilmente erano tossicodipendenti… Non sono mai stati presi…

Dopo il grave ferimento che accadde?

Sono stato in coma indotto per 35 giorni. La ferita al fegato era molto grave. Mi hanno salvato per un pelo. La pallottola, però, ha colpito il midollo spinale e non ho più potuto camminare.

Ha mai pensato di non farcela a superare il bruttissimo momento?

Certo che ci ho pensato, ho passato momenti tremendi. All’inizio è stata durissima, come essere stati catapultati in un’altra vita, ma una vita che non avrei mai voluto vivere. La prima reazione alla carrozzina è stata di rifiuto totale. “Piuttosto mi ammazzo”, pensavo.

La persona che più l’aiutata, nel superare il suo pessimismo, è stato suo padre. Perché?

Mio padre ha cercato di farmi reagire, mi ha proposto moltissime cose che potevo fare anche in carrozzina. Ha cercato gli ausili adatti. Mi ha spinto ha riprendere il mare e a tornare in barca a vela. Per me è stato fondamentale.

Il catamarano è stata la svolta della sua vita.  Essere riuscito a realizzare una imbarcazione, così imponente,  e renderla funzionale a persone con problemi motori non è cosa da poco. Questo induce ad un’altra considerazione: se è stato possibile rendere funzionale un mezzo inaccessibile ad un certo tipo di persone, allora la stessa “filosofia” della progettualità integrata può essere utilizzata per rendere accessibili per tutti le nostre città. Eppure, per il nostro Paese, sembra una Utopia… 

Ciò che mi ha spinto a far sì che la barca avesse una vita pubblica oltre che privata è stato proprio questo messaggio: “Se si può fare su una barca perché non si può fare in una città?”.
Per progettare una città, un servizio, un oggetto, bisogna partire dalle esigenze reali delle persone. Se un architetto progetta una cucina e non sa cucinare quella cucina non sarà mai funzionale! Deve chiedersi quale sarà l’utilizzo finale di quella cucina per studiarla bene. Per costruire il catamarano abbiamo fatto proprio questo: abbiamo studiato la mia situazione, che poi è quella di moltissime altre persone. E costruirlo ci ha fatto capire che  gli oggetti pensati per le persone con disabilità possono essere più funzionali anche per gli altri. Il telecomando per la televisione, ad esempio, è stato pensato per un disabile, ma è oggi usato da tutti. È questo il cuore del “ Design for all” o “ Progettare per tutti”: progettare senza barriere va a vantaggio della persona disabile, ma anche della mamma con passeggino o della persona anziana.

Nel 2003 fonda una Onlus, “Lo Spirito di Stella”, che ha diversi progetti. Può dirci i principali?

L’Associazione “lo Spirito di Stella” è impegnata in una campagna di sensibilizzazione sul problema delle barriere architettoniche e in iniziative volte a favorire l’inserimento dei disabili nella società. I progetti principali in corso sono i Sailing Campus, scuola vela itinerante per persone con e senza disabilità insieme, e i Corsi di sci per persone disabili che organizziamo a Folgaria in collaborazione con Scie di Passione.

Può spiegare meglio i “Sailing Campus” ? Quante persone sono state coinvolte?

Si tratta di una scuola vela itinerante che consente a ragazzi e adulti con e senza disabilità di cimentarsi, individualmente e in squadra, nel condurre le imbarcazioni della gamma Hansa. I partecipanti partecipano a lezioni teoriche e pratiche seguiti da istruttori professionisti, in un ambiente accessibile e inclusivo.
Ad ogni corso sono ammessi massimo 10 iscritti e ogni anno si svolgono sei campus per un totale di circa 60 partecipanti. Sono molte di più, però, le persone che ruotano intorno ai campus: istruttori FIV, volontari delle associazioni locali, Marina Militare…
I Sailing Campus vogliono avere una ricaduta positiva reale sui territori interessati: si controlla l’accessibilità del luogo dove si tiene il campus, ma si mappano anche gli alberghi della zona per dare sostegno ai partecipanti nella ricerca di strutture accessibili per il pernottamento. Dallo sport alla città, quindi, per creare accessibilità e integrazione.

Torniamo alle “barriere” che una persona “disabile” (bruttissimo termine) incontra. Qual è la più grande, secondo lei, che deve affrontare nel nostro Paese?

Il problema che vivo ogni giorno è la difficoltà, se non impossibilità, di muovermi liberamente. Le barriere fisiche sono le più dure. La Florida, luogo della sparatoria, è per me oggi paradossalmente un luogo di vacanza perché sono quasi completamente assenti le barriere architettoniche.  Lì posso scegliere un ristorante in base al cibo, non perché posso utilizzare i servizi igienici!
Barriere fisiche, ma anche mentali. I due concetti sono purtroppo intimamente legati. Il nostro Paese è impreparato ad accogliere le persone con disabilità. Mentre nel Nord Europa ci sono ragazzi che circolano liberamente in carrozzina senza che nessuno ci faccia caso o si stupisca, qui ti guardano come se fossi sceso da Marte. Ci sono troppe barriere e, a causa di queste, le persone disabili faticano a relazionarsi e ad integrarsi.

Ultima domanda: Andrea se dovesse sintetizzare in poche battute lo “spirito” di Stella, cosa direbbe?

Direi che Lo Spirito di Stella è una realtà che cerca di dare il proprio piccolo contributo per abbattere alcune delle troppe barriere, mentali e fisiche, che ostacolano la vita di molte persone, e cerca di farlo con progetti pratici concreti, come i corsi di sci e di scuola vela aperti a tutti, cercando di dare a tutti le stesse opportunità.

Alla ricerca dell’Europa perduta. Intervista a Franco Cardini

Dopo l’accordo tra Ue e Grecia della scorsa settimana, nell’opinione pubblica europea si è sviluppato un dibattito molto serrato sull’Europa. Ovvero se ha ancora un senso l’Europa . Un dibattito che ha come protagonista la Germania di Angela Merkell e del suo potentissimo ministro delle Finanze Wolfang Schauble (il “falco” rigorista).
Per Jurgen Habermas, intellettuale di punta tedesco, in una intervista al quotidiano inglese “The Guardian”, uscita ieri su Repubblica, ha affermato che “l’egemonia di Berlino è contro l’anima dell’Europa” . Anche nel nostro Paese si sta sviluppando questo dibattito sull’Europa. Ne parliamo, in questa intervista, con lo storico Franco Cardini.

Professor Cardini, molti osservatori, dopo l’accordo, giudicato “punitivo”, tra UE e Grecia, hanno scritto che è “finita l’Europa” o meglio una certa idea di Europa (vista come un progetto politico). Per Lei è così?

È difficile rispondere, io temo che un progetto politico dell’Europa non ci sia mai stato, debbo dire che mi sento ingannato. Mi sentivo anche ingannato fin dall’inizio perché ho visto che l’Europa che stava nascendo era in realtà lo sviluppo della Comunità Europea del carbone e dell’acciaio che poi è diventata Comunità Economica Europea e che poi si è trasformata, ulteriormente, in Unione Europea senza però quei requisiti politici, giuridici, militari, che crea uno stato o un unione di stati su un modello che poteva essere l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti d’America o la Confederazione Elvetica. Una minoranza della mia generazione ha persino pensato che si potesse persino creare una Nazione Europea. Poi ci siamo resi conto che, per le differenze storiche e linguistiche, era impossibile. Io credo che la forma istituzionale più consona all’Europa sia quella di una Confederazione con il rispetto di tutte le nazioni. Invece questa Europa è stata , ed è, un accordo di governi intorno a questioni economiche e finanziarie. Realtà politiche che erano a loro volta in declino. La politica stava diventando sempre di più asservita all’economia e alla finanza. È vero che Marx ci ha insegnato che i politici stavano diventando un comitato di affari di finanzieri ma non ci abbiamo proprio creduto. Bisogna dire oggi che un difetto di Marx è stato quello di avere anticipato i tempi sbagliandoli, nel senso che al suo tempo non era vero, adesso è purtroppo vero: la politica è diventata un comitato di affari. Questo ha principalmente fatto fallire l’Europa. A questo punto mi sento tradito, anche come storico, per non aver capito che questo era un inganno. Però buttare a mare l’Euro sarebbe non solo un errore, ma anche un grave passo indietro. A questo punto bisogna accettare l’idea che abbiamo sbagliato, abbia costruito un’Europa dal tetto, invece che dalle fondamenta: le fondamenta, come già detto, sono politiche, diplomatiche, giuridiche, militari (ovvero un comune esercito europeo). A questo punto si dovrebbe ricominciare daccapo: ricostruire le fondamenta giuridiche dell’Europa cercando però di salvare in qualche modo, con una serie di puntelli provvisori un tetto già fatto, che è l’Euro, che purtroppo comincia a fare acqua perché la crisi greca ha rischiato di compromettere lo stesso euro. A tutto questo si aggiunge che siamo in preda di impulsi che sono xenofobi, anti islam. Anche questo non fa bene all’Europa.

Andando più in profondità: lei è uno storico, un uomo della “lunga durata” direbbero quelli delle “Annales”, qual è la malattia, spirituale e culturale, che impedisce all’Europa di essere vissuta dai cittadini come un “destino” positivo?

Non avere mai creduto fino in fondo nella possibilità di un percorso, di un destino. In Europa c’era un destino implicito di unione, ma l’Europa non è mai veramente nata: nel mondo antico era un continente, in quello medioevale era il mondo della cristianità, nel mondo moderno il concetto di Europa si è fatto strada, ed è emerso quando i popoli d’Europa si sono resi conto che non potevano farsi guerra tra loro. A quel punto quello era il primo esplicito vagito dell’Europa. Bisogna guardare al mondo moderno, in cui ci imbattiamo in un processo di secolarizzazione. Le democrazie liberali non sono mai riuscite ad elaborare un concetto simile, hanno invece elaborato un concetto di Occidente. La nascita dell’Europa era condizionata dal fatto che le due grandi potenze non europee (Usa e Urss) nel trattato di Yalta avevano stabilito che l’Europa non doveva nascere. Oggi bisogna dire che questa visione era errata, e che si trattava di un’ idea precisa: quella di non far mai nascere un’Europa politica e avevano stabilito che non si doveva far nascere una realtà che sarebbe potuta diventare un’altra grande potenza, che avrebbe potuto fare loro ombra. E questo è stato un errore, perché un’Europa unita sarebbe stata una potenza che sarebbe riuscita a mediare tra le due super potenze questo avrebbe potuto impedire la “terza” guerra mondiale, ossia la Guerra Fredda. Oggi, forse, siamo in una “quarta” guerra mondiale, che è caratterizzata in altri modi.

Non c’è solo l’economia a dividere gli europei c’è, come accennava prima Lei, anche l’atteggiamento nei confronti dell’altro, lo straniero, il diverso da noi. Emblematico, in questo, è il muro ungherese. Anche questa è sconfitta dell’Europa. Come arginare i nazionalismi che stanno riaffiorando in Europa?

Bisognerebbe combatterli, intanto con il buon senso. La storia ci insegna che i nazionalismi hanno portato alla distruzione degli stati sovranazionali, che sembravano sorpassati, invece stavano già antivenendo il futuro, noi oggi avremmo bisogno di quegli stati, sarebbero stati preziosi, una molteplicità di stati che si regge con una molteplicità di tradizioni, ma che si regge sotto le stesse leggi, che permette loro di vivere in una moderata libertà, non era certo la libertà personale assoluta che abbiamo tanto desiderato, ma non ci ha fatto per niente bene, ci ha portato a questa condizione di disorganizzazione, di corruzione, non dimentichiamo che la corruzione è funzionale probabilmente alla politica. La corruzione di oggi è uno degli aspetti della democrazia parlamentare ed anche della realtà degli stati nazionali. Ormai in un mondo di economia globale, se vogliamo rispondere adeguatamente all’economia globale bisogna metterci insieme e per questo ci siamo messi insieme dal punto di vista economico noi europei, però abbiamo fatto l’errore di non capire, o di fingere di non sapere, che un’unione economica non si regge, se non ci sono altri tipi di unione (come ho già detto prima). Per fare un’unione economica basta avere dei soldi, metterli in comune e gestirli attraverso le banche, gli istituti di credito, le borse e quant’altro, però per fare un’unione di altro genere bisogna avere altri valori: valori di tipo morale, storico, politico (quando due persone decidono di mettersi insieme per fare una famiglia mettono insieme i loro beni, ma non fanno la famiglia per fare un’alleanza economica, ma perché hanno dei valori che sono morali, religiosi). Questi valori l’Europa dove doveva trovarli? In due realtà che aveva a sua disposizione: le radici cristiane e la storia comune. Si doveva valorizzare questa storia comune e cercare insieme gli errori reciproci e conoscersi come europei. Non l’abbiamo fatto. Mi ricordo di essere rimasto stupito per il fatto che si costituiva un parlamento europeo e uno dei primi atti avrebbe dovuto essere pensare ad una scuola europea, ad una scuola in cui si sarebbe dovuto insegnare non più soltanto una storia delle scienze a livello europeo e mondiale, questo va da sé, però si doveva studiare una storia europea, mentre ciascuno di noi ha imposto una storia nazionale. Tanto è vero che studiamo ancora l’ottocento come un seguito di guerre di Indipendenza italiane. Poi naturalmente coltivare un’idea comune anche di difesa, però questo non ci fu permesso. Ad oriente l’Unione Sovietica impose la sua egemonia e noi la criticammo, dicendo che era un paese totalitario ecc.. Però ad occidente gli Stati Uniti d’America, usando uno strumento che purtroppo esiste ancora, cioè la NATO, ci imposero una loro egemonia, più liberale magari, ma era lo stesso un’egemonia. Noi europei siamo militarmente occupati dagli Stati Uniti, ancora oggi soprattutto proprio l’Italia e spesso contro la volontà dei cittadini. Quando facemmo queste cose si profilò l’idea di un esercito europeo, che avrebbe potuto essere indipendente: quello sarebbe potuto essere uno straordinario strumento d’integrazione europea, con una leva europea, ci avrebbe aiutato a superare le differenze linguistiche che c’erano. Noi ci siamo nascosti dietro alla difficoltà linguistica, come se fosse insuperabile, per mettere in giro dei cittadini europei che non sanno nulla della cultura degli altri. Un cittadino europeo esce dall’Università e può non aver letto una riga di Shakespeare, una riga di Goethe. Non si possono fare gli europei in questo modo. Gli stati nazionali europei hanno avuto il torto di tenere alla loro sovranità ma poi di perdere la loro sovranità per una potenza non europea come gli Stati Uniti d’America. Questo è stato un errore madornale, una colpa che i padri fondatori d’Europa non avrebbero voluto. Schumann uscì dalla politica quando fu bocciato il progetto di un esercito comune europeo e se ne andò dicendo che era stato ingannato. Aveva perfettamente ragione. I singoli stati debbono rinunciare ad una parte di sovranità che deve essere demandata ad un governo centrale, se vogliamo costruire una realtà sovranazionale.

La costruzione dell’Europa contemporanea è stata fatta da grandi leader, appartenenti alle due grandi famiglie europee (democristiana e socialista). Eppure queste “famiglie”, da tempo, hanno perso il “sapore” della politica. Come rianimare queste famiglie, con quali riferimenti?


Una dritta la sta dando proprio il papa attuale, l’ultima enciclica è bellissima! E’ stata anche fraintesa, io credo che non sia stata nemmeno letta, perché è stata presa come un’enciclica che è stata fatta per tutelare solo i valori ecologici. Non è stata letta assolutamente, è un’enciclica che denunzia i guasti economici, sociali e morali che ci sono nel mondo perché l’uomo ha seminato l’ingiustizia sociale. Se l’avessero letta avrebbero reagito con un altro modo. Invece c’è chi ha sottolineato che anche il cristianesimo è una religione che rispetta la natura, ma l’abbiamo sempre saputo, c’è chi ha accusato il Papa di andare a pensare all’estinzione delle balene piuttosto che ai cristiani che muoiono nel mondo. Tutto questo è aberrante, perché il Papa ai cristiani perseguitati nel mondo ci pensa eccome e poi perché ci sono dei temi che devono essere affrontati, il Papa ha una sua agenda che non può essere sindacata dal primo giornalista che arriva e che dice che l’enciclica si doveva fare per i cristiani nel mondo. Il Papa sta dicendo che distruggiamo la natura per guadagnarci e che questo guadagno non è distribuito equamente, se la gente scappa dall’Africa è perché è diventato un continente invivibile a seguito del super sfruttamento a cui lo sottopongono le lobbies delle multinazionali. Al tempo del colonialismo c’era sopraffazione, violenza, lo sfruttamento, ma c’erano anche elementi che cercavano di tutelare le popolazioni, di costruire scuole, ospedali. All’epoca si diceva di “civilizzarli”, che era una parola antipatica, perché la loro civiltà ce l’avevano eccome, però quanto meno c’erano dei valori positivi. Il neocolonialismo è stato soprattutto sfruttamento economico, ammesso dalla comunità internazionale per fare i nostri comodi. Tutto questo è denunciato nell’enciclica e credo che proprio partendo da questa enciclica, gli attuali cristiano democratici e quello che resta dei socialisti dovrebbero cominciare proprio da lì. C’è una realtà gravissima oggi, che è quella della sparizione dell’autorità pubblica, ma bisognerebbe sostituirla con un’adeguata autorità federale che ci tenesse insieme e questo sarebbe il momento di agire in questa maniera, invece no. Distruggiamo quello che resta degli stati nazionali perché stiamo privatizzando le risorse degli enti pubblici e le diamo alle lobbies dei privati. Bisogna pensare al bene comune, che è una realtà su cui cattolici e socialisti potrebbero convergere, lottando contro i piccoli nazionalismi. I movimenti xenofobi attuali sono movimenti che non riescono ad articolare un discorso politico. Però per fare il salto di qualità all’Europa, mi ripeto, bisogna rivedere profondamente le nostre istituzioni, perché non sono rappresentative di una realtà europea. Gli stati devono fornire di poteri effettivi un governo centrale, perché la Commissione europea agisce da delegata dei singoli governi europei. Nessuno dei cittadini europei si sente europeo. Se ci fosse un governo europeo, oggi alcuni cittadini veneti non penserebbero alla Lega.

Arturo Paoli, “Amorizzare il mondo”. Un ricordo di un testimone radicale del Vangelo.

112Arturo Paoli - ph Davide Dutto_2Arturo Paoli, classe 1912, nel prossimo novembre avrebbe compiuto 103 anni, è morto nella notte tra la domenica e lunedì nella sua Lucca (dove era stato ordinato sacerdote). I funerali si svolgeranno domani nella Cattedrale di Lucca. Paoli è stato uno straordinario testimone del cristianesimo. Una voce unica in Italia. Un vero “profeta” biblico, l’ultimo dei “patriarchi” della fede in Italia. Da giovane prete partecipa alla Resistenza, salvando centinaia di ebrei (impegno che gli varrà il riconoscimento, nel 1999, da parte  di Israele del titolo di Giusto delle Nazioni). Diventa, sul finire degli anni ’40, vice-assitente nazionale della Giac (la gioventù dell’Azione Cattolica italina),stringe, in quel tempo, un grande rapporto d’amicizia Giovanni Battista Montini (futuro Papa Paolo VI). Viene esiliato da parte delle gerarchie vaticane del’epoca,lascia così l’incarico in Azione Cattolica. Diventa   cappellano sulle navi degli emigranti italiani in Argentina. L’ Argentina e l’America Latina diventano la sua patria di elezione. Per quarantacinque anni il suo impegno per la liberazione dei poveri e la giustizia sociale si svolge in quell’immenso continente. Diventa uno dei protagonisti della Chiesa della Liberazione. Infatti il  suo libro Dialogo  della liberazione è una delle matrici del movimento nato in Sudamerica e conosciuto in tutto il mondo con il nome di Teologia della liberazione. Da Piccolo fratello di Charles de Foucauld (l’eremita francese che morì solitario nel deserto di Algeria), per quarantacinque , come abbamo detto, in America Latina: Argentina, Venezuela, Brasile e molti altri Stati sudamericani diventa animatore di comunità ecclesiali. Vivendo nei quartieri più poveri delle città latinoamericane. A Buenos Aires conosce Padre Bergoglio, futuro Papa Francesco (con il quale si incontrerà nel gennaio del  2014 a Santa Marta in Vaticano).  Nel 2005 lascia, a 93 anni, l’America Latina e fa ritorno in Italia. Nel 2006 ha ricevuto la Medaglia d’oro al valore civile dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. GLI ULTIMI anni della sua vita sono sempre intensi. Numerosi sono i suoi incontri con i giovani. NEL farsi discepolo di Charles de Focault, “piccolo fratello universale”, Arturo Paoli ha perseguito un ideale semplice e radicale: “amorizzare il mondo. In questa logica non risparmiava critiche all’Europa, un continente, scriveva Paoli, che ha perso il senso della solidarietà con gli ultimi. In questo c’è grande sintonia con il Magistero di Papa Francesco.

Per ricordarlo pubblichiamo, per gentile concessione dell’Editore, un estratto del suo ultimo Libro, uscito nel 2013 per Chiare Lettere, “Cent’anni di fraternità”.

In conclusione
I giovani mi chiedono spesso perché sono prete. La risposta vera non può limitarsi alla parola «vocazione», che per loro è assolutamente incomprensibile. Forse la migliore risposta a quelle domande, che nascono spontaneamente nell’incontro con uno che si suppone esperto su problemi della nostra epoca, è quella che darebbe Dostoevskij, che ha coltivato una certa dimestichezza con i monaci del suo tempo. Con loro ha trovato una risposta profonda a quei pensieri che lo tormentavano giorno e notte. Forse la vostra curiosità nasce dal fatto di interessarmi di voi senza la domanda: sei credente? Frequenti la chiesa? Mi interessa soprattutto l’amicizia, che non è un termine strettamente religioso anche se viene alla mente e al cuore di Gesù. Gesù si interessa essenzialmente di amorizzare il mondo, cioè di migliorare le relazioni fra gli esseri umani che spesso sono tormentate e difficilmente si placano.

Un lungo weekend
Potrei dire di essere in attesa di sorella morte che, per i giovani che mi frequentano, è un’attesa molto strana. Ho spesso sognato un weekend della vita, che vedo farsi strada nel tempo oltre le mie previsioni, come un ritiro silenzioso nell’attesa della sua visita, che non ho mai temuto.
Quando ci penso ricordo la morte di mio nonno: un’attesa quasi indifferente, come quella di un amico che non conosci e che si è annunziato. Mio nonno visse per quarantacinque giorni solo bevendo acqua. Interrogavo il suo silenzio che interrompeva solo con me e, nel passare dei giorni, lo vedevo farsi sempre più sereno, come nell’attesa di un amico sconosciuto con cui si pensa lieto l’incontro. Mio nonno aveva messo a posto, come si diceva al tempo, «i suoi conti con Dio» attraverso una lunga conversazione con il parroco. Forse immaginava la venuta di qualche angelo.
Quel tempo che dedicavo al letto del nonno, che non sopportava altri che non fossero altrettanto intimi, mi riempì di sorpresa e forse di saggezza. Imparare a morire mi ha donato una saggezza precoce che riempie la misteriosa parola «vocazione».

L’esistenza in gran parte è una scelta
Ecco la risposta che spesso dono ai giovani che mi visitano, riconoscendomi una persona un po’ strana e forse interessante. Vorrei convincerli che l’esistenza in gran parte è una scelta. Ed è questa convinzione la più interessante per me e la più difficile per i giovani. Il mondo che li circonda, comprese la famiglia, la scuola, la società in genere, sembra interessato a togliere loro il tempo di riflessione necessario per una scelta libera. Qualche adulto, se non mio coetaneo ma vicino, mi chiede perché nel Sessantotto i giovani mostrassero una vivacità eccezionale che oggi sembra scomparsa.
C’è oggi qualcosa che libera i giovani dalla fatica di scegliere, e questo è il maggior pericolo che ho visto apparire nel lungo tempo della mia vita.
Ricordo che mi colpì, leggendo la biografia di sant’Agostino scritta da Giovanni Papini, lo scrittore più in voga in quel tempo, un capitolo che portava il titolo «L’uragano della pubertà»: per noi era veramente tale. Ma pare non si possa dire altrettanto per i giovani di oggi perché, invece dell’uragano, potrebbero parlare di una stanca e noiosa stagione invernale che sembra eterna. Si adattano a questa stagione grigia, immobile, dove anche le novità tecniche vengono assunte con una certa monotonia. La tecnica suscita curiosità ma non attesa, non provoca sentimenti sconosciuti. Sono in attesa di una novità.
Ripenso che nella mia giovinezza ebbe molta importanza l’amicizia con Giorgio La Pira, che riuscì a liberarmi da quel famoso «uragano» e a farmi pensare che avrei potuto essere, come lui, un educatore di giovani. Giorgio La Pira esercitava su di me una potenza così viva da trasformare il mio mondo interiore. Mi aiutò a trovare nella vita di fede il sogno della mia esistenza. Le amicizie a cui mi aprì mi portarono un tipo di pensiero e di interessi che mi erano sconosciuti fino a poco tempo prima.
Sono sempre stato più educatore che apologeta della fede che praticavo.
Forse la generazione presente ha bisogno di questo atteggiamento, che può creare un interesse che vince il rifiuto a una ricerca di fede.

IL LIBRO

coverArturo Paoli, CENT’ANNI DI FRATERNITÀ, Postfazione di Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace, Edizioni Chiarelettere, Milano 2013, pagg. 112, € 12,00.

 

 

“Diciamo NO a una economia di esclusione e inequità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide.” L’intervento di Papa Francesco al II Incontro mondiale dei movimenti popolari

Pope in Bolivia

Ieri presso il Centro fieristico Expo Feria, Santa Cruz de la Sierra (Bolivia), sede del II Incontro mondiale dei movimenti popolari, Papa Francesco ha pronunciato un discorso memorabile contro il sistema economico dominate. E’ stato l’intervento più politico, dall’inizio del suo pontificato, di Papa Bergoglio. Lo pubblichiamo per intero.

Sorelle e fratelli, buon pomeriggio!
Qualche mese fa ci siamo incontrati a Roma ed ho presente quel primo nostro incontro. Durante questo periodo vi ho portato nel mio cuore e nelle mie preghiere. Sono contento di rivedervi qui, a discutere sui modi migliori per superare le gravi situazioni di ingiustizia che soffrono gli esclusi in tutto il mondo. Grazie, Signor Presidente Evo Morales, perché accompagna così risolutamente questo Incontro.

Quella volta a Roma ho sentito qualcosa di molto bello: fraternità, decisione, impegno, sete di giustizia. Oggi, a Santa Cruz de la Sierra, ancora una volta sento lo stesso. Grazie per tutto ciò. Ho saputo anche dal cardinale Turkson presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che molti nella Chiesa si sentono più vicini ai movimenti popolari. Me ne rallegro molto! Vedere la Chiesa con le porte aperte a tutti voi, mettersi in gioco, accompagnare, e programmare in ogni diocesi, ogni Commissione di Giustizia e Pace, una reale collaborazione, permanente e impegnata con i movimenti popolari. Vi invito tutti, Vescovi, sacerdoti e laici, comprese le organizzazioni sociali nelle periferie urbane e rurali, ad approfondire tale incontro.
Dio ci consente di rivederci nuovamente oggi. La Bibbia ci ricorda che Dio ascolta il grido del suo popolo e anch’io desidero unire la mia voce alla vostra: le famose “tre t”: terra, casa e lavoro per tutti i nostri fratelli e sorelle. L’ho detto e lo ripeto: sono diritti sacri. Vale la pena, vale la pena di lottare per essi. Che il grido degli esclusi si oda in America Latina e in tutta la terra.

1. Prima di tutto, iniziamo riconoscendo che abbiamo bisogno di un cambiamento. Ci tengo a precisare, affinché non ci sia fraintendimento, che parlo dei problemi comuni a tutti i latino-americani e, in generale, a tutta l’umanità. Problemi che hanno una matrice globale e che oggi nessuno Stato è in grado di risolvere da solo. Fatto questo chiarimento, propongo di porci queste domande:
– Sappiamo riconoscere, sul serio, che le cose non stanno andando bene in un mondo dove ci sono tanti contadini senza terra, molte famiglie senza casa, molti lavoratori senza diritti, molte persone ferite nella loro dignità?
– Riconosciamo che le cose non stanno andando bene quando esplodono molte guerre insensate e la violenza fratricida aumenta nei nostri quartieri? Sappiamo riconoscere che le cose non stanno andando bene quando il suolo, l’acqua, l’aria e tutti gli esseri della creazione sono sotto costante minaccia?

E allora, se riconosciamo questo, diciamolo senza timore: abbiamo bisogno e vogliamo un cambiamento.

Voi nelle vostre lettere e nei nostri incontri – mi avete informato sulle molte esclusioni e sulle ingiustizie subite in ogni attività di lavoro, in ogni quartiere, in ogni territorio. Sono molti e diversi come molti e diversi sono i modi di affrontarli. Vi è, tuttavia, un filo invisibile che lega ciascuna delle esclusioni. Non sono isolate, sono unite da un filo invisibile. Possiamo riconoscerlo? Perché non si tratta di problemi isolati. Mi chiedo se siamo in grado di riconoscere che tali realtà distruttive rispondono ad un sistema che è diventato globale. Sappiamo riconoscere che tale sistema ha imposto la logica del profitto ad ogni costo, senza pensare all’esclusione sociale o alla distruzione della natura?

Se è così, insisto, diciamolo senza timore: noi vogliamo un cambiamento, un vero cambiamento, un cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità, i villaggi …. E non lo sopporta più la Terra, la sorella Madre Terra, come diceva san Francesco.

Vogliamo un cambiamento nella nostra vita, nei nostri quartieri, nel salario minimo, nella nostra realtà più vicina; e pure un cambiamento che tocchi tutto il mondo perché oggi l’interdipendenza planetaria richiede risposte globali ai problemi locali. La globalizzazione della speranza, che nasce dai Popoli e cresce tra i poveri, deve sostituire questa globalizzazione dell’esclusione e dell’indifferenza!

Oggi vorrei riflettere con voi sul cambiamento che vogliamo e di cui vi è necessità. Sapete che recentemente ho scritto circa i problemi del cambiamento climatico. Ma questa volta, voglio parlare di un cambiamento nell’altro senso. Un cambiamento positivo, un cambiamento che ci faccia bene, un cambiamento che potremmo dire redentivo. Perché ne abbiamo bisogno. So che voi cercate un cambiamento e non solo voi: nei vari incontri, nei diversi viaggi, ho trovato che esiste un’attesa, una ricerca forte, un desiderio di cambiamento in tutti i popoli del mondo. Anche all’interno di quella minoranza in diminuzione che crede di beneficiare di questo sistema regna insoddisfazione e soprattutto tristezza. Molti si aspettano un cambiamento che li liberi da questa tristezza individualista che rende schiavi.

Il tempo, fratelli, sorelle, il tempo sembra che stia per giungere al termine; non è bastato combattere tra di noi, ma siamo arrivati ad accanirci contro la nostra casa. Oggi la comunità scientifica accetta quello che già da molto tempo denunciano gli umili: si stanno producendo danni forse irreversibili all’ecosistema. Si stanno punendo la terra, le comunità e le persone in modo quasi selvaggio. E dopo tanto dolore, tanta morte e distruzione, si sente il tanfo di ciò che Basilio di Cesarea – uno dei primi teologi della Chiesa – chiamava lo “sterco del diavolo”. L’ambizione sfrenata di denaro che domina. Questo è lo “sterco del diavolo”. E il servizio al bene comune passa in secondo piano. Quando il capitale diventa idolo e dirige le scelte degli esseri umani, quando l’avidità di denaro controlla l’intero sistema socioeconomico, rovina la società, condanna l’uomo, lo fa diventare uno schiavo, distrugge la fraternità interumana, spinge popolo contro popolo e, come si vede, minaccia anche questa nostra casa comune, la sorella madre terra.
Non voglio dilungarmi a descrivere gli effetti negativi di questa sottile dittatura: voi li conoscete. E non basta nemmeno segnalare le cause strutturali del dramma sociale e ambientale contemporaneo. Noi soffriamo un certo eccesso diagnostico che a volte ci porta a un pessimismo parolaio o a crogiolarci nel negativo. Vedendo la cronaca nera di ogni giorno, siamo convinti che non si può fare nulla, ma solo prendersi cura di sé e della piccola cerchia della famiglia e degli affetti.
Cosa posso fare io, raccoglitore di cartoni, frugatrice tra le cose, raccattatore, riciclatrice, di fronte a problemi così grandi, se appena guadagno quel tanto per mangiare? Cosa posso fare io artigiano, venditore ambulante, trasportatore, lavoratore escluso se non ho nemmeno i diritti dei lavoratori? Cosa posso fare io, contadina, indigeno, pescatore che appena appena posso resistere all’asservimento delle grandi imprese? Che cosa posso fare io dalla mia borgata, dalla mia baracca, dal mio quartiere, dalla mia fattoria quando sono quotidianamente discriminato ed emarginato? Che cosa può fare questo studente, questo giovane, questo militante, questo missionario che calca quartieri e luoghi con un cuore pieno di sogni, ma quasi nessuna soluzione ai suoi problemi? Potete fare molto. Potete fare molto! Voi, i più umili, gli sfruttati, i poveri e gli esclusi, potete fare e fate molto. Oserei dire che il futuro dell’umanità è in gran parte nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzare e promuovere alternative creative nella ricerca quotidiana delle “tre t”, d’accordo? – lavoro, casa, terra – e anche nella vostra partecipazione attiva ai grandi processi di cambiamento, cambiamenti nazionali, cambiamenti regionali e cambiamenti globali. Non sminuitevi!

2. Voi siete seminatori di cambiamento.
Qui in Bolivia ho sentito una frase che mi piace molto: “processo di cambiamento”. Il cambiamento concepito non come qualcosa che un giorno arriverà perché si è imposta questa o quella scelta politica o perché si è instaurata questa o quella struttura sociale. Sappiamo dolorosamente che un cambiamento di strutture che non sia accompagnato da una sincera conversione degli atteggiamenti e del cuore finisce alla lunga o alla corta per burocratizzarsi, corrompersi e soccombere. Bisogna cambiare il cuore. Per questo mi piace molto l’immagine del processo, i processi, dove la passione per il seminare, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare tutti gli spazi di potere disponibili e vedere risultati immediati. La scelta è di generare processi e non di occupare spazi. Ognuno di noi non è che parte di un tutto complesso e variegato che interagisce nel tempo: gente che lotta per un significato, per uno scopo, per vivere con dignità, per “vivere bene”, dignitosamente, in questo senso.

Voi, da parte dei movimenti popolari, assumete i compiti di sempre, motivati dall’amore fraterno che si ribella contro l’ingiustizia sociale. Quando guardiamo il volto di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato, del lavoratore escluso, dell’indigeno oppresso, della famiglia senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato, del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei “volti e nomi” ci si stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo, tutti ci commuoviamo. Perché “abbiamo visto e udito” non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove e cerchiamo l’altro per muoverci insieme. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria  particolare mistica ai veri movimenti popolari.

Voi vivete ogni giorno, impregnati, nell’intrico della tempesta umana. Mi avete parlato delle vostre cause, mi avete reso partecipe delle vostre lotte, già da Buenos Aires, e vi ringrazio. Voi, cari fratelli, lavorate molte volte nella dimensione piccola, vicina, nella realtà ingiusta che vi è imposta, eppure non vi rassegnate, opponendo una resistenza attiva al sistema idolatrico che esclude, degrada e uccide. Vi ho visto lavorare instancabilmente per la terra e l’agricoltura contadina, per i vostri territori e comunità, per la dignità dell’economia popolare, per l’integrazione urbana delle vostre borgate e dei vostri insediamenti, per l’autocostruzione di abitazioni e lo sviluppo di infrastrutture di quartiere, e in tante attività comunitarie che tendono alla riaffermazione di qualcosa di così fondamentale e innegabilmente necessario come il diritto alle “tre t”: terra, casa e lavoro.
Questo attaccamento al quartiere, alla terra, all’occupazione, al sindacato, questo riconoscersi nel volto dell’altro, questa vicinanza del giorno per giorno, con le sue miserie – perché ci sono, le abbiamo – e i suoi eroismi quotidiani, è ciò che permette di esercitare il mandato dell’amore non partendo da idee o concetti, bensì partendo dal genuino incontro tra persone, perché abbiamo bisogno di instaurare questa cultura dell’incontro, perché non si amano né i concetti né le idee, nessuno ama un concetto, un’idea, si amano le persone. Il darsi, l’autentico darsi viene dall’amare uomini e donne, bambini e anziani e le comunità: volti, volti e nomi che riempiono il cuore. Da quei semi di speranza piantati pazientemente nelle periferie dimenticate del pianeta, da quei germogli di tenerezza che lottano per sopravvivere nel buio dell’esclusione, cresceranno alberi grandi, sorgeranno boschi fitti di speranza per ossigenare questo mondo.

Vedo con gioia che lavorate nella dimensione di prossimità, prendendovi cura dei germogli; ma, allo stesso tempo, con una prospettiva più ampia, proteggendo il bosco. Lavorate in una prospettiva che non affronta solo la realtà settoriale che ciascuno di voi rappresenta e nella quale è felicemente radicato, ma cercate anche di risolvere alla radice i problemi generali di povertà, disuguaglianza ed esclusione.

Mi congratulo con voi per questo. E’ indispensabile che, insieme alla rivendicazione dei vostri legittimi diritti, i popoli e le loro organizzazioni sociali costruiscano un’alternativa umana alla globalizzazione escludente. Voi siete seminatori del cambiamento. Che Dio vi conceda coraggio, gioia, perseveranza e passione per continuare la semina! Siate certi che prima o poi vedremo i frutti. Ai dirigenti chiedo: siate creativi e non perdete mai il vostro attaccamento alla prossimità, perché il padre della menzogna sa usurpare nobili parole, promuovere mode intellettuali e adottare pose ideologiche, ma se voi costruite su basi solide, sulle esigenze reali e sull’esperienza viva dei vostri fratelli, dei contadini e degli indigeni, dei lavoratori esclusi e delle famiglie emarginate, sicuramente non sbaglierete.

La Chiesa non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo. Molti sacerdoti e operatori pastorali svolgono un compito enorme accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo, al fianco di cooperative, sostenendo l’imprenditorialità, costruendo alloggi, lavorando con abnegazione nel campo della salute, dello sport e dell’educazione. Sono convinto che la collaborazione rispettosa con i movimenti popolari può potenziare questi sforzi e rafforzare i processi di cambiamento.

Teniamo sempre nel cuore la Vergine Maria, umile ragazza di un piccolo villaggio sperduto nella periferia di un grande impero, una madre senza tetto che seppe trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù con un po’ di panni e una montagna di tenerezza. Maria è un segno di speranza per la gente che soffre le doglie del parto fino a quando germogli la giustizia. Prego la Vergine Maria, così venerata dal popolo boliviano, affinché faccia sì che questo nostro Incontro sia lievito di cambiamento.

3. Infine vorrei che pensassimo insieme alcuni compiti importanti per questo momento storico, perché vogliamo un cambiamento positivo per il bene di tutti i nostri fratelli e sorelle, questo lo sappiamo. Vogliamo un cambiamento che si arricchisca con lo sforzo congiunto dei governi, dei movimenti popolari e delle altre forze sociali, ed anche questo lo sappiamo. Ma non è così facile da definire il contenuto del cambiamento, si potrebbe dire il programma sociale che rifletta questo progetto di fraternità e di giustizia che ci aspettiamo. Non è facile definirlo. In tal senso, non aspettatevi da questo Papa una ricetta. Né il Papa né la Chiesa hanno il monopolio della interpretazione della realtà sociale né la proposta di soluzioni ai problemi contemporanei. Oserei dire che non esiste una ricetta. La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nel quadro di popoli che camminano cercando la propria strada e rispettando i valori che Dio ha posto nel cuore.

Vorrei, tuttavia, proporre tre grandi compiti che richiedono l’appoggio determinante dell’insieme di tutti i movimenti popolari:

3.1. Il primo compito è quello di mettere l’economia al servizio dei popoli: gli esseri umani e la natura non devono essere al servizio del denaro.
Diciamo NO a una economia di esclusione e inequità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa economia distrugge la Madre Terra.
L’economia non dovrebbe essere un meccanismo di accumulazione, ma la buona amministrazione della casa comune. Ciò significa custodire gelosamente la casa e distribuire adeguatamente i beni tra tutti. Il suo scopo non è solo assicurare il cibo o un “decoroso sostentamento”. E nemmeno, anche se sarebbe comunque un grande passo avanti, garantire l’accesso alle “tre t” per le quali voi lottate. Un’economia veramente comunitaria, direi una economia di ispirazione cristiana, deve garantire ai popoli dignità, «prosperità senza escludere alcun bene» (Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et Magistra [15 maggio 1961], 3: AAS 53 (1961), 402). Quest’ultima frase la disse il Papa Giovanni XXIII cinquant’anni fa. Gesù dice nel Vangelo che a chi avrà dato spontaneamente un bicchier d’acqua a un assetato, ne sarà tenuto conto nel Regno dei cieli. Ciò comporta le “tre t”, ma anche l’accesso all’istruzione, alla salute, all’innovazione, alle manifestazioni artistiche e culturali, alla comunicazione, allo sport e alla ricreazione. Un’economia giusta deve creare le condizioni affinché ogni persona possa godere di un’infanzia senza privazioni, sviluppare i propri talenti nella giovinezza, lavorare con pieni diritti durante gli anni di attività e accedere a una pensione dignitosa nell’anzianità. Si tratta di un’economia in cui l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione affinché le capacità e le esigenze di ciascuno trovino espressione adeguata nella dimensione sociale. Voi, e anche altri popoli, riassumete questa aspirazione in un modo semplice e bello: “vivere bene” – che non è lo stesso che “passarsela bene”.

Questa economia è non solo auspicabile e necessaria, ma anche possibile. Non è un’utopia o una fantasia. È una prospettiva estremamente realistica. Possiamo farlo. Le risorse disponibili nel mondo, frutto del lavoro intergenerazionale dei popoli e dei doni della creazione, sono più che sufficienti per lo sviluppo integrale di «ogni uomo e di tutto l’uomo» (Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], 14: AAS 59 (1967), 264). Il problema, invece, è un altro. Esiste un sistema con altri obiettivi. Un sistema che oltre ad accelerare in modo irresponsabile i ritmi della produzione, oltre ad incrementare nell’industria e nell’agricoltura metodi che danneggiano la Madre Terra in nome della “produttività”, continua a negare a miliardi di fratelli i più elementari diritti economici, sociali e culturali. Questo sistema attenta al progetto di Gesù, contro la Buona Notizia che ha portato Gesù.

L’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è semplice filantropia. E’ un dovere morale. Per i cristiani, l’impegno è ancora più forte: è un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro. La destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa. E’ una realtà antecedente alla proprietà privata. La proprietà, in modo particolare quando tocca le risorse naturali, dev’essere sempre in funzione dei bisogni dei popoli. E questi bisogni non si limitano al consumo. Non basta lasciare cadere alcune gocce quando i poveri agitano questo bicchiere che mai si versa da solo. I piani di assistenza che servono a certe emergenze dovrebbero essere pensati solo come risposte transitorie, occasionali. Non potrebbero mai sostituire la vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale.

In questo cammino, i movimenti popolari hanno un ruolo essenziale, non solo nell’esigere o nel reclamare, ma fondamentalmente nel creare. Voi siete poeti sociali: creatori di lavoro, costruttori di case, produttori di generi alimentari, soprattutto per quanti sono scartati dal mercato mondiale.

Ho conosciuto da vicino diverse esperienze in cui i lavoratori riuniti in cooperative e in altre forme di organizzazione comunitaria sono riusciti a creare un lavoro dove c’erano solo scarti dell’economia idolatrica. E ho visto che alcuni sono qui. Le imprese recuperate, i mercatini liberi e le cooperative di raccoglitori di cartone sono esempi di questa economia popolare che emerge dall’esclusione e, a poco a poco, con fatica e pazienza, assume forme solidali che le danno dignità. Come è diverso questo rispetto al fatto che gli scartati dal mercato formale siano sfruttati come schiavi!

I governi che assumono come proprio il compito di mettere l’economia al servizio della gente devono promuovere il rafforzamento, il miglioramento, il coordinamento e l’espansione di queste forme di economia popolare e di produzione comunitaria. Ciò implica migliorare i processi di lavoro, provvedere infrastrutture adeguate e garantire pieni diritti ai lavoratori di questo settore alternativo. Quando Stato e organizzazioni sociali assumono insieme la missione delle “tre t” si attivano i principi di solidarietà e di sussidiarietà che permettono la costruzione del bene comune in una democrazia piena e partecipativa.

3.2. Il secondo compito è quello di unire i nostri popoli nel cammino della pace e della giustizia.
I popoli del mondo vogliono essere artefici del proprio destino. Vogliono percorrere in pace la propria marcia verso la giustizia. Non vogliono tutele o ingerenze in cui il più forte sottomette il più debole. Chiedono che la loro cultura, la loro lingua, i loro processi sociali e le loro tradizioni religiose siano rispettati. Nessun potere di fatto o costituito ha il diritto di privare i paesi poveri del pieno esercizio della propria sovranità e, quando lo fanno, vediamo nuove forme di colonialismo che compromettono seriamente le possibilità di pace e di giustizia, perché «la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli, in particolare il diritto all’indipendenza» (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 157).
I popoli dell’America Latina hanno partorito dolorosamente la propria indipendenza politica e, da allora, portano avanti quasi due secoli di una storia drammatica e piena di contraddizioni cercando di conquistare la piena indipendenza.
In questi ultimi anni, dopo tante incomprensioni, molti Paesi dell’America Latina hanno visto crescere la fraternità tra i loro popoli. I governi della regione hanno unito le forze per far rispettare la propria sovranità, quella di ciascun Paese e quella della regione nel suo complesso, che in modo così bello, come i nostri antichi padri, chiamano la “Patria Grande”. Chiedo a voi, fratelli e sorelle dei movimenti popolari, di avere cura e di accrescere questa unità. Mantenere l’unità contro ogni tentativo di divisione è necessario perché la regione cresca in pace e giustizia.

Nonostante questi progressi, ci sono ancora fattori che minano lo sviluppo umano equo e limitano la sovranità dei paesi della “Patria Grande” e di altre regioni del pianeta. Il nuovo colonialismo adotta facce diverse. A volte, è il potere anonimo dell’idolo denaro: corporazioni, mutuanti, alcuni trattati chiamati “di libero commercio” e l’imposizione di mezzi di “austerità” che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri. Come Vescovi latino-americani lo denunciamo molto chiaramente nel Documento di Aparecida, quando affermano che «le istituzioni finanziarie e le imprese transnazionali si rafforzano fino al punto di subordinare le economie locali, soprattutto indebolendo gli Stati, che appaiono sempre più incapaci di portare avanti progetti di sviluppo per servire le loro popolazioni» (V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano [2007], Documento conclusivo, 66). In altre occasioni, sotto il nobile pretesto della lotta contro la corruzione, il traffico di droga e il terrorismo – gravi mali dei nostri tempi che richiedono un intervento internazionale coordinato – vediamo che si impongono agli Stati misure che hanno poco a che fare con la soluzione di queste problematiche e spesso peggiorano le cose.
Allo stesso modo, la concentrazione monopolistica dei mezzi di comunicazione che cerca di imporre alienanti modelli di consumo e una certa uniformità culturale è un altro modalità adottata dal nuovo colonialismo. Questo è  il colonialismo ideologico. Come dicono i Vescovi dell’Africa, molte volte si pretende di convertire i paesi poveri in «pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Ecclesia in Africa [14 settembre 1995], 52: AAS 88 [1996], 32-33; cfr Lett. enc. Sollicitudo rei socialis [30 dicembre 1987], 22: AAS 80 [1988], 539).

Occorre riconoscere che nessuno dei gravi problemi dell’umanità può essere risolto senza l’interazione tra gli Stati e i popoli a livello internazionale. Ogni atto di ampia portata compiuto in una parte del pianeta si ripercuote nel tutto in termini economici, ecologici, sociali e culturali. Persino il crimine e la violenza si sono globalizzati. Pertanto nessun governo può agire al di fuori di una responsabilità comune. Se vogliamo davvero un cambiamento positivo, dobbiamo accettare umilmente la nostra interdipendenza, cioè la nostra sana interdipendenza. Ma interazione non è sinonimo di imposizione, non è subordinazione di alcuni in funzione degli interessi di altri. Il colonialismo, vecchio e nuovo, che riduce i paesi poveri a semplici fornitori di materie prime e manodopera a basso costo, genera violenza, povertà, migrazioni forzate e tutti i mali che abbiamo sotto gli occhi… proprio perché mettendo la periferia in funzione del centro le si nega il diritto ad uno sviluppo integrale. E questo, fratelli, è inequità, e l’inequità genera violenza che nessuna polizia, militari o servizi segreti sono in grado di fermare.
Diciamo NO, dunque, a vecchie e nuove forme di colonialismo. Diciamo SÌ all’incontro tra popoli e culture. Beati coloro che lavorano per la pace.
Qui voglio soffermarmi su una questione importante. Perché qualcuno potrà dire, a buon diritto, “quando il Papa parla di colonialismo dimentica certe azioni della Chiesa”. Vi dico, a malincuore: si sono commessi molti e gravi peccati contro i popoli originari dell’America in nome di Dio. Lo hanno riconosciuto i miei predecessori, lo ha detto il CELAM, il Consiglio Episcopale Latinoamericano, e lo voglio dire anch’io. Come san Giovanni Paolo II, chiedo che la Chiesa «si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli» (Bolla Incarnationis mysterium [29 novembre 1998], 11: AAS 91 [1999], 140). E desidero dirvi, vorrei essere molto chiaro, come lo era san Giovanni Paolo II: chiedo umilmente perdono, non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America. E insieme a questa richiesta di perdono, per essere giusti, chiedo anche che ricordiamo migliaia di sacerdoti e vescovi, che opposero fortemente alla logica della spada con la forza della Croce. Ci fu peccato, ci fu peccato e abbondante, ma non abbiamo chiesto perdono, e per questo chiediamo perdono, e chiedo perdono, però là, dove ci fu il peccato, dove ci fu abbondante peccato, sovrabbondò la grazia mediante questi uomini che difesero la giustizia dei popoli originari.
Chiedo anche a tutti voi, credenti e non credenti, di ricordarvi di tanti vescovi, sacerdoti e laici che hanno predicato e predicano la Buona Notizia di Gesù con coraggio e mansuetudine, rispetto e in pace – ho detto vescovi, sacerdoti e laici; non mi voglio dimenticare delle suore, che anonimamente percorrono i nostri quartieri poveri portando un messaggio di pace e di bene -, che nel loro passaggio per questa vita hanno lasciato commoventi opere di promozione umana e di amore, molte volte a fianco delle popolazioni indigene o accompagnando i movimenti popolari anche fino al martirio. La Chiesa, i suoi figli e figlie, sono una parte dell’identità dei popoli dell’America Latina. Identità che, sia qui che in altri Paesi, alcuni poteri sono determinati a cancellare, talvolta perché la nostra fede è rivoluzionaria, perché la nostra fede sfida la tirannia dell’idolo denaro. Oggi vediamo con orrore come il Medio Oriente e in altre parti del mondo si perseguitano, si torturano, si assassinano molti nostri fratelli a causa della loro fede in Gesù. Dobbiamo denunciare anche questo: in questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta – forzo il termine – di genocidio in corso che deve fermarsi.
Ai fratelli e alle sorelle del movimento indigeno latinoamericano, lasciatemi esprimere il mio più profondo affetto e congratularmi per la ricerca dell’unione dei loro popoli e delle culture; unione che a me piace chiamare “poliedro”: una forma di convivenza in cui le parti mantengono la loro identità costruendo insieme una pluralità che, non mette in pericolo, bensì rafforza l’unità. La loro ricerca di questo multiculturalismo, che combina la riaffermazione dei diritti dei popoli originari con il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati, ci arricchisce e ci rafforza tutti.

3.3. Il terzo compito, forse il più importante che dobbiamo assumere oggi, è quello di difendere la Madre Terra.
La casa comune di tutti noi viene saccheggiata, devastata, umiliata impunemente. La codardia nel difenderla è un peccato grave. Vediamo con delusione crescente che si succedono uno dopo l’altro vertici internazionali senza nessun risultato importante. C’è un chiaro, preciso e improrogabile imperativo etico ad agire che non viene soddisfatto. Non si può consentire che certi interessi – che sono globali, ma non universali – si impongano, sottomettano gli Stati e le organizzazioni internazionali e continuino a distruggere il creato. I popoli e i loro movimenti sono chiamati a far sentire la propria voce, a mobilitarsi, ad esigere – pacificamente ma tenacemente – l’adozione urgente di misure appropriate. Vi chiedo, in nome di Dio, di difendere la Madre Terra. Su questo argomento mi sono debitamente espresso nella Lettera enciclica Laudato si’, che credo vi sarà consegnata alla fine.
4. Per terminare, vorrei dire ancora una volta: il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento. Io vi accompagno. E ciascuno, ripetiamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessun popolo senza sovranità, nessuna persona senza dignità, nessun bambino senza infanzia, nessun giovane senza opportunità, nessun anziano senza una venerabile vecchiaia. Proseguite nella vostra lotta e, per favore, abbiate molta cura della Madre Terra. Credetemi, sono sincero, lo dico dal cuore: prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio nostro Padre di accompagnarvi e di benedirvi, che vi colmi del suo amore e vi difenda nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci fa stare in piedi: quella forza è la speranza. E una cosa importante: la speranza non delude! E, per favore, vi chiedo di pregare per me. E se qualcuno di voi non può pregare, con tutto rispetto, gli chiedo che mi pensi bene e mi mandi “buona onda”. Grazie!

(dal sito: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/july/documents/papa-francesco_20150709_bolivia-movimenti-popolari.html)

La “banda d’italia”, la super casta di intoccabili che governa i nostri soldi.
Un libro di Chiarelettere

 

La banda d'Italia Lannutti

IL LIBRO

Un libro, appena uscito nelle librerie, che denuncia gli ABUSI all’interno della BANCA D’ITALIA, quell’organismo che dovrebbe vigilare, sopra tutti, in un rapporto di indipendenza anche dal governo, sulla correttezza del mondo bancario per salvaguardare l’economia italiana e i soldi dei risparmiatori. Invece…

Questo libro dimostra, DOCUMENTI ALLA MANO, che proprio dove i controlli dovrebbero essere garantiti, c’è il massimo dell’opacità: un cono d’ombra che copre i troppi privilegi (i MAXI GUADAGNI del governatore e del Direttorio), le spese esorbitanti (ben 7000 dipendenti che costano più di un miliardo all’anno) e i sistematici conflitti d’interesse a danno dei correntisti ignari, in un gioco in cui controllori e controllati sono dalla stessa parte.

Sprechi (carte di credito per spese personali), privilegi (affitti regalati), favoritismi parentali (cariche tramandate DA PADRE IN FIGLIO) fanno dei dipendenti della Banca d’Italia una vera SUPERCASTA intoccabile. Nessuno, tanto meno la stampa, osa attaccarli. Eppure gli scandali non visti da via Nazionale sono tanti: da Parmalat a Mps, a Carige, fino alle banche più piccole.

I banchieri indagati sono troppi: com’è possibile? Nessun governatore si accorge di nulla: né Ciampi, né Draghi, né Visco. Poche le sanzioni, lievi e tardive. Intanto il denaro arriva a chi ce l’ha già o ha potere da far valere mentre i clienti normali pagano conti correnti e mutui più di tutti gli altri cittadini europei. Nessuno ha il coraggio e la forza di intervenire. FINO A QUANDO?

L’autore

Elio Lannutti (1948), ex bancario, giornalista e scrittore, nel 2008 è stato eletto al Senato come indipendente nelle liste Idv. Fondatore (1987) della Adusbef, l’associazione che difende gli utenti dei servizi bancari e finanziari, ha denunciato la lunga catena di scandali e la connivenza delle autorità di controllo (Consob e Bankitalia in primis). È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali: EURO, LA RAPINA DEL SECOLO; I FURBETTI DEL QUARTIERINO (entrambi con Michele Gambino, Editori Riuniti); LA REPUBBLICA DELLE BANCHE (Arianna Editrice), prefazione di Beppe Grillo; BANKSTER (Editori Riuniti); CLEPTOCRAZIA (Imprimatur);
DIARIO DI UN SENATORE DI STRADA (Castelvecchi). Ha collaborato con importanti riviste e quotidiani tra cui “Il Messaggero” (1988-1991), “la Repubblica-Affari & Finanza” (1990-1993), “Avvenimenti”, che ha fondato, (1988-1999).

Per gentile concessione dell’Editore un estratto dell’introduzione del libro.

Nella polvere. E nel fango
Bankitalia, la più importante e antica istituzione della Repubblica, fondata subito dopo l’Unità d’Italia, ha disonorato il proprio nome. L’istituto di via Nazionale, che si era guadagnato un prestigio indiscutibile offrendo alla Repubblica italiana e al governo dirigenti stimati poi diventati capi di Stato (Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi), presidenti del Consiglio (Lamberto Dini) e ministri del Tesoro (Guido Carli, Tommaso Padoa Schioppa, Fabrizio Saccomanni), è caduto nella polvere e nel fango.
Questo libro, grazie a ricerche e documenti inoppugnabili, tenta di descrivere il mutamento genetico della Banca d’Italia, passata in pochi anni da guardiana della moneta e del mercato bancario a un simulacro della vigilanza, incapace di prevenire crac e dissesti, arrivando sempre dopo la magistratura e accampando come ridicola giustificazione il meschino ritornello: «Noi non siamo poliziotti!».
Quando è iniziato il declino? Quale la data nera da cercare sul calendario della storia economica e finanziaria del nostro paese?
Le avvisaglie c’erano da tempo, ma chi scrive ritiene che il momento di svolta e di rottura definitiva con la gloriosa storia di questa istituzione sia da cercare nel dicembre del 2003, quando i «severi controllori» non si accorgono del crac Parmalat, il più grave scandalo industriale di Calisto Tanzi che aveva bruciato 14 miliardi di euro, con la Centrale rischi di Bankitalia che avallava Riba (ricevute bancarie) fasulle per 3 miliardi di euro. Da allora è stato un crescendo rossiniano di «disattenzioni».
Nel 2004 via Nazionale assiste impassibile e distratta alle scalate estive dei «furbetti del quartierino» che portarono il 19 dicembre 2005 alle dimissioni del governatore Antonio Fazio travolto da «Bancopoli». Nel febbraio del 2013 la polvere diventa melma maleodorante quando l’ex presidente di Abi (Associazione bancaria italiana) e Monte dei Paschi di Siena, Giuseppe Mussari, è costretto a dimettersi, seppellito sotto le macerie di un crac di 4,1 miliardi di euro. Tre gravissimi scandali che hanno segnato la storia di un milione di famiglie truffate. E tre governatori (Fazio, Draghi, Visco) sulla tolda di comando di quella che da celebre e onorata Amerigo Vespucci del sistema finanziario è diventata una spericolata nave pirata. Con le sue regole, i suoi segreti, le sue connivenze sfociate in omertà.
«Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l’unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri» affermava Joseph Pulitzer, il celebre giornalista statunitense di origini ungheresi ideatore dell’omonimo premio. Molti atti «carbonari» hanno gettato nel ridicolo credibilità e prestigio della Banca d’Italia, che invece di servire sempre l’interesse generale del paese e il bene comune, è stata troppe volte asservita agli esclusivi interessi delle banche socie, di cricche e combriccole amicali, andando a braccetto con i banchieri e con l’Abi, promuovendo la politica creditizia a misura dei più forti con i commissariamenti e rendendosi così complice di usi, abusi, vessazioni e ordinari soprusi. Come la legge antiusura, l’anatocismo bancario, la commissione di massimo scoperto, il vasto e diffuso fenomeno del risparmio tradito, consumati sulla pelle di utenti e risparmiatori.

Elio Lannutti, LA BANDA D’ITALIA, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 164. € 13,00