“Questa Legge di stabilità è da sinistra riformista”. Intervista a Giorgio Tonini

 

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Torna la tensione nel PD. Questa volta la polemica, tra sinistra Dem e la maggioranza renziana , riguarda la manovra finanziaria (legge di stabilità). Ne parliamo con Giorgio Tonini, vice-presidente del gruppo PD al Senato.

Senatore Tonini, parliamo della “manovra” (legge di stabilità). Il Presidente del Consiglio, in un eccesso di trionfalismo, ha affermato: questa è una “manovra” di sinistra (!?). francamente, senatore, non è un po’ troppo propagandistico fare una simile affermazione quando, per esempio, i sindacati hanno espresso forti critiche. Per non parlare, poi, della sinistra del suo partito. può spiegarmi come sia di sinistra una “manovra” che ha il trionfale appoggio di Alfano e Verdini?
Altrettanto francamente: questo giochino sulla manovra di sinistra o di destra sta diventando stucchevole. Anche perché si basa sul giudizio su alcune misure, prese singolarmente e non linquadrate in un contesto strategico complessivo. Del resto, come diceva Deng-Xiao-Ping, non conta il colore del gatto, conta che prenda il topo. Dunque, quel che conta è se la manovra fa bene o no all’Italia, agli italiani e in particolare ai più deboli. Detto questo, se proprio vogliamo sottoporci al giochino, io penso che quella annunciata da Renzi sia una manovra di sinistra, beninteso di sinistra riformista, per il semplice fatto che è la manovra più espansiva possibile, restando dentro le regole europee: sia quella del deficit, che quella del debito. Ed essere di sinistra (riformista) oggi concretamente significa proprio essere europeisti e battersi per una politica economica europea di segno espansivo e non restrittivo. Tutto il resto, dal punto di vista politico, sono dettagli. Importanti quanto si vuole, ma dettagli.

Veniamo al capitolo molto controverso: l’abolizione della tassa sulla prima casa a tutti, con il rischio assai elevato di favorire i più ricchi e con scarse ricadute sui consumi. Per non parlare delle pesanti ricadute sui bilanci comunali. Insomma un poco di prudenza non guasta…
L’abolizione della tassa sulla prima casa presenta indubbiamente qualche controindicazione. Non tanto sul terreno dell’equità sociale (il grosso dell’impegno finanziario si concentra sul ceto medio, non di certo sui ricchi), quanto su quello del federalismo fiscale. La tassa sulla prima casa dovrebbe infatti rappresentare una componente del finanziamento ordinario dei comuni, particolarmente importante in termini non tanto quantitativi, quanto qualitativi, perché su di essa si basa il patto fiscale tra amministratori e amministrati a livello comunale. La tassa sulle seconde case, o i trasferimenti statali possono certamente compensare il mancato gettito dalla prima casa (che è una quota-parte in definitiva modesta della imposizione sugli immobili), ma difficilmente possono surrogarlo in termini di qualità della relazione democratica tra i sindaci e i loro cittadini. Ma in questa fase il governo è alle prese con tutt’altra emergenza, quella di sostenere una ripresa economica ancora flebile. E dopo aver concentrato gli sforzi su impresa e lavoro (15 miliardi di sgravio tra 80 euro e taglio dell’Irap), quest’anno punta ad alleggerire il peso fiscale sulle famiglie, cancellando per tutti la tassa sulla prima casa: un provvedimento che costa relativamente poco (3,5 miliardi) e dovrebbe rendere molto in termini di fiducia e dunque di propensione al consumo.

Non parliamo, poi, delle risorse sugli statali e sul mezzogiorno. Anche questa è una beffa…
Non è vero che manchino le risorse per il Mezzogiorno: basti pensare che 7 degli 11 miliardi del piano infrastrutture saranno destinati a opere da realizzare nel Sud. Quanto agli statali, in tempi di inflazione vicina o addirittura sotto allo zero, c’è poco da recuperare su quel versante. Ci sono invece ampi margini di incremento salariale se si punta sulla produttività: cifrando i risparmi da ottenere con la riforma Madia e con la spending review e distribuendone una quota significativa ai dipendenti pubblici che se ne rendano protagonisti.

Insomma Senatore, Renzi andrà pure come un treno, ma resta sempre la voglia di entrare in conflitto con la sinistra. Giova tutto questo?
Una dialettica, a volte anche aspra, tra sinistra riformista e innovatrice e sinistra tradizionale e conservatrice, c’è in tutti i grandi partiti di centrosinistra, in tutto il mondo. Ma come da ultimo ha dimostrato il caso greco, la sinistra vince e governa solo quando in essa prevale la cultura riformista e di governo. In caso contrario, la sinistra si riduce ad un ruolo di testimonianza…

Veniamo al partito. Richetti e Del Rio hanno messo sul chi va là di trasformare il PD Partito della Nazione. Clamorosa poi l’intervista di Cicchitto all’Huffington Post, con la proposta dei moderati per Renzi… Insomma non trova che si sia superato il limite?
Quale limite? A me risulta che nel Pd siano entrati solo esponenti di Sel e di Scelta Civica, questi ultimi in gran parte di provenienza già pd. È vero invece che c’è un gran movimento nell’area ex-PdL. Un vero e proprio via vai tra chi esce (pochi) e chi pensa di entrare (molti) nell’area della maggioranza di governo. E tuttavia, non si deve mai dimenticare che all’inizio della legislatura, quando Bersani e Berlusconi diedero vita al governo Letta-Alfano, tutto l’allora PdL era in maggioranza e al governo. Poi si sono divisi e continuano a dividersi tra loro, tra chi è pro e chi è contro il governo col Pd. Noi dobbiamo guardare con grande rispetto a questo travaglio, che probabilmente segnala una metamorfosi profonda del bipolarismo italiano. Una metamorfosi che il Pd deve guidare, come sta facendo, e non rassegnarsi a subire.

Ultima domanda: il Movimento 5stelle, stando agli ultimi sondaggi, si sta avvicinando al PD. A questo punto come pensate di contrastare l’avvicinamento dei “pentastellati”?
Come abbiamo fatto fin qui. Cercando il consenso di tutti gli italiani che vogliono il cambiamento, ma dentro un quadro affidabile e sicuro. E non sono disponibili a precipitare nell’avventura, facendo prevalere la rabbia sulla speranza.

 

 

“Toglimi le mani di dosso”: un libro su una storia vera di molestie e ricatti sul lavoro

Olga Ricci

“La violenza di genere nasce quando qualcuno dice chi sei al posto tuo, ti racconta come una decorazione muta e giudicabile, ti descrive come un oggetto a disposizione” (Michela Murgia)

“Sarebbe bello se gli uomini italiani provassero a immedesimarsi nella storia vera di questa giovane e coraggiosa collega. capirebbero meglio l’inferno di sofferenze, ricatti e vendette cui costringiamo le donne sui posti di lavoro. Un libro che parla a noi uomini” (Riccardo Iacona).

Due pensieri, di un giornalista e di una scrittrice, ci introducono al tema drammatico e grave del libro (pubblicato da Chiarelettere): quello delle molestie e ricatti sessuali che le donne subiscono sul luogo di lavoro.

IL LIBRO

POCHE DENUNCE, TROPPA VERGOGNA. Il racconto di Olga Ricci rompe il muro di silenzio e di ipocrisia che attraversa i luoghi di lavoro. “Il mio capo ci provava, ho resistito, avevo bisogno di lavorare. Non sapevo a chi chiedere aiuto. Poi ho mollato…”

Olga ha ricevuto avance e ricatti sessuali per mesi, in attesa di un contratto sempre promesso. Per non perdere il lavoro, ha cercato di resistere come ha potuto. “O ci stai, o te ne vai” il consiglio di colleghe e confidenti.

Tutto avviene, come sempre, in pubblico. Ammiccamenti, carezze, inviti a cena… Gesti apparentemente inoffensivi che invece servono a imporre IL POTERE DEL CAPO.

IN PRIVATO l’insistenza diventa ossessione violenta, ma la rabbia di Olga resta tutta dentro. In Italia nessuno considera molestie le battute a sfondo sessuale in ufficio, i massaggi sulle spalle, i complimenti imbarazzanti davanti ai colleghi. Chi si ribella passa per bacchettone.

Oggi Olga ha aperto un blog sotto pseudonimo. Si chiama IL PORCO AL LAVORO e ha avuto oltre 120.000 visite.

QUESTO LIBRO PARLA DI NOI, dell’Italia e del potere nelle relazioni e nei luoghi di lavoro. Della pigrizia mentale, di una rimozione collettiva e soprattutto della persistente disparità tra gli uomini e le donne, che continuano a essere penalizzate a livello economico e sociale.

L’autrice

Olga Ricci è lo pseudonimo di una giornalista trentenne italiana che oggi lavora come freelance per varie testate nazionali. Nel blog “Il porco al lavoro”, insieme alla sua testimonianza, ha dato visibilità alle tante storie di molestie in ufficio.

Chiude il libro un DECALOGO CONTRO LE MOLESTIE SUL POSTO DI LAVORO a cura di Rosa M. Amorevole, esperta in materia di lavoro e contrasto alle discriminazioni. Dal 2008 è consigliera di Parità per l’Emilia Romagna.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del libro. 

In redazione

Cammino cercando di essere fiduciosa: è il mio primo giorno di prova al giornale e ho la prospettiva di un contratto a tempo indeterminato. Significherebbe stipendio dignitoso, ferie pagate, malattia, maternità, pensione. Potrei iniziare a fare progetti, senza chiudermi nell’orizzonte temporale dei soliti sei mesi. È così che mi sono abituata a ragionare, per non essere lacerata dall’incertezza. I sei mesi sono le colonne d’Ercole del mio futuro sprovvisto di garanzie e di soldi messi da parte. Sto per arrivare in redazione quando squilla il telefono. È il direttore, mi chiede di fare colazione con lui. Rifiuto, ma lui insiste per raggiungermi in un bar, nel viale stretto tra gli edifici bianchi, le palme e gli oleandri. Mi vede e si avvicina per baciarmi le guance. La sua pelle fredda mi si appiccica agli zigomi. Mi ritraggo e colgo il suo disappunto. Per non deluderlo gli regalo un sorriso nuovo di zecca. Ci sediamo a un tavolino all’aperto. Lui è in vena di confessioni. Racconta di quando era inviato e girava l’Europa per il suo giornale importante. Appena aveva un po’ di tempo libero, inseguiva per il mondo la fidanzata (l’amore della sua vita) che faceva la hostess. Parla molto e io lo ascolto, annuendo e dicendo: maddai, assì, chebbello, nonlosapevo. Ostento interesse e d’un tratto mi sorprendo interessata per davvero. La profezia sartriana, secondo la quale chi finge un sentimento è come se lo provasse, si sta avverando. Dico che è ora di andare. Sono io il direttore, ribatte, non devi preoccuparti di arrivare tardi, beviamoci ancora qualcosa. Chiedo un secondo caffè. Lui un tramezzino con gamberetti, maionese e insalata iceberg. Gli suona il cellulare. Si alza e si allontana. Apro i giornali sparsi sul tavolo, ma non riesco a leggere. Piego la bustina vuota dello zucchero fino a ridurla a un quadratino. La lancio sul marciapiede. Vedo che il direttore parla ancora. Faccio un cenno, me ne voglio andare. Lui sorride e, coprendo il telefono con una mano, mi chiede di aspettare. Resisto altri dieci minuti. Guardo la sua schiena allargata, la giacca blu di cotone forma pieghe umide all’altezza delle ascelle. Lui si gira. Io mi alzo. Protesta a gesti. Sono già lontana. Entro in redazione cercando di farmi piccola. Non conosco nessuno. […]

Nello stanzone senza finestre, illuminato al neon, c’è un tavolo ovale. Il direttore troneggia sulla sua poltrona mentre attorno i caporedattori e i capiservizio aspettano che parli di come organizzare il giornale, dalle pagine nazionali a quelle locali. Un discorso di un’ora infarcito di considerazioni sull’attualità e i massimi sistemi. A un certo punto sento il mio nome. Vedo che mi indica. Mi strizza l’occhio destro. Dice: da oggi qui con noi ci sarà Olga Ricci, la nostra nuova inviata. Seguirà gli eventi più importanti, in Italia e all’estero. Sessanta occhi si spalancano all’unisono e trenta bocche alitano incredulità e risentimento. Ho un capogiro. Vedo il comune pensiero astioso: chissà da dove viene questa raccomandata che ci passa davanti. Ricambio gli sguardi stupefatti con un sorriso abbozzato, facendo spallucce. Vorrei dire: non so di cosa stia parlando il direttore, non è possibile che io sia stata nominata inviata, non ho nemmeno un contratto. Ma resto in silenzio. Abbasso la testa e guardo il pavimento di piastrelle grigie a buon mercato fino alla fine della riunione.

Olga Ricci, TOGLIMI LE MANI DI DOSSO, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 144