SE NASCE UN BAMBINO,VUOL DIRE CHE DIO CREDE ANCORA NELL’ESSERE UMANO. Un testo natalizio di Leonardo Boff

San Jose, COSTA RICA: Brazilian Franciscan father Leonardo Boff, one of the greatest exponents of the Liberation Theology gives, an interview to an university newspaper 14 March, 2007 in San Pedro, east from San Jose. Boff said that the warning issued to Spanish Jesuit Jon Sobrino will stir the debate around the liberation theory, still pretty alive in the world. Sobrino's books, widely distributed in the heavily Catholic region, contain passages that are "either erroneous or dangerous and may cause harm to the faithful," the Vatican said, issuing a warning "notification" but stopping short of condemning him.   AFP PHOTO / Mayela LOPEZ (Photo credit should read MAYELA LOPEZ/AFP/Getty Images)

San Jose, COSTA RICA: l’ex frate francescano brasiliano, Leonardo Boff, in una foto del 2007 (MAYELA LOPEZ/AFP/Getty Images)

Pubblichiamo questa intensa riflessione natalizia del Teologo brasiliano della liberazione Leonardo Boff*

Siamo sotto Natale, ma non c’è atmosfera di festa. Piuttosto tira aria di venerdì santo.Tante sono le crisi, gli attentati terroristici, le guerre che, insieme, potenze bellicose e militariste (USA, Francia, Russia e Germania) scatenano contro lo stato islamico. Hanno semidistrutto la Siria, che ora affronta una spaventosa mortalità di civili e bambini come la stessa stampa ha fatto vedere. Atmosfera contaminata da rancori e spirito di vendetta nella politica brasiliana, per non dire dei livelli astronomici di corruzione: tutto questo spegne le luci di Natale, fa appassire gli alberi di Natale che dovrebbero creare   un’atmosfera di allegria e di innocenza infantile che ancora persiste in qualsiasi persona umana.

         Chi ha potuto assistere al film Bambini Invisibili, in sette scene differenti, diretto da famosi registi come Spike Lee, Katia Lund, John Woo tra gli altri, ha potuto rendersi conto della vita distrutta di bambini di varie parti del mondo, condannate a vivere di rifiuti e nei rifiuti; e anche così ci sono scene commoventi di cameratismo, di piccole gioie negli occhi tristi e di solidarietà tra di loro.

         E pensare che sono milioni oggi nel mondo e che lo stesso Bambino Gesù, secondo i testi biblici è nato in una grotta e messo in una greppia, luoghi riservati ad animali, perché Maria,  prossima a partorire, non aveva trovato posto in nessuna locanda di Betlemme. Lui si è mescolato al destino di tutti questi bambini maltrattati dalla nostra insensibilità.

         Anni dopo, questo stesso Gesù già grande dirà: “Chi riceverà questi miei piccoli fratelli e sorelle, riceverà me”. Il Natale si realizza quando avviene l’accoglienza come quella che il Padre Lancellotti organizza in S.Paolo per centinaia di bambini di strada sotto un viadotto e che ha potuto contare per molti anni sulla presenza del Presidente  Lula. In mezzo a questa ondata di disgrazie, nel mondo e in Brasile mi viene in mente un pezzo di legno con la scritta a fuoco che un malato di un ospedale psichiatrico dello Stato di Minas Gerais (BR) mi consegnò in occasione di una visita compiuta da me per incoraggiare il personale. Ci stava scritto:”Tutte le volte che nasce un bambino, è segno che Dio crede ancora nell’essere umano”.

         Ci sarà mai un atto di fede e di speranza più grande di questo? In alcune culture africane  si dice che Dio abita in forma tutta speciale nelle persone che noi chiamiamo “pazzi”. Per questo sono adottati da tutti e tutti  hanno cura di loro come se si trattasse di un fratello e di una sorella. Per questo sono integrati e vivono pacificamente. La nostra cultura li tiene isolati e non si riconosce in loro.

          Il Natale di quest’anno ci rimanda a una umanità offesa e a tutti i bambini invisibili le cui sofferenze somigliano a quelle del Bambino Gesù, che nell’inverno della campagna di Betlemme, adagiato nella greppia di una stalla, ebbe a tremare di freddo. Secondo un’antica leggenda fu riscaldato dal fiato di un bue e di un asinello che come premio ebbero in seguito restituita la loro piena vitalità.

         E’ bene ricordare il significato religioso del Natale: Dio non è un vecchio barbuto dagli occhi penetranti, che scrutano severi tutte le nostre azioni. E’ un bambino. E come bambino non giudica nessuno. Vuole solo vivere in compagnia e essere accarezzato. Dalla mangiatoia ci arriva questo messaggio:”Oh, creature umane, non abbiate paura di Dio. Non vedete che sua Madre ha fasciato le sue piccole braccia? Lui non minaccia nessuno. Più che aiutare ha bisogno di essere aiutato e portato in braccio”.

         Nessuno  meglio di Fernando Pessoa, il grande poeta portoghese ha compreso il significato umano e la verità del Bambino Gesù.

         “Lui è l’Eterno Bambino, il Dio che mancava. Lui è l’umano che è naturale. Lui è il Divino che sorride e che gioca. E per questo io so con tutta certezza che Lui è il Bambino Gesù vero. E’ la creatura umana così umana che è Divina. Andiamo così d’accordo noi due,in compagnia di tutto, che mai pensiamo l’uno all’altro….Quando io morirò, o Bambino, che io sia il bambino, il più piccolo. Prendimi in braccio e portami a casa tua. Spoglia il mio essere stanco e umano. Mettimi a letto. Contami una storia, che io mi sveglio, per poi dormire di nuovo. E dammi i sogni tuoi perché io possa giocare fino a che io nasca un giorno qualsiasi che tu sai qual 蔑

         Ce la facciamo a contenere l’emozione davanti a tanta bellezza? Per questo vale ancora, nonostante le difficoltà in contrario, celebrare sommessamente il Natale.

         Infine ha ancora un significato l’ultimo messaggio che mi incanta: ”Ogni bambino vuole essere uomo. Ogni uomo vuole essere re. Ogni re vuole essere ‘dio’. Solo Dio vuole essere bambino”.

         Abbracciamoci l’un l’altro come chi abbraccia la Creatura divina che si nasconde in noi e che mai ci ha abbandonato.

         E che il Natale sia ancora una festa sommessamente felice.

*Leonardo Boff, ecoteólogo e columnist del Jornal do Brasil on line

(Traduzione Romano Baraglia e Lidia Arato)

Dal Sito https://leonardoboff.wordpress.com/2015/12/25/se-nasce-un-bambinovuol-dire-che-dio-crede-ancora-nellessere-umano/

Il testo è apparso, anche IN LINGUA portoghese, nella edizione on line del Jornal do Brasil

Tutti gli uomini del Generale. La storia inedita della lotta al terrorismo

Paterniti-Tutti-gli-uomini-del-generaleChi sono gli uomini che hanno combattuto in prima fila il terrorismo negli anni di piombo? Chi sono gli uomini che agli ordini del generale Carlo Alberto dalla Chiesa hanno indagato, rischiato, vissuto come clandestini, servito il Paese e la democrazia, per essere dimenticati dopo l’uccisione del loro comandante passato a combattere la mafia?

Questo libro, “Tutti gli uomini del generale”, da pochi giorni nelle librerie, scritto dalla giornalista  Fabiola Paterniti per la casa editrice Melampo, con la prefazione dell’ex ministro degli interni Virginio Rognoni, racconta per la prima volta la lotta al terrorismo attraverso la voce dei protagonisti che sostennero il peso di un impegno senza limiti. Ne nasce una storia sincera, per molti aspetti nuova. Sono testimonianze orali raccolte in tante regioni d’Italia. Carabinieri semplici, marescialli, ufficiali, restituiscono le tinte di quella stagione e il senso di una difficilissima impresa collettiva, talora smontando con semplicità insinuazioni e ricostruzioni fantasiose che hanno tenuto banco per quasi quarant’anni. Le indagini, gli infiltrati, le vite da clandestini. E poi i successi, i caduti, i momenti di allegria, la fedeltà al loro comandante, che tutti ancora chiamano “il signor generale”.. E infine l’amarezza per essere stati dimenticati, superata dall’orgoglio di avere servito lo Stato.   Insomma è la Storia del Nucleo Speciale antiterrorismo dei Carabinieri.

Il libro è arricchito dalle testimonianze di Gian Carlo Caselli e di Armando Spataro, due magistrati che collaborarono con il generale in inchieste decisive; e si chiude con le storiche interviste che Carlo Alberto dalla Chiesa rilasciò a Enzo Biagi e a Giorgio Bocca, che rilette a distanza di trent’anni rivelano ancora più chiaramente la consapevolezza e il coraggio del generale nell’affrontare i misteri e le doppiezze del nostro Paese.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo due estratti del libro:

Dal Capitolo “L’ufficiale dalla memoria buona. Gian Paolo Sechi. Parte seconda: il dopo Moro”   (pp.94-96)          (ora generale in pensione)

Il generale passa a questo punto, quasi automaticamente, a raccontare di Marco Donat Cattin. Lo fa con la determinazione di chi sa che sta per parlare di una grande storia. Una di quella vicende tipiche della nazione entrate negli annali e nella memoria pubblica per i nomi altisonanti dei protagonisti e per gli scenari umani e politici che fanno loro da sfondo.

“Ricordo bene quando arrestammo il figlio di Carlo Donat Cattin. Da mesi avevo incaricato un mio uomo di pedinare un tizio che ci risultava avesse contatti con Marco Donat Cattin. Un giorno questo presunto amico si recò alla stazione di Torino Porta Nova e salì su un treno diretto in Francia. A quel punto il mio uomo bloccò un signore che passava lì per caso, e gli diede una mancia con la richiesta di farmi arrivare un messaggio nel quale mi informava che stava prendendo il treno per la Francia. Poco dopo questi mi telefonò: ‘Tu sei Boss? – mi chiese – Trucido mi ha detto di chiamarti per dirti che quel tizio è salito su un treno che porta in Francia e, quindi, anche lui è diretto in Francia’. Dopo un po’, ricevetti un’altra telefonata, questa volta erano i carabinieri di Bardonecchia che mi lessero un promemoria che Trucido aveva scritto in treno e consegnato loro. Erano tutte le informazioni che aveva acquisito e che comunicai alla gendarmeria francese. Appena il treno giunse a destinazione, l’uomo che avevamo pedinato raggiunse altra gente. In seguito incontrò Marco Donat Cattin, che così venne arrestato. Quando fu preso tutti fingevano di non capire chi fosse, ma io arrivai in Francia quello stesso pomeriggio. E guardando l’uomo che avevano fermato dissi: ‘Ma questo assomiglia a Donat Cattin’. La mia osservazione naturalmente era ironica, sapevano tutti la sua identità, ma non osavano dirla. Infatti, appena feci quel nome, successe il putiferio. Da quel momento costui venne trattato come il Presidente della Repubblica in visita ufficiale in Francia. Vennero a prenderlo settimane dopo con l’aereo presidenziale, ossia quello che aveva tutte le comodità. Il Governo mandò quest’aereo con un ufficiale che non si occupava di lotta al terrorismo.  Al ritorno in Italia, atterrammo nella base militare di Vicenza, a bordo c’ero io e c’era anche Mario Mori, che faceva parte della nostra struttura. Poi feci salire Donat Cattin su un’auto e lo accompagnai a Torino. Lo chiusi in camera di sicurezza, mentre, in quegli stessi giorni, avevamo Patrizio Peci in un alloggio al piano di sopra”.

Alla Fiat seppero subito del nuovo arrivato. Così molti dirigenti fecero pressioni enormi, andarono a cercare gli uomini del generale con la richiesta di liberarlo o di dargli lo stesso trattamento di Peci. “Puntualizzammo loro che Peci era un pentito e ci stava raccontando tutto dell’organizzazione terroristica di cui faceva parte e quindi era un’altra questione.  Marco Donat Cattin non voleva collaborare”.

Il problema per gli uomini del nucleo era su come tenere le dovute distanze verso il padre, che era stato ministro in diversi governi, ricopriva l’incarico di Vice-Segretario unico della Democrazia Cristiana, ed era dotato di grande potere e influenza. A quel tempo c’era una norma che imponeva loro, per i casi di arresto, di informare subito il Ministro, e così fecero. “Quindi il padre venne a saperlo abbastanza in fretta. E questa vicenda scatenò anche una dura polemica nelle cronache di allora”.

Ma la storia più curiosa che Sechi mi racconta riguarda il periodo precedente, ossia il modo in cui erano arrivati all’illustre terrorista di Prima linea. “Oltre a pedinare l’amico, avevamo seguito anche la madre che da più di un anno sistematicamente prendeva il treno da Torino e scendeva a una stazione vicino Vercelli. Lì incontrava il figlio. Lui le dava un pacco e lei ricambiava con un altro. Sa cosa c’era dentro questi involucri? Biancheria. Sì, proprio così. Lui le dava la biancheria sporca e lei quella pulita. Già un anno prima, quindi, la famiglia sapeva, oltre che della sua militanza in un’organizzazione terroristica, la località in cui si era rifugiato.

Quello che ancora oggi mi dispiace è che un uomo delle istituzioni, come il padre di Marco, non abbia mai preso una posizione netta. Anche se è difficile parlarne ad anni di distanza. Una volta che aveva scoperto il figlio terrorista, avrebbe dovuto essere conseguente. In fondo era stato un Ministro con responsabilità ben precise nei confronti della collettività, ricopriva incarichi pubblici.  Ciò di cui sono sicuro è che lo sapesse già da un anno, ma non fece niente”.   

Dal Capitolo “Giuseppe Severino” (maresciallo),  pp.150-153

Giuseppe Severino sorseggia il suo caffè e, ogni tanto, tira fuori una risata che pare trascinata dai ricordi. Il racconto è spesso frenato dalla paura di dire troppo. In fondo, in questi lunghi anni, la memoria delle gesta degli “uomini del generale” ha subìto storpiature e libere interpretazioni che tuttora pesano sulle loro vite. I riconoscimenti sono stati pochi, mentre tante sono state le letture distorte della loro attività. Per fortuna li sorregge lo spirito di squadra: la grande risorsa che gli uomini del nucleo avevano creato in quegli anni, è ancora vivo, e ancora dà forza. Per questo, Severino fa in modo che il suo racconto torni sempre sul generale: “è morto in solitudine, se fossimo stati noi a difenderlo, non sarebbe successo. Quando veniva da queste parti e si fermava a prendere un caffè, ci chiedeva di lasciarlo da solo, non voleva che mettessimo a rischio la nostra vita per lui. Quindi, dopo tanta insistenza, lui entrava al bar e noi lo guardavamo a distanza di cinque o sei metri. Sapevamo di dover tenere gli occhi ben aperti. Io non dormivo la notte per questo lavoro, non vedevo la mia famiglia per molto tempo, mancavo spesso da casa, anche per 15 o 20 giorni di seguito”. Severino era a capo delle sedi di Parma, di Piacenza, di Reggio Emilia e di Modena. Un’area cruciale per l’antiterrorismo: in quelle provincie furono identificati parecchi brigatisti e sbaragliati numerosi covi. Ha collaborato direttamente con il generale anche quando questi costituì le carceri speciali: “I nostri uffici a quel tempo erano a Roma, sulla Salaria. Hanno mitragliato i muri della sede tante volte. Non si può avere idea di quale fosse il clima a quel tempo”. Il periodo del terrorismo l’ha segnato. Mentre parla si ferma a riflettere, come volesse capire se sta dicendo qualcosa di troppo. Ha il timore che le sue parole possano giovare a nuovi “sciacalli per infangare il nome del generale”.

Continua a voler essere un fantasma, come gli era stato richiesto in quegli anni del terrorismo, quando il suo nome di battaglia era “Seve” e il nome con il quale si presentava ai comuni mortali rimaneva tale, ma con un’aggiunta: geometra Severino. E, in effetti, quel “geometra” davanti al cognome sembra anticipare l’anonimato in cui si sarebbe immerso dopo i duri anni di servizio per lo Stato. Lontano dalla stampa, dal chiacchiericcio pettegolo dei palazzi del potere e dalle malevolenze di chi preferiva ricostruire la storia dell’antiterrorismo con le proprie fisime anziché con i fatti. Ma del generale non si stanca mai di parlare, perché è l’uomo che gli ha consentito di conoscere la parte bella dello Stato: “Lui è stato sempre presente nelle nostre vite. Ci chiamava al telefono, parlava con mia moglie. Spesso ci scriveva. Ho conservato gelosamente tutte le sue lettere. Mi cercò persino prima della sua morte, credo sia stata l’ultima telefonata, ma io non c’ero. E ricordo, ancora, dove mi trovavo in quel momento. Lui sapeva perfettamente chi lavorava e chi erano le persone fidate. Un giorno ha fatto neri alcuni ufficiali che non avevano rispettato le regole, in quell’occasione avrei voluto sprofondare dalla vergogna per loro, il generale fu durissimo. Era una persona seria, con un grande senso dello Stato. E se penso a quello che gli hanno detto dopo la sua morte, tutte queste congetture, questi retroscena fasulli, mi arrabbio. Lui era una persona limpida, il nostro lavoro era limpido, oltre che faticoso. Abbiamo dato la vita a questo Paese, ed ho visto tanti mascalzoni pronti a tirarci addosso le pietre. Se penso a quante volte l’ho accompagnato sulla tomba di sua moglie Dora… Spesso la notte mi chiamava e io gli andavo ad aprire il cancello del cimitero, perché poteva andarci solo a quell’ora, per ragioni di sicurezza. Io lo osservavo da lontano e pensavo a quel pover uomo che non poteva neanche pregare tranquillamente come tutti gli esseri normali”. Fatica a stare seduto e si guarda intorno, come per allontanare l’ emozione che riaffiora dai ricordi. Il bar a quest’ora è pieno di gente che chiacchiera e legge.

“Noi adesso viviamo in modo modesto, com’è giusto che sia, ma questo Paese non ha voluto riconoscere il nostro operato neanche conservandone una buona memoria. Prima di arrivare a casa, a quei tempi, facevo dei lunghissimi giri per timore di essere sotto osservazione dei terroristi.  Avevo paura non per me, ma per i miei familiari. Non conoscevamo orari, eravamo sempre in movimento, per controllare, per raccogliere informazioni, per identificare i terroristi. Sono stati anni durissimi. Ho visto morire tra le mie braccia il maresciallo Maritano, che per me era come un padre. E dalla Chiesa mi chiamò, subito dopo, per sapere come erano avvenuti i fatti. Di me si fidava, sapeva come lavoravo e quanto affetto mi legava a lui”. 

“Noi eravamo soli anche a quei tempi, non eravamo ben visti anche all’interno dell’Arma, perché eravamo autonomi. E anche molti magistrati non potevano vederci. Eravamo un corpo estraneo, compatto, autonomo e questo dava fastidio. Il nostro essere uniti era la forza che avevamo. Il lavoro si faceva con serietà, professionalità e sacrifici e sapevamo di poter contare solo su dalla Chiesa.  Certamente rifarei tutto, ma per lui, e non per questo Paese che non è stato in grado di proteggerlo e dargli il giusto riconoscimento. Sono arrabbiato, ho visto troppi mascalzoni in giro”.

Fabiola Paterniti, Tutti gli uomini del Generale. La storia inedita della lotta al terrorismo, Ed. Melampo, Milano 2015

“La riforma andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza”. Discorso di Papa Francesco alla Curia romana

Pope Francis speaks during the annual Christmas greetings to the Vatican bureaucracy in the Clementina Hall, at the Vatican, Monday, Dec. 21, 2015. Francis has issued a Christmas-time "catalogue of virtues" for his closest collaborators to follow after having excoriated them last year for a host of sins that he said were compromising the Catholic Church's work. (Alberto Pizzoli/Pool Photo via AP)

Papa Francesco (Alberto Pizzoli/Pool Photo via AP)

Questa mattina, nella Sala Clementina, in Vaticano, Papa ha tenuto il tradizionale discorso natalizio alla Curia Romana e ai dipendenti dello Stato del Vaticano (vedi notizia: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Papa-Riforma-Curia-andra-avanti-con-determinazione-61232905-46a2-4853-a209-18983f4d814e.html?refresh_ce). Un discorso, ancora una volta, esigente. Tutto centrato sulle “virtù” che la Curia, nel suo servizio al Papa e alla Chiesa universale, deve manifestare. Parole dure contro gli scandali e la corruzione. I recenti scandali non fermeranno l’opera di riforma della Chiesa. Esemplarità e umiltà sono tra le virtù necessarie, secondo il Papa, per rendere testimonianza luminosa nei confronti del mondo.

Di seguito pubblichiamo il testo integrale del discorso del Papa.

Cari fratelli e sorelle,

vi chiedo scusa di non parlare in piedi, ma da alcuni giorni sono sotto l’influsso dell’influenza e non mi sento molto forte. Con il vostro permesso, vi parlo seduto.

Sono lieto di rivolgervi gli auguri più cordiali di un santo Natale e felice Anno Nuovo, che si estendono anche a tutti i collaboratori, ai Rappresentanti Pontifici, e particolarmente a coloro che, durante l’anno scorso, hanno terminato il loro servizio per raggiunti limiti di età.
Ricordiamo anche le persone che sono state chiamate davanti a Dio. A tutti voi e ai vostri familiari vanno il mio pensiero e la mia gratitudine.

Nel mio primo incontro con voi, nel 2013, ho voluto sottolineare due aspetti importanti e inseparabili del lavoro curiale: la professionalità e il servizio, indicando come modello da imitare la figura di san Giuseppe. Invece l’anno scorso, per prepararci al sacramento della Riconciliazione, abbiamo affrontato alcune tentazioni e “malattie” – il “catalogo delle malattie curiali”; oggi invece dovrei parlare degli “antibiotici curiali” – che potrebbero colpire ogni cristiano, ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia e movimento ecclesiale. Malattie che richiedono prevenzione, vigilanza, cura e, purtroppo, in alcuni casi, interventi dolorosi e prolungati.

Alcune di tali malattie si sono manifestate nel corso di questo anno, causando non poco dolore a tutto il corpo e ferendo tante anime, anche con lo scandalo.
Sembra doveroso affermare che ciò è stato – e lo sarà sempre – oggetto di sincera riflessione e decisivi provvedimenti. La riforma andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza, perché Ecclesia semper reformanda.

Tuttavia, le malattie e perfino gli scandali non potranno nascondere l’efficienza dei servizi, che la Curia Romana con fatica, con responsabilità, con impegno e dedizione rende al Papa e a tutta la Chiesa, e questa è una vera consolazione. Insegnava sant’Ignazio che «è proprio dello spirito cattivo rimordere, rattristare, porre difficoltà e turbare con false ragioni, per ‎impedire di andare avanti; invece è proprio dello spirito buono dare coraggio ed energie, dare consolazioni e ‎lacrime, ispirazioni e serenità, diminuendo e rimuovendo ogni difficoltà, per andare avanti nella via del ‎bene» [1].

Sarebbe grande ingiustizia non esprimere una sentita gratitudine e un doveroso incoraggiamento a tutte le persone sane e oneste che lavorano con dedizione, devozione, fedeltà e professionalità, offrendo alla Chiesa e al Successore di Pietro il conforto delle loro solidarietà e obbedienza, nonché delle loro generose preghiere.

Per di più, le resistenze, le fatiche e le cadute delle persone e dei ministri rappresentano anche delle lezioni e delle occasioni di crescita, e mai di scoraggiamento. Sono opportunità per tornare all’essenziale, che ‎significa fare i conti con la consapevolezza che abbiamo di noi stessi, di Dio, del prossimo, del sensus Ecclesiae e del sensus fidei.

Di questo tornare all’essenziale vorrei parlarvi oggi, mentre siamo all’inizio del pellegrinaggio dell’Anno Santo della Misericordia, aperto dalla Chiesa pochi giorni fa, e che rappresenta per essa e per tutti noi un forte richiamo alla gratitudine, alla conversione, al rinnovamento, alla penitenza e alla riconciliazione.

In realtà, il Natale è la festa dell’infinita Misericordia di Dio. Dice sant’Agostino d’Ippona: «Poteva esserci misericordia verso di noi infelici maggiore di quella che indusse il Creatore del cielo a scendere dal cielo e il Creatore della terra a rivestirsi di un corpo mortale? Quella stessa misericordia indusse il Signore del mondo a rivestirsi della natura di servo, di modo che pur essendo pane avesse fame, pur essendo la sazietà piena avesse sete, pur essendo la potenza divenisse debole, pur essendo la salvezza venisse ferito, pur essendo vita potesse morire. E tutto questo per saziare la nostra fame, alleviare la nostra arsura, rafforzare la nostra debolezza, cancellare la nostra iniquità, accendere la nostra carità» [2].

Quindi, nel contesto di questo Anno della Misericordia e della preparazione al Santo Natale, ormai alle porte, vorrei presentarvi un sussidio pratico per poter vivere fruttuosamente questo tempo di grazia.

Si tratta di un non esaustivo “catalogo delle virtù necessarie” per chi presta servizio in Curia e per tutti coloro che vogliono rendere feconda la loro consacrazione o il loro servizio alla Chiesa.

Invito i Capi dei Dicasteri e i Superiori ad approfondirlo, ad arricchirlo e a completarlo. È un elenco che parte proprio da un’analisi acrostica della parola “misericordia” – padre Ricci, in Cina, faceva questo – affinché sia essa la nostra guida e il nostro faro.

1. Missionarietà e pastoralità. La missionarietà è ciò che rende, e mostra, la curia fertile e feconda; è la prova dell’efficacia, dell’efficienza e dell’autenticità del nostro operare. La fede è un dono, ma la misura della nostra fede si prova anche da quanto siamo capaci di comunicarla [3]. Ogni battezzato è missionario della Buona Novella innanzitutto con la sua vita, con il suo lavoro e con la sua gioiosa e convinta testimonianza. La pastoralità sana è una virtù indispensabile specialmente per ogni sacerdote. È l’impegno quotidiano di seguire il Buon Pastore, che si prende cura delle sue pecorelle e dà la sua vita per salvare la vita degli altri. È la misura della nostra attività curiale e sacerdotale. Senza queste due ali non potremo mai volare e nemmeno raggiungere la beatitudine del “servo fedele” (cfr Mt 25,14-30).

2. Idoneità e sagacia. L’idoneità richiede lo sforzo personale di acquistare i requisiti necessari e richiesti per esercitare al meglio i propri compiti e attività, con l’intelletto e l’intuizione. Essa è contro le raccomandazioni e le tangenti. La sagacia è la prontezza di mente per comprendere e affrontare le situazioni con saggezza e creatività.

Idoneità e sagacia rappresentano anche la risposta umana alla grazia divina, quando ognuno di noi segue quel famoso detto: “fare tutto come se Dio non esistesse e, in seguito, lasciare tutto a Dio come se io non esistessi”. È il comportamento del discepolo che si rivolge al Signore tutti i giorni con queste parole della bellissima Preghiera Universale attribuita a Papa Clemente XI: «Guidami con la tua sapienza, reggimi con la tua giustizia, incoraggiami con la tua bontà, proteggimi con la tua potenza. Ti offro, o Signore: i pensieri, perché siano diretti a te; le parole, perché siano di te; le azioni, perché siano secondo te; le tribolazioni, perché siano per te» [4].

3. Spiritualità e umanità. La spiritualità è la colonna portante di qualsiasi servizio nella Chiesa e nella vita cristiana. Essa è ciò che alimenta tutto il nostro operato, lo sorregge e lo protegge dalla fragilità umana e dalle tentazioni quotidiane. L’umanità è ciò che incarna la veridicità della nostra fede. Chi rinuncia alla propria umanità rinuncia a tutto. L’umanità è ciò che ci rende diversi dalle macchine e dai robot che non sentono e non si commuovono. Quando ci risulta difficile piangere seriamente o ridere appassionatamente – sono due segni – allora è iniziato il nostro declino e il nostro processo di trasformazione da “uomini” a qualcos’altro. L’umanità è il saper mostrare tenerezza e familiarità e cortesia con tutti (cfr Fil 4,5). Spiritualità e umanità, pur essendo qualità innate, tuttavia sono potenzialità da realizzare interamente, da raggiungere continuamente e da dimostrare quotidianamente.

4. Esemplarità e fedeltà. Il beato Paolo VI ricordò alla Curia – nel ’63 – «la sua vocazione all’esemplarità» [5]. Esemplarità per evitare gli scandali che feriscono le anime e minacciano la credibilità della nostra testimonianza. Fedeltà alla nostra consacrazione, alla nostra vocazione, ricordando sempre le parole di Cristo: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti» (Lc 16,10) e «Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!» (Mt 18,6-7).

5. Razionalità e amabilità. La razionalità serve per evitare gli eccessi emotivi e l’amabilità per evitare gli eccessi della burocrazia e delle programmazioni e pianificazioni. Sono doti necessarie per l’equilibrio della personalità: «Il nemico – e cito sant’Ignazio un’altra volta, scusatemi – osserva bene se un’anima è grossolana oppure delicata; se è delicata, fa in modo di renderla delicata fino all’eccesso, per poi maggiormente angosciarla e confonderla» [6]. Ogni eccesso è indice di qualche squilibrio, sia l’eccesso nella razionalità, sia nell’amabilità.

6. Innocuità e determinazione. L’innocuità che rende cauti nel giudizio, capaci di astenerci da azioni impulsive e affrettate. È la capacità di far emergere il meglio da noi stessi, dagli altri e dalle situazioni agendo con attenzione e comprensione. È il fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te (cfr Mt 7,12 e Lc 6,31). La determinazione è l’agire con volontà risoluta, con visione chiara e con obbedienza a Dio, e solo per la legge suprema della salus animarum (cfr CIC, can. 1725).

7. Carità e verità. Due virtù indissolubili dell’esistenza cristiana: “fare la verità nella carità e vivere la carità nella verità” (cfr Ef 4,15) [7]. Al punto che la carità senza verità diventa ideologia del buonismo distruttivo e la verità senza carità diventa “giudiziarismo” cieco.

8. Onestà e maturità. L’onestà è la rettitudine, la coerenza e l’agire con sincerità assoluta con noi stessi e con Dio. Chi è onesto non agisce rettamente soltanto sotto lo sguardo del sorvegliante o del superiore; l’onesto non teme di essere sorpreso, perché non inganna mai colui che si fida di lui. L’onesto non spadroneggia mai sulle persone o sulle cose che gli sono state affidate da amministrare, come il «servo malvagio» (Mt 24,48). L’onestà è la base su cui poggiano tutte le altre qualità.

Maturità è la ricerca di raggiungere l’armonia tra le nostre capacità fisiche, psichiche e spirituali. Essa è la meta e l’esito di un processo di sviluppo che non finisce mai e che non dipende dall’età che abbiamo.

9. Rispettosità e umiltà. la rispettosità è la dote delle anime nobili e delicate; delle persone che cercano sempre di dimostrare rispetto autentico agli altri, al proprio ruolo, ai superiori e ai subordinati, alle pratiche, alle carte, al segreto e alla riservatezza; le persone che sanno ascoltare attentamente e parlare educatamente. L’umiltà invece è la virtù dei santi e delle persone piene di Dio, che più crescono nell’importanza più cresce in loro la consapevolezza di essere nulla e di non poter fare nulla senza la grazia di Dio (cfr Gv 15,8).

10. “Doviziosità” – io ho il vizio dei neologismi – e attenzione. Più abbiamo fiducia in Dio e nella sua provvidenza più siamo doviziosi di anima e più siamo aperti nel dare, sapendo che più si dà più si riceve. In realtà, è inutile aprire tutte le Porte Sante di tutte le basiliche del mondo se la porta del nostro cuore è chiusa all’amore, se le nostre mani sono chiuse al donare, se le nostre case sono chiuse all’ospitare e se le nostre chiese sono chiuse all’accogliere. L’attenzione è il curare i dettagli e l’offrire il meglio di noi e il non abbassare mai la guardia sui nostri vizi e mancanze. San Vincenzo de’ Paoli pregava così: “Signore, aiutami ad accorgermi subito: di quelli che mi stanno accanto, di quelli che sono preoccupati e ‎disorientati, di quelli che soffrono senza mostrarlo, di quelli che si sentono isolati senza volerlo”.

11. Impavidità e prontezza. Essere impavido significa non lasciarsi impaurire di fronte alle difficoltà, come Daniele nella fossa dei leoni, come Davide di fronte a Golia; significa agire con audacia e determinazione e senza tiepidezza «come un buon soldato» (2 Tm 2,3-4); significa saper fare il primo passo senza indugiare, come Abramo e come Maria. Invece la prontezza è il saper agire con libertà e agilità senza attaccarsi alle cose materiali che passano. Dice il salmo: «Alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore» (Sal 61,11). Essere pronto vuol dire essere sempre in cammino, senza mai farsi appesantire accumulando cose inutili e chiudendosi nei propri progetti, e senza farsi dominare dall’ambizione.

12. E finalmente affidabilità e sobrietà. Affidabile è colui che sa mantenere gli impegni con serietà e attendibilità quando è osservato ma soprattutto quando si trova solo; è colui che irradia intorno a sé un senso di tranquillità perché non tradisce mai la fiducia che gli è stata accordata. La sobrietà – ultima virtù di questo elenco non per importanza – è la capacità di rinunciare al superfluo e di resistere alla logica consumistica dominante. La sobrietà è prudenza, semplicità, essenzialità, equilibrio e temperanza. La sobrietà è guardare il mondo con gli occhi di Dio e con lo sguardo dei poveri e dalla parte dei poveri.

La sobrietà è uno stile di vita [8] che indica il primato dell’altro come principio gerarchico ed esprime l’esistenza come premura e servizio verso gli altri. Chi è sobrio è una persona coerente ed essenziale in tutto, perché sa ridurre, recuperare, riciclare, riparare e vivere con il senso della misura.

Cari fratelli,

la misericordia non è un sentimento passeggero, ma è la sintesi della Buona Notizia, è la scelta di chi vuole avere i sentimenti del Cuore di Gesù [9], di chi vuol seguire seriamente il Signore che ci chiede: «Siate misericordiosi come il Padre vostro» (Lc 6,36; cfr Mt 5,48). Afferma padre Ermes Ronchi: «Misericordia: scandalo per la giustizia, follia per l’intelligenza, consolazione per noi debitori. Il debito di esistere, il debito di essere amati si paga solo con la misericordia».

Dunque, sia la misericordia a guidare i nostri passi, a ispirare le nostre riforme, a illuminare le nostre decisioni. Sia essa la colonna portante del nostro operare. Sia essa a insegnarci quando dobbiamo andare avanti e quando dobbiamo compiere un passo indietro. Sia essa a farci leggere la piccolezza delle nostre azioni nel grande progetto di salvezza di Dio e nella maestosità e misteriosità della sua opera.

Per aiutarci a capire questo, lasciamoci incantare dalla preghiera stupenda che viene comunemente attribuita al Beato Oscar Arnulfo Romero, ma che fu pronunciata per la prima volta dal Cardinale John Dearden:

Ogni tanto ci aiuta il fare un passo indietro e vedere da lontano.
Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni.
Nella nostra vita riusciamo a compiere solo una piccola parte di quella meravigliosa impresa che è l’opera di Dio.
Niente di ciò che noi facciamo è completo.
Che è come dire che il Regno sta più in là di noi stessi.
Nessuna affermazione dice tutto quello che si può dire.
Nessuna preghiera esprime completamente la fede.
Nessun credo porta la perfezione.
Nessuna visita pastorale porta con sé tutte le soluzioni.
Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa.
Nessuna meta né obbiettivo raggiunge la completezza.
Di questo si tratta:
noi piantiamo semi che un giorno nasceranno.
Noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li custodiranno.
Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà.
Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità.
Non possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione l’iniziarlo.
Ci dà la forza di fare qualcosa e di farlo bene.
Può rimanere incompleto, però è un inizio, il passo di un cammino.
Una opportunità perché la grazia di Dio entri e faccia il resto.
Può darsi che mai vedremo il suo compimento, ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale.
Siamo manovali, non capomastri, servitori, non messia.
Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene.

E con questi pensieri, con questi sentimenti, vi auguro un buon e santo

Natale, e vi chiedo di pregare per me. Grazie.

—————

[1]‎ Esercizi Spirituali, 315.

[2] Serm. 207, 1: PL 38, 1042.

[3] «La missionarietà non è solo una questione di territori geografici, ma di popoli, di culture e di singole persone, proprio perché i “confini” della fede non attraversano solo luoghi e tradizioni umane, ma il cuore di ciascun uomo e di ciascuna donna, Il Concilio Vaticano II ha sottolineato in modo speciale come il compito missionario, il compito di allargare i confini della fede, sia proprio di ogni battezzato e di tutte le comunità cristiane» (Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2013, 2).

[4] Missale Romanum, ed. 2002.

[5] Discorso alla Curia Romana, 21 settembre 1963: AAS 55 (1963), 793-800.

[6]‎ Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali 349.

[7]‎ «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, ‎con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e ‎dell’umanità intera […] È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta» (Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 29 giugno 2009, ‎‎1: AAS 101 [2009], 641). Perciò occorre «coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della ‎‎“veritas in caritate” (Ef 4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della “caritas in ‎veritate”. La verità va cercata, trovata ed espressa nell’“economia” della carità, ma la carità a sua ‎volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità» (ibid., 2).‎

[8] Uno stile di vita improntato alla sobrietà restituisce all’uomo «quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l’essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create» (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 37); cfr AA.VV., Nuovi stili di vita nel tempo della globalizzazione, Fondaz. Apostolicam actuositatem, Roma 2002.

[9] Giovanni Paolo II, Angelus del 9 luglio 1989: «L’espressione “Cuore di Gesù” richiama subito alla mente l’umanità di Cristo, e ne sottolinea la ricchezza dei sentimenti, la compassione verso gli infermi; la predilezione per i poveri; la misericordia verso i peccatori; la tenerezza verso i bambini; la fortezza nella denuncia dell’ipocrisia, dell’orgoglio, della violenza; la mansuetudine di fronte agli oppositori; lo zelo per la gloria del Padre e il giubilo per i suoi disegni di grazia, misteriosi e provvidenti… richiama poi la tristezza di Cristo per il tradimento di Giuda, lo sconforto per la solitudine, l’angoscia dinanzi alla morte, l’abbandono filiale e obbediente nelle mani del Padre. E dice soprattutto l’amore che sgorga inarrestabile dal suo intimo: amore infinito verso il Padre e amore senza limiti verso l’uomo».

 

Dal sito: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/december/documents/papa-francesco_20151221_curia-romana.html

La Leopolda della palude autoreferenziale. Intervista ad Alessandro De Angelis

Alessandro De Angelis (@deangelispost : Twitter)“La Leopolda? Ha dato l’immagine del renzismo come di una palude autoreferenziale”. Alessandro De Angelis, giornalista dell’Huffington Post, ha seguito la Leopolda per il suo giornale online. Di eventi politici ne ha seguiti parecchi. Nella kermesse che si è appena svolta a Firenze, vede un “cambio di fase del renzismo”.
Spiegati meglio.
C’è un elemento che rende questa Leopolda diversa dalle altre. Ed è l’autoreferenzialità della tre giorni, autoreferenzialità di cui il discorso finale di Renzi è un esempio straordinario. Te la dico senza girarci attorno: è ovvio che queste occasioni servono a gasare i militanti, a rafforzare l’orgoglio di appartenenza, appartenenza che i renziani vivono in modo quasi clanico e pre-politico. Ciò detto, al netto dell’autocelebrazione, è mancato il respiro, la progettualità.

Insomma ti dici: quella che doveva essere la celebrazione del renzismo al governo, con le sue “magnifiche” riforme, si è rivelata, al di là della propaganda renziana, come una manifestazione dei limiti del “renzismo”.
Diciamo che è emerso quello che, a mio giudizio, è il limite vero. Domando: perché Renzi replica con stizza e quasi arroganza ai critici? Perché è insofferente verso la stampa e verso i giornali sgraditi al punto da esporli alla gogna? Perché porta al parossismo la ricerca del nemico vedendo ovunque gufi e sciacalli? A mio giudizio perché la sua narrazione e la sua politica non fa i conti col principio di realtà e dunque risulta autoreferenziale. Quando parlo di principio di realtà mi riferisco, in questo caso, alle banche e al conflitto di interessi della Boschi denunciato da Saviano. Sono stati gli eventi di cui gli organizzatori non sono riusciti a liberarsi né ad esorcizzare. E alla fine gli eventi sono stati più forti della narrazione del “va tutto bene”. Guarda che la ferita che sanguina nel cuore del Pd – mi riferisco ai risparmiatori truffati nelle zone rosse – mica la rimargini con gli effetti speciali dal palco.

Un paradosso, non credi? Non ha funzionato la comunicazione che dovrebbe essere il terreno di maggiore forza del renzismo.
Vero: l’esitazione sulla presenza della Boschi dopo la denuncia di Saviano ha aggravato la situazione, per non parlare del discorso di bandiera della ministra, con tre fan a fare domande. I renziani, alla prima vera criticità, hanno mostrato di essere fragili nel reggere alla pressione. Conclusione: la realtà, questa volta scomoda e cruda ha ucciso l’evento. Infatti si continua a parlare di banche e di conflitto di interessi, non del messaggio di Renzi dal palco, appunto perché non ha affrontato la realtà. Questa volta il giovane premier mi ha fatto venire in mente Bettino Craxi, quando ringhiava contro i suoi avversari ammaliando la base socialista ma aveva perso il contatto con la realtà.

La “stella” di Maria Elena Boschi continuerà a brillare?
Dipende da come la gestisce. Per ora la sta gestendo malissimo. È stata la prima ad ammettere che c’era un conflitto di interessi non partecipando al cdm dove si varava il decreto che toccava la banca Etruria. Perché allora si arrabbia con chi parla di conflitto di interessi. Sarebbe bastato che qualcuno della famiglia desse una spiegazione per fugare ogni sospetto, cosa che una figura di spicco di governo dovrebbe fare. Invece, nel comportamento mi ha ricordato Berlusconi quando uscì Noemi. Prima ha evitato la realtà, poi andò da Vespa a fare un’intervista compiacente. E si beccò le dieci domande di Repubblica che lo inchiodarono. Lei ha evitato la realtà, poi è andata da Vespa a fare un’intervista compiacente e si è beccata Saviano… Questa vicenda fa molto male al renzismo perché getta una macchia sulla narrazione, rompe il mito della novità e della diversità. Il nuovo potere, come i vecchi poteri, ha i suoi intrighi, il suo familismo amorale, i suoi conflitti di interesse.

Nello stesso giorno le minoranze del Pd organizzavano una “convention” : linea politica “ulivista”, anche sulla scia dell’appello dei sindaci, linguaggi differenti. Un partito con gravi problemi indentitari.
Non c’è dubbio. Direi che pure la minoranza ha bisogno di Freud a proposito di realtà. Invece di parlare di banche e di offrire al paese un punto di vista sul sociale hanno dato i titoli sulla necessità di separare il ruolo di premier da quello di segretario, perché non hanno uno da contrapporre a Renzi…

Intanto le sezioni chiudono, il tesseramento langue. Il Pd è un partito svuotato?
Ti chiedo: il Pd è ancora un partito? A me pare che più che una comunità che sta assieme sulla base di valori, programmi, obiettivi di cambiamento il Pd sta diventando una macchina di potere che attrae trasformismi.

Se vogliamo fare una “previsione” per il prossimo anno per Renzi: quali saranno i “nodi” politici?
Vediamo come vanno i botti di fine anno… Nel senso di questa storia sulla Boschi. C’è un’inchiesta della procura di Arezzo, mi pare che il quadro sia in evoluzione. È un dato cruciale perché la Boschi è il volto dell’epoca renziana, del governo e delle riforme. Te la dico con un titolo: quando ci sarà il referendum un conto è se le riforme sono figlie del governo che “cambia verso” un conto è se hanno il volto di un ministro legato a una questione imbarazzante. Aspettiamo…

Ultima domanda: Il Movimento Cinque Stelle conferma, stando ai sondaggi la sua consistenza elettorale, ma il punto è un altro. Pensi che abbia acquisito anche  consistenza politica?
È in una fase di crisi di crescita. Nel senso che non c’è dubbio che rispetto all’inizio ci sia una maggiore consapevolezza, ma adesso siamo a un punto cruciale, perché come ricordavi tu, hanno i numeri per rappresentare una vera alternativa. E pare abbiano paura di vincere. Lo vedi sulle amministrative dove evitano di candidare i big, sulla guerra che è un tema divisivo non hanno preso una posizione. E poi ci sono amministrazioni, come a Livorno, dove stanno fallendo la prova del governo. Intendo questo per crisi di crescita. I numeri dicono che sono l’alternativa, ma trasmettono l’idea di non essere pronti. Anche in questo caso, stiamo a vedere.

Costruire il Giubileo della pace, profezia di nuova umanità.
Un appello di Pax Christi.

Logo Paxchristi

Domani mattina a Roma, alle 9.30 in Piazza San Pietro, Papa Francesco aprirà la “Porta Santa” della basilica vaticana. Inizierà così il Giubileo della Misericordia. Un evento voluto fortemente dal Papa. Un evento nelle intenzioni del pontefice da vivere, non solo sul piano spirituale dal singolo credente,  ma anche come evento di giustizia e di pace. Va in questa direzione l’appello, che pubblichiamo integralmente, dell’associazione “Pax Christi”. Sono parole profetiche che invitano la comunità ecclesiale ad una chiara testimonianza di verità sul momento drammatico in cui viviamo.

Pax Christi Italia, presente in questi giorni a Parigi per la Cop21 con una nutrita delegazione giovanile armata dell’enciclica Laudato si’, propone questo appello all’inizio del Giubileo della misericordia che, come ha evidenziato papa Francesco in Africa, diventa per tutti un Giubileo del disarmo, della giustizia e della riconciliazione.

Pax Christi Italia si oppone alla generale chiamata alle armi promossa in tutta Europa da organi di stampa, governi e forze politiche che pensano di bloccare le guerre del terrorismo col terrorismo di guerre che, come si è visto (e come è stato riconosciuto anche dai loro promotori), hanno alimentato nuove violenze e nuove guerre.

Cosa è rimasto di tante iniziative belliche? Morti, rovine, sfollati, profughi, migrazioni forzate, tratta delle persone, milizie armate, terrorismo diffuso e “tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi”, ha esclamato il papa il 19 novembre.

“Nel contesto della comunicazione globale”, ha detto il papa a Sarajevo nel giugno scorso, “si percepisce un clima di guerra. C’è chi questo clima vuole crearlo e fomentarlo deliberatamente, in particolare coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, e anche coloro che speculano sulle guerre per vendere armi”. Per questo, giorni fa ha esclamato: “coloro che operano la guerra, che fanno le guerre, sono maledetti, sono delinquenti”, aggiungendo, poi: “le guerre sono un’industria, un affare di armi, un peccato, distruggono l’umanità… Si devono fermare” .

Quella che stiamo vivendo non è una guerra dell’Islam contro l’Occidente. Il terrore è da tempo pane quotidiano per milioni di persone in Medio Oriente e in varie parti del mondo, e colpisce soprattutto i musulmani. Il 90% delle vittime del terrorismo islamista si verifica in Iraq, Siria, Pakistan, Afghanistan, Nigeria, Somalia, Tunisia, Mali, Libia, Libano, Egitto, nel centro e nel nord d’Africa dove l’Europa manda armi e dove l’Italia coi suoi traffici sta violando la legge 185/90, ormai depotenziata e svuotata di significato. Lo testimoniano i dati della Rete Italiana Disarmo e di altre istituzioni.

L’Italia vende e permette la vendita di armi, ad esempio, all’Arabia Saudita (che sta bombardando lo Yemen e che ospita finanziatori del sedicente stato islamico), al Qatar, alle monarchie del Golfo, al Kuwait, alla Siria, all’Iraq, alla Turchia, all’Algeria, all’Egitto, al Marocco, alla Libia…ed è alleata di regimi vicini ai terroristi.

Ora, ai bombardamenti di Usa, Russia e Francia (e al sostegno armato dell’Italia), si aggiungono quelli della Germania e dell’Inghilterra. Molti, troppi sono corresponsabili delle violenze di una guerra mondiale che sembra inarrestabile e che è diventata parte integrante dell’economia e della politica.

Una politica di pace con mezzi di pace non è passiva ma è lotta per il bene e per la civiltà del diritto, è gestione e superamento dei conflitti.

Si può vincere il male con il bene.

Occorre, anzitutto, eliminare ogni complicità con i terroristi.

Non si può nutrire il male che si dice di combattere.

E non si spegne il fuoco gettandovi benzina in continuazione.

  1. Smettiamo di armare le guerre con gli “affari insensati” delle armi. Diamo inizio a un embargo planetario o a una moratoria internazionale che imponga il divieto assoluto di vendere armi.
  2. Scardiniamo l’architettura finanziaria del califfato e dei suoi alleati. Blocchiamo il commercio clandestino di petrolio (che frutta all’Isis 1 milione e mezzo di dollari al giorno). Fermiamo le elargizioni di denaro e i flussi di armi e denaro.
  3. 
 Ridiamo all’Onu un ruolo centrale nel processo di pace in Siria e Iraq e affidiamo al Tribunale penale internazionale la valutazione e il giudizio dei crimini contro l’umanità.
  4. Costruiamo una politica euro-mediterranea di vera cooperazione e di sicurezza comune.
  5. Promuoviamo un’opera di educazione ai conflitti nelle scuole e nelle città preparando anche le condizioni per una Difesa civile nonviolenta.
  6. Sviluppiamo il dialogo interreligioso senza diplomazie generiche ma con buone pratiche sociali e momenti di festa, curando una spiritualità dell’incontro che faccia emergere la sostanza disarmata e disarmante della propria fede.
Non lasciamo solo papa Francesco nella sua denuncia! All’inizio del “Giubileo della misericordia”, seguiamo il suo invito a “chiedere la grazia del pianto per questo mondo che non riconosce la strada della pace. Che vive per fare la guerra, con il cinismo di dire di non farla”.

Dopo il convegno ecclesiale di Firenze, le comunità cristiane possono vivere il Giubileo della misericordia come Giubileo della giustizia e della pace, come profezia di nuova umanita’.

 


Pax Christi Italia
Firenze 2 dicembre  2015