Tutti gli uomini del Generale. La storia inedita della lotta al terrorismo

Paterniti-Tutti-gli-uomini-del-generaleChi sono gli uomini che hanno combattuto in prima fila il terrorismo negli anni di piombo? Chi sono gli uomini che agli ordini del generale Carlo Alberto dalla Chiesa hanno indagato, rischiato, vissuto come clandestini, servito il Paese e la democrazia, per essere dimenticati dopo l’uccisione del loro comandante passato a combattere la mafia?

Questo libro, “Tutti gli uomini del generale”, da pochi giorni nelle librerie, scritto dalla giornalista  Fabiola Paterniti per la casa editrice Melampo, con la prefazione dell’ex ministro degli interni Virginio Rognoni, racconta per la prima volta la lotta al terrorismo attraverso la voce dei protagonisti che sostennero il peso di un impegno senza limiti. Ne nasce una storia sincera, per molti aspetti nuova. Sono testimonianze orali raccolte in tante regioni d’Italia. Carabinieri semplici, marescialli, ufficiali, restituiscono le tinte di quella stagione e il senso di una difficilissima impresa collettiva, talora smontando con semplicità insinuazioni e ricostruzioni fantasiose che hanno tenuto banco per quasi quarant’anni. Le indagini, gli infiltrati, le vite da clandestini. E poi i successi, i caduti, i momenti di allegria, la fedeltà al loro comandante, che tutti ancora chiamano “il signor generale”.. E infine l’amarezza per essere stati dimenticati, superata dall’orgoglio di avere servito lo Stato.   Insomma è la Storia del Nucleo Speciale antiterrorismo dei Carabinieri.

Il libro è arricchito dalle testimonianze di Gian Carlo Caselli e di Armando Spataro, due magistrati che collaborarono con il generale in inchieste decisive; e si chiude con le storiche interviste che Carlo Alberto dalla Chiesa rilasciò a Enzo Biagi e a Giorgio Bocca, che rilette a distanza di trent’anni rivelano ancora più chiaramente la consapevolezza e il coraggio del generale nell’affrontare i misteri e le doppiezze del nostro Paese.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo due estratti del libro:

Dal Capitolo “L’ufficiale dalla memoria buona. Gian Paolo Sechi. Parte seconda: il dopo Moro”   (pp.94-96)          (ora generale in pensione)

Il generale passa a questo punto, quasi automaticamente, a raccontare di Marco Donat Cattin. Lo fa con la determinazione di chi sa che sta per parlare di una grande storia. Una di quella vicende tipiche della nazione entrate negli annali e nella memoria pubblica per i nomi altisonanti dei protagonisti e per gli scenari umani e politici che fanno loro da sfondo.

“Ricordo bene quando arrestammo il figlio di Carlo Donat Cattin. Da mesi avevo incaricato un mio uomo di pedinare un tizio che ci risultava avesse contatti con Marco Donat Cattin. Un giorno questo presunto amico si recò alla stazione di Torino Porta Nova e salì su un treno diretto in Francia. A quel punto il mio uomo bloccò un signore che passava lì per caso, e gli diede una mancia con la richiesta di farmi arrivare un messaggio nel quale mi informava che stava prendendo il treno per la Francia. Poco dopo questi mi telefonò: ‘Tu sei Boss? – mi chiese – Trucido mi ha detto di chiamarti per dirti che quel tizio è salito su un treno che porta in Francia e, quindi, anche lui è diretto in Francia’. Dopo un po’, ricevetti un’altra telefonata, questa volta erano i carabinieri di Bardonecchia che mi lessero un promemoria che Trucido aveva scritto in treno e consegnato loro. Erano tutte le informazioni che aveva acquisito e che comunicai alla gendarmeria francese. Appena il treno giunse a destinazione, l’uomo che avevamo pedinato raggiunse altra gente. In seguito incontrò Marco Donat Cattin, che così venne arrestato. Quando fu preso tutti fingevano di non capire chi fosse, ma io arrivai in Francia quello stesso pomeriggio. E guardando l’uomo che avevano fermato dissi: ‘Ma questo assomiglia a Donat Cattin’. La mia osservazione naturalmente era ironica, sapevano tutti la sua identità, ma non osavano dirla. Infatti, appena feci quel nome, successe il putiferio. Da quel momento costui venne trattato come il Presidente della Repubblica in visita ufficiale in Francia. Vennero a prenderlo settimane dopo con l’aereo presidenziale, ossia quello che aveva tutte le comodità. Il Governo mandò quest’aereo con un ufficiale che non si occupava di lotta al terrorismo.  Al ritorno in Italia, atterrammo nella base militare di Vicenza, a bordo c’ero io e c’era anche Mario Mori, che faceva parte della nostra struttura. Poi feci salire Donat Cattin su un’auto e lo accompagnai a Torino. Lo chiusi in camera di sicurezza, mentre, in quegli stessi giorni, avevamo Patrizio Peci in un alloggio al piano di sopra”.

Alla Fiat seppero subito del nuovo arrivato. Così molti dirigenti fecero pressioni enormi, andarono a cercare gli uomini del generale con la richiesta di liberarlo o di dargli lo stesso trattamento di Peci. “Puntualizzammo loro che Peci era un pentito e ci stava raccontando tutto dell’organizzazione terroristica di cui faceva parte e quindi era un’altra questione.  Marco Donat Cattin non voleva collaborare”.

Il problema per gli uomini del nucleo era su come tenere le dovute distanze verso il padre, che era stato ministro in diversi governi, ricopriva l’incarico di Vice-Segretario unico della Democrazia Cristiana, ed era dotato di grande potere e influenza. A quel tempo c’era una norma che imponeva loro, per i casi di arresto, di informare subito il Ministro, e così fecero. “Quindi il padre venne a saperlo abbastanza in fretta. E questa vicenda scatenò anche una dura polemica nelle cronache di allora”.

Ma la storia più curiosa che Sechi mi racconta riguarda il periodo precedente, ossia il modo in cui erano arrivati all’illustre terrorista di Prima linea. “Oltre a pedinare l’amico, avevamo seguito anche la madre che da più di un anno sistematicamente prendeva il treno da Torino e scendeva a una stazione vicino Vercelli. Lì incontrava il figlio. Lui le dava un pacco e lei ricambiava con un altro. Sa cosa c’era dentro questi involucri? Biancheria. Sì, proprio così. Lui le dava la biancheria sporca e lei quella pulita. Già un anno prima, quindi, la famiglia sapeva, oltre che della sua militanza in un’organizzazione terroristica, la località in cui si era rifugiato.

Quello che ancora oggi mi dispiace è che un uomo delle istituzioni, come il padre di Marco, non abbia mai preso una posizione netta. Anche se è difficile parlarne ad anni di distanza. Una volta che aveva scoperto il figlio terrorista, avrebbe dovuto essere conseguente. In fondo era stato un Ministro con responsabilità ben precise nei confronti della collettività, ricopriva incarichi pubblici.  Ciò di cui sono sicuro è che lo sapesse già da un anno, ma non fece niente”.   

Dal Capitolo “Giuseppe Severino” (maresciallo),  pp.150-153

Giuseppe Severino sorseggia il suo caffè e, ogni tanto, tira fuori una risata che pare trascinata dai ricordi. Il racconto è spesso frenato dalla paura di dire troppo. In fondo, in questi lunghi anni, la memoria delle gesta degli “uomini del generale” ha subìto storpiature e libere interpretazioni che tuttora pesano sulle loro vite. I riconoscimenti sono stati pochi, mentre tante sono state le letture distorte della loro attività. Per fortuna li sorregge lo spirito di squadra: la grande risorsa che gli uomini del nucleo avevano creato in quegli anni, è ancora vivo, e ancora dà forza. Per questo, Severino fa in modo che il suo racconto torni sempre sul generale: “è morto in solitudine, se fossimo stati noi a difenderlo, non sarebbe successo. Quando veniva da queste parti e si fermava a prendere un caffè, ci chiedeva di lasciarlo da solo, non voleva che mettessimo a rischio la nostra vita per lui. Quindi, dopo tanta insistenza, lui entrava al bar e noi lo guardavamo a distanza di cinque o sei metri. Sapevamo di dover tenere gli occhi ben aperti. Io non dormivo la notte per questo lavoro, non vedevo la mia famiglia per molto tempo, mancavo spesso da casa, anche per 15 o 20 giorni di seguito”. Severino era a capo delle sedi di Parma, di Piacenza, di Reggio Emilia e di Modena. Un’area cruciale per l’antiterrorismo: in quelle provincie furono identificati parecchi brigatisti e sbaragliati numerosi covi. Ha collaborato direttamente con il generale anche quando questi costituì le carceri speciali: “I nostri uffici a quel tempo erano a Roma, sulla Salaria. Hanno mitragliato i muri della sede tante volte. Non si può avere idea di quale fosse il clima a quel tempo”. Il periodo del terrorismo l’ha segnato. Mentre parla si ferma a riflettere, come volesse capire se sta dicendo qualcosa di troppo. Ha il timore che le sue parole possano giovare a nuovi “sciacalli per infangare il nome del generale”.

Continua a voler essere un fantasma, come gli era stato richiesto in quegli anni del terrorismo, quando il suo nome di battaglia era “Seve” e il nome con il quale si presentava ai comuni mortali rimaneva tale, ma con un’aggiunta: geometra Severino. E, in effetti, quel “geometra” davanti al cognome sembra anticipare l’anonimato in cui si sarebbe immerso dopo i duri anni di servizio per lo Stato. Lontano dalla stampa, dal chiacchiericcio pettegolo dei palazzi del potere e dalle malevolenze di chi preferiva ricostruire la storia dell’antiterrorismo con le proprie fisime anziché con i fatti. Ma del generale non si stanca mai di parlare, perché è l’uomo che gli ha consentito di conoscere la parte bella dello Stato: “Lui è stato sempre presente nelle nostre vite. Ci chiamava al telefono, parlava con mia moglie. Spesso ci scriveva. Ho conservato gelosamente tutte le sue lettere. Mi cercò persino prima della sua morte, credo sia stata l’ultima telefonata, ma io non c’ero. E ricordo, ancora, dove mi trovavo in quel momento. Lui sapeva perfettamente chi lavorava e chi erano le persone fidate. Un giorno ha fatto neri alcuni ufficiali che non avevano rispettato le regole, in quell’occasione avrei voluto sprofondare dalla vergogna per loro, il generale fu durissimo. Era una persona seria, con un grande senso dello Stato. E se penso a quello che gli hanno detto dopo la sua morte, tutte queste congetture, questi retroscena fasulli, mi arrabbio. Lui era una persona limpida, il nostro lavoro era limpido, oltre che faticoso. Abbiamo dato la vita a questo Paese, ed ho visto tanti mascalzoni pronti a tirarci addosso le pietre. Se penso a quante volte l’ho accompagnato sulla tomba di sua moglie Dora… Spesso la notte mi chiamava e io gli andavo ad aprire il cancello del cimitero, perché poteva andarci solo a quell’ora, per ragioni di sicurezza. Io lo osservavo da lontano e pensavo a quel pover uomo che non poteva neanche pregare tranquillamente come tutti gli esseri normali”. Fatica a stare seduto e si guarda intorno, come per allontanare l’ emozione che riaffiora dai ricordi. Il bar a quest’ora è pieno di gente che chiacchiera e legge.

“Noi adesso viviamo in modo modesto, com’è giusto che sia, ma questo Paese non ha voluto riconoscere il nostro operato neanche conservandone una buona memoria. Prima di arrivare a casa, a quei tempi, facevo dei lunghissimi giri per timore di essere sotto osservazione dei terroristi.  Avevo paura non per me, ma per i miei familiari. Non conoscevamo orari, eravamo sempre in movimento, per controllare, per raccogliere informazioni, per identificare i terroristi. Sono stati anni durissimi. Ho visto morire tra le mie braccia il maresciallo Maritano, che per me era come un padre. E dalla Chiesa mi chiamò, subito dopo, per sapere come erano avvenuti i fatti. Di me si fidava, sapeva come lavoravo e quanto affetto mi legava a lui”. 

“Noi eravamo soli anche a quei tempi, non eravamo ben visti anche all’interno dell’Arma, perché eravamo autonomi. E anche molti magistrati non potevano vederci. Eravamo un corpo estraneo, compatto, autonomo e questo dava fastidio. Il nostro essere uniti era la forza che avevamo. Il lavoro si faceva con serietà, professionalità e sacrifici e sapevamo di poter contare solo su dalla Chiesa.  Certamente rifarei tutto, ma per lui, e non per questo Paese che non è stato in grado di proteggerlo e dargli il giusto riconoscimento. Sono arrabbiato, ho visto troppi mascalzoni in giro”.

Fabiola Paterniti, Tutti gli uomini del Generale. La storia inedita della lotta al terrorismo, Ed. Melampo, Milano 2015