“Il Family day non è il modo migliore per mettersi nella stessa lunghezza d’onda di Papa Francesco”. Intervista a Massimo Faggioli

Massimo Faggioli (Foto da  www.ferraraitalia.it)

Massimo Faggioli (Foto da www.ferraraitalia.it)

Domani a Roma, al Circo Massimo, si svolgerà il “Family Day”. Organizzato dal “Forum delle famiglie” per contrastare il ddl Cirinnà sulle unioni civili. “Il ddl va riscritto, perché – secondo loro – non tiene conto dell’elemento più fragile, il bambino”. Ovviamente tutto questo avrà un suo influsso nel dibattito politico che si aprirà la prossima settimana, al Senato, quando si aprirà la discussione per  l’approvazione del ddl. Questo è il secondo “Family Day”, dopo quello del 2007, da allora sono cambiate molte cose. In modo particolare nel mondo cattolico. Ne parliamo, in questa intervista, con lo storico del cristianesimo Massimo Faggioli. Faggioli è Associate Professor della University of St. Thomas (a St Paul nel Minnesota – Usa).

Professor Faggioli, domani il forum delle famiglie organizza il cosiddetto “Family Day” per riaffermare i valori della famiglia tradizionale contro il ddl sulle Unioni Civili. Nel Paese è in corso una discussione con diverse prese di posizione trasversali. Anche la Chiesa cattolica, attraverso i suoi pastori, ha preso una posizione. Vede novità, rispetto al 2007, nelle gerarchie cattoliche e nel laicato cattolico? 

La novità maggiore è che c’è papa Francesco e quindi quella compattezza fittizia sulle parole d’ordine che c’era nel 2007 oggi non esiste più: molti veli sono caduti nella chiesa italiana come in quella globale. I vescovi sono alle prese oggi con una difficile transizione dall’unanimismo del trentennio precedente a una nuova era, quella di Francesco, in cui le questioni di morale sessuale non sono più l’elemento dirimente nel linguaggio del magistero pontificio. Questo provoca delle tensioni interne all’episcopato, che si vedono anche dalle parole caute di Bagnasco circa il “Family Day”, più caute rispetto al 2007. Ma anche tra il laicato cattolico vi sono posizioni molto diverse che sono oggi evidenti: il sostegno da parte dei movimenti cattolici al “Family Day” è minore rispetto al 2007, e a loro volta i movimenti sanno che devono ricostruire il loro rapporto con un papa che è diverso dai due predecessori sulla ecclesiologia. È chiaro che il “Family Day” non è percepito come il modo migliore per mettersi sulla stessa lunghezza d’onda di papa Francesco, che nei discorsi ai movimenti li ha esortati chiaramente a non rinchiudersi in una idea limitata di chiesa e di mondo.

Parliamo di Papa Francesco. Alcuni laici sono rimasti delusi dalle sue affermazioni, fatte durante l’udienza ai giudici della Sacra Rota, sulle unioni diverse dal matrimonio. Per altri come Antonio Socci, critico feroce di Bergoglio, si è trattato quasi di un “miracolo”. Secondo lei queste affermazioni di Papa Francesco devono essere prese come un appoggio alla manifestazione di sabato? Oppure sono parole che sono state strumentalizzate?

Papa Francesco è conscio più di altri del tentativo di manipolare o strumentalizzare le sue parole. Ha parlato di matrimonio con le sfumature giuste, dicendo che gli altri tipi di unioni sono una cosa diversa. Non ha parlato di valori non negoziabili, né della manifestazione di sabato. E se anche avesse parlato del “Family Day”, questo sarebbe stato comunque molto diverso dal fare appello ai parlamentari cattolici a votare secondo le indicazioni del magistero della chiesa – cosa che abbiamo visto nel recente passato in Italia. Francesco non crede nello scontro tra culture. Il problema è che alcuni dirigenti del cattolicesimo italiano (laici e chierici) sembrano credere al ricorso alle piazze e non avere più opzioni alternative allo strumento della piazza – che peraltro non ha servito bene la chiesa nel decennio passato.

Una parola sui cattolici del PD. Vede dei limiti nella loro azione?

La stessa espressione “cattolici del PD” evidenzia che c’è un problema di collocazione politica di una cultura, quella del cattolicesimo politico, che si è impoverita all’interno del PD ma anche nel paese in generale e in tutta Europa – e la crisi del cattolicesimo politico in Europa è parte della crisi dell’Unione Europea. Si tratta di una questione tanto di contenuti (come la questione dei corpi intermedi e della Costituzione) quanto di stile (imbarcare dentro il PD personaggi che non hanno nulla a che fare con le culture che hanno fondato quel partito). Il PD (e il governo) abbondano di cattolici, ma il loro linguaggio, azione, stile, rete di rapporti sociali e culturali è totalmente diverso da quello della generazione precedente – tanto che si fa fatica a vedere delle continuità tra le due generazioni. È un cattolicesimo che pare essere privo di una sua cultura teologica e spirituale, priva di testimoni e di testi di riferimento. Al confronto della nuova generazione giovane di cattolici del PD, un politico cattolico liberal come il vicepresidente americano Joe Biden sembra quasi una specie di De Gasperi.

Siamo in una fase storica del rapporto “Chiesa – politica”, come lei dice, nuova rispetto al 2007. Una fase caratterizzata dalla fine del “ruinismo” e del “prodismo”. Due posizioni che si scontrate in modo duro negli anni passati. Siamo, lei dice, in una fase post-adulta. Può spiegarci meglio? Vuol dire che si aprirà una nuova stagione per il cattolicesimo politico?

Alla fine del ruinismo corrisponde in un certo senso anche la fine del prodismo. Che cosa rimane di quel cattolicesimo politicamente adulto? La nuova generazione del cattolicesimo italiano si è emancipata dai vescovi, ma anche da coloro che si erano emancipati dai vescovi. La nuova generazione da una parte non si fa problema a disobbedire ai vescovi, ma dall’altra parte sembra obbedire allo “spirito del tempo” in modo acritico. Non è chiaro quale sarà la prossima fase del cattolicesimo politico – né se ci sarà un futuro per il cattolicesimo politico. Questa questione va inquadrata da una parte nella crisi del paradigma occidentale del cattolicesimo, che ora è sempre più globale, e dall’altra nella crisi epocale di fede nella politica.

Ultima domanda: sullo sfondo dei diritti civili c’è il grande confronto scontro, come lo definiva lo storico francese Emilé Poulat, chiesa-modernità. Il Concilio Vaticano II ha detto parole definitive, ovvero la scelta del dialogo. Qual è lo sforzo innovatore di Papa Francesco su questa frontiera?

Il Vaticano II ha solo iniziato un discorso che 50 anni fa è ancora aperto, anche perché Francesco lo ha riaperto. Bergoglio ha una visione complessa della modernità coi suoi aspetti negativi, come si vede nell’enciclica Laudato si’. La cosa importante di Francesco è che non guarda mai indietro con nostalgia, ma è sempre proiettato nel futuro. Questo atteggiamento è di per sé moderno.

Una certa idea di Roma. Un testo di Raffaele Morese

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Raffaele Morese (Ansa)

Domani mattina a Roma, presso l’Auditorium Antonianum , in via Manzoni 1, si svolgerà un forum, organizzato dall’associazione Koiné, su : “la primavera di Roma”. Sono previsti, tra gli altri, gli interventi di : Raffaele Morese, Fabrizio Barca, Pierre Carniti, Giorgio Benveuto, Innocenzo Cipolletta,  Pietro Barrera, Andrea Riccardi, Giuseppe Roma, Andrea Romano e tanti altri (vedi www. e-koine.com programma e documento di base).

Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione, il testo della relazione introduttiva di Raffaele Morese, Presidente di Koiné.

 

UNA CERTA IDEA DI ROMA

Le città non sono cose nostre di cui si possa disporre a piacimento: sono cose altrui, delle generazioni venture, delle quali nessuno può violare il diritto e l’attesa… Sono la casa comune che va usata e migliorata; che non va distrutta mai!…Per questo occorre riscoprire il valore e il destino delle città ed affermare il diritto inalienabile che hanno sopra di esse le generazioni venture: nell’affermare, perciò, che le generazioni presenti non hanno il diritto di dilapidarle o di distruggerle”

Così si espresse uno dei più famosi sindaci d’Italia, Giorgio La Pira il 2 ottobre 1955 nel salone dei Cinquecento, davanti ai sindaci di tutto il mondo. Così mi sento di condividerle e ripeterle. Abbiamo presente, infatti, il pericolo che corre Roma, sottoposta da anni ad un disordine organizzato, spesso a fini ignobilmente privati ed ora esposta ad un preoccupante logorio.

Ma non possiamo lasciare che il rumore assordante della deriva prosegua senza una reazione di quanti ritengono che le generazioni future non meritano questo lascito. Ci saranno le elezioni per il nuovo sindaco e il nuovo consiglio comunale. Evento che, ci auguriamo, rappresenti un’occasione per tutti di un’inversione di tendenza, di una presa di coscienza salda della necessità di affrontare le tante questioni irrisolte di questa città. Non solo chi l’abiterà in futuro, ma anche il contemporaneo ha diritto di vivere bene la città. Si tratta di un’impresa senza precedenti, ma neanche impossibile, specie se si realizzano alcune condizioni basilari.

La prima condizione. Un esplicito, ampio, costruttivo dibattito sulla Roma di domani. Le emergenze sono numerose, quasi tutte incancrenitesi nel corso degli anni. Esse sono state aggravate dal prevalere della logica della toppa e per di più, esasperate dalle insoddisfazioni popolari o dalle resistenze corporative o per la crescita della marginalità sociale. Roma deve ritrovare la sua anima di grande capitale europea, ospitale, solidale, creativa, aperta alle innovazioni, attrattiva di investimenti e intelligenze. Senza questo sforzo, le emergenze la travolgeranno. Ma non illudiamoci. Il miracolismo non è la ricetta giusta. Le questioni sono complesse e non ci sono soluzioni facili. La semplificazione non si addice all’agenda del risanamento morale, economico e civico della città.

Infatti, sarà necessario un duro e paziente lavoro di impostazione programmatica: dalle attività produttive agricole, industriali e turistiche, ai servizi pubblici e privati rivolti alle persone e alle imprese; dall’assetto urbano a partire dalle periferie, alla rigenerazione e riuso in chiave ambientalista del patrimonio immobiliare esistente; dalla valorizzazione dell’immenso giacimento culturale per il quale non basta né la pura conservazione, né il pur necessario supporto di tecnologie, alla ridefinizione di un welfare locale – integrato tra pubblico e privato – attento soprattutto agli anziani, alle donne, alle persone disabili, ed ai bambini. E’ un elenco denso, ma che in controluce fa vedere che c’è tanto lavoro da riqualificare e tanto lavoro da creare.

Soltanto un coinvolgente confronto tra tutti i protagonisti della vita concreta della città potrà favorire una qualità rassicurante alle priorità per le quali vale la pena spendere le molte o poche risorse umane e materiali disponibili. Soltanto in questo modo, i tanti interessi precostituiti, che hanno molte responsabilità per l’andazzo attuale, potranno essere ridimensionati e sopravanzati dal prevalere del bene comune.

Noi, oggi, avviamo un lavoro non facile di partecipazione al ridisegno del futuro della città. Come sollecita Renzo Piano, anche per Roma, c’è bisogno di un laborioso rammendo nelle relazioni umane e nella qualità della vita urbana, come antidoto al degrado, come vaccino per non passare dall’illusione alla delusione.

La seconda condizione. Far funzionare la catena di comando istituzionale. La compromissione e la confusione dei ruoli hanno sostituito, passo dopo passo, l’efficacia dell’impianto decisionale proprio di questo grande comune che non ha paragoni, per vastità, in Italia. Né la dimensione metropolitana è stata fatta propria dal sistema politico, al punto di andare con convinzione oltre il Campidoglio e dare corpo ad un inedito centro propulsore di una organizzazione più razionale della comunità.

La compromissione ha giocato un brutto scherzo alla politica. I cittadini se ne sono accorti e si sono allontanati progressivamente da essa o si sono rivolti ad offerte politiche improvvisate e inadeguate. La stessa istituzione comunale ha perso prestigio. Ad essa si è sommata una confusione chiassosa nel government. Specie nell’ambito delle aziende di servizio pubblico locale, si sono accumulati debiti, inefficienze e insoddisfazioni. La lista è lunga, ma per fare soltanto un esempio, nel sistema del trasporto pubblico, la sovrapposizione di centri decisionali, la provvisorietà delle soluzioni, la girandola dei cambiamenti manageriali (7 amministratori delegati negli ultimi 7 anni) hanno lasciato sgomenti e stremati sia chi vi lavora, sia chi lo utilizza.

Un nuovo ordinamento è inevitabile. Superare la dimensione comunale per quella metropolitana, privilegiare la struttura municipale, ripristinare la gerarchia, ciascuno nella propria autonomia, tra chi prende le decisioni strategiche, chi deve guidare la macchina gestionale dei servizi e dell’amministrazione e chi deve esercitare il controllo sui risultati, rendere equo ed efficiente il sistema fiscale e tariffario locale, abbattere sprechi e superfluo a vantaggio dei bisogni dei più deboli rappresentano le ragioni minimali per il buon governo dell’istituzione pubblica.

Soltanto in questo modo, anche l’apparato amministrativo può essere modellato a dimensione delle esigenze della cittadinanza. Non è vero che è tutto marcio; è vero che devono essere ripristinate le condizioni perché ciò che è sano emerga con dignità. Ma anche in questo caso, va detto con franchezza che le responsabilità apicali devono essere le prime ad essere sottoposte a revisioni profonde circa i meriti e i comportamenti. Il bandolo della matassa è da prendere da lì, con tenacia e lungimiranza. Soltanto così si può arrivare alla definizione di un vero e proprio patto tra chi vive nell’amministrazione e cittadini, i primi per assicurare efficienza ed efficacia; i secondi per saper coniugare, in una logica evolutiva di cittadinanza, i bisogni individuali con l’interesse collettivo.

La terza condizione. Far crescere coesione sociale e partecipazione dei cittadini. La società, come dice Zygmunt Bauman, è tendenzialmente liquida. Ma non può essere così scomposta da risultare dispersa. Anzi, occorre operare per non rendere irreversibili le solitudini, per far dialogare le culture diverse e trasformarle in ricchezza esistenziale, per responsabilizzare le persone nella gestione dei beni comuni a partire da quelli più a portata di mano, per avere quartieri a misura dei vecchi e dei bambini, per dare ai giovani occasioni di socialità e di comunicazione.

Per riannodare i fili della coesistenza tollerante, c’è lavoro per tutti. Il dialogo interreligioso e quello interculturale, sarà tanto più fecondo quanto più solleciterà alla convivenza pacifica, alla reciproca comprensione, all’integrazione nel tessuto cittadino. “La fede non genera odio, la fede non sparge sangue, la fede richiama al dialogo”, così si è espressa efficacemente Ruth Dureghello (presidente della comunità ebraica di Roma), salutando alcuni giorni fa, Papa Francesco in visita alla Sinagoga e rivolgendosi a tutte le comunità religiose. La multi etnicità, come condizione normale della vita di una comunità come quella romana, si gioverà grandemente dell’impegno al confronto e all’ascolto che le comunità religiose ed in genere le comunità di ogni cultura sapranno continuare ad alimentare e sviluppare.

L’impegno dei cittadini a farsi carico della buona gestione della città è un altro spaccato della partecipazione. Non basta votare (e sarà fatica questa volta convincere la gente ad andarci), non basta dare una delega. Occorre sentirsi coinvolti nelle grandi scelte della città (la candidatura di Roma alle olimpiadi del 2024 avrebbe meritato un coinvolgimento ben più ampio di un voto consiliare), ma anche nelle piccole, come tener pulito il marciapiede davanti al proprio negozio e non trattarlo da pattumiera che raccoglie la polvere accumulata all’interno. La responsabilità dei cittadini verso la cosa pubblica deve diventare un’eccellenza.

Milano ha dato recentemente un fenomenale segno di civismo. Centinaia di cittadini sono accorsi a ripulire le mura imbrattate dai Black Blocks nel giorno dell’inaugurazione dell’Expo. Ma non è solo merito dei singoli. Ci vuole spontaneismo, ma non è sufficiente. Senza lo “spintaneismo” dell’amministrazione milanese non ci sarebbe stata quell’organizzazione e quell’intensità di impegno a cui abbiamo assistito.

Con l’utilizzo di vecchi e nuovi strumenti di partecipazione, supportati anche dalle nuove tecnologie e dai nuovi mezzi di comunicazione, l’amministrazione della città deve dialogare con i suoi cittadini. In altre parole, la partecipazione va sollecitata, motivata, organizzata, fiancheggiata supportando l’estensione delle pratiche – spesso volontaristiche – già in atto e che rischiano di essere relegate a marginalità. E quindi, anche a Roma deve diventare un’abitudine, una normalità chiedere ai cittadini pareri, indicazioni, impegni.

Queste tre condizioni possono avere una ragionevole fattibilità se saranno accompagnate da due convincimenti. Il primo è che va archiviata l’idea, che ha avuto una discreta cittadinanza, per cui Roma può essere affidata soltanto a chi è estraneo alla politica e ha in spregio i partiti. Per quanto l’una e gli altri non volino abbastanza alto per essere guardati con ammirazione, una collettività non si governa sensatamente senza stabili organizzazioni di idee e uomini che si contendono la leadership. Queste organizzazioni e questa contesa vanno costruite attorno a una visione del futuro, non per l’accaparramento di posti. Il problema semmai è quello di alimentare tali organizzazioni perché le idee e soprattutto gli uomini siano meritevoli di essere votati, non solo perché sono onesti (ci mancherebbe!) ma perché hanno le capacità per ascoltare e per trasformare le visioni in fatti.

E questo si sposa con un altro convincimento. Che dalla società vi sia una continua sollecitazione verso la politica e i partiti. L’esercizio di questa pressione è tanto più efficace quanto più avviene con costanza, non in ordine sparso, con motivazioni molto forti. C’è stata una solitudine della politica negli ultimi anni, iniziata ben prima dell’ultima consiliatura, che ha avuto come interfaccia il mutismo civico che, benché incolpevole, ha subito passivamente devianze, inimmaginabili fino a qualche anno fa, nella gestione della Roma pubblica.

Sarebbe bene che, proprio dal basso – specie da parte di quelli che hanno da dire qualcosa perché fanno belle esperienze – emergesse un bisogno di protagonismo propositivo. “La politica sarà salvata soltanto dalla partecipazione dei cittadini” (Roberto Saviano, Il boss mascherato, Repubblica, 16/01/2016). Infatti, anche il migliore e più attrezzato personale politico non può gestire una realtà complessa soltanto in maniera illuministica. Il legame con l’opinione dei cittadini rappresenta la chiave per procedere con margini di sicurezza e di consenso.

C’è dunque bisogno che si attivino delle vedette, che si alimentino sensori, si formino antidoti per prevenire errori e per sostenere scelte avvedute. E’ un compito che vale per ciascuno di noi, ma che acquista valenza politica se è espressione di un atteggiamento collettivo. Di una comunità che si fa rete. Non ci si può limitare a denunciare o impedire illegalità, scorrettezze, imbrogli. Si devono indicare e sostenere percorsi virtuosi e scelte volte all’interesse generale.

I lavori di questa giornata vaglieranno la portata ideale e concreta di questa sollecitazione. La narrazione che raccoglieremo non dovrà essere ascritta all’antipolitica, bensì alla volontà di dare un senso robusto all’agire politico. E se lo faremo in modo cooperativo, senza burocratismi e con tanta passione, potremo dire di non aver perso tempo prezioso, ma di aver dato ragione a don Tonino Bello che amava dire che “ siamo angeli con un’ala sola e possiamo volare soltanto se restiamo abbracciati”.

Il nuovo “corso” del servizio civile. Intervista al sottosegretario al Welfare Luigi Bobba

Luigi Bobba (Ansa)

Luigi Bobba (Ansa)

Molte novità, con la riforma del terzo settore, sono previste nell’ambito del “servizio civile”. Ne parliamo in questa intervista con l’onorevole Luigi Bobba (PD) Sottosegretario al Welfare con delega specifica per il “Terzo Settore”.

Onorevole Bobba, partiamo dalla Riforma del Terzo Settore. La legge delega è uscita dal Consiglio dei Ministri nel Luglio 2014, è da più di un anno in discussione in Parlamento. I 5 milioni di volontari stanno aspettando delle risposte chiare a riguardo. A che punto siamo? Quando pensa che potrà arrivare in porto?

La legge delega di “Riforma del terzo settore, della disciplina del servizio civile e dell’impresa sociale” è stata approvata in prima lettura il 9 Aprile 2015 dalla Camera. E’ poi passata al Senato dove ha subito un rallentamento. Ma ora siamo pronti a riprendere il cammino in Commissione Affari Istituzionali dove, presumibilmente nella prossima settimana, si incominceranno a votare gli emendamenti. L’approvazione definitiva della legge – come ha detto di recente il Ministro Maria Elena Boschi –  è prevista per la primavera di quest’anno.

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“Voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede”. Il testo del discorso di Papa Francesco alla comunità ebraica nella Sinagoga di Roma

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Grande emozione ha suscitato  la visita di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma. Emozionante per il clima veramente fraterno della comunità ebraica nei confronti del Papa. Il Papa ha ricambiato con la sua grande umanità, pronunciando parole indelebili. Ma aldilà delle parole, importanti quelle del Rabbino capo, sono stati i segni, i comportamenti , che hanno segnato la visita. Il clima di fraternità dominava il tutto. IRREVOCABILITÀ’ dell’alleanza di Dio con il Popolo d’Israele, la chiave è tutta qui. Da questo discende tutto il futuro dell’impegno per la pace di ebrei e cristiani. La profezia del Concilio, il documento Nostra Aetate, dà il suo frutto. In questa visita non potevano mancare le PAROLE forti sulla Shoah. Ma ancora una volta sono stati i gesti a incarnare le parole. L’abbraccio di Francesco nei confronti dei sopravvissuti di Auschwitz è stato forte. Emblematico,così, è stato il canto finale, Ani maamin,: “credo in piena fede nella venuta del messia”, che cantavano gli ebrei mentre andavano a morire nei crematori, . un canto struggente, che ti toglie il respiro.

Una giornata indelebile per la storia millenaria dell’ebraismo e del cristianesimo.

Di seguito pubblichiamo il testo dell’intervento del Papa:

Cari fratelli e sorelle,

sono felice di trovarmi oggi con voi in questo Tempio Maggiore. Ringrazio per le loro cortesi parole il Dottor Di Segni, la Dottoressa Dureghello e l’Avvocato Gattegna; e ringrazio voi tutti per la calorosa accoglienza, grazie! Todà rabbà!

Nella mia prima visita a questa Sinagoga come Vescovo di Roma, desidero esprimere a voi, estendendolo a tutte le comunità ebraiche, il saluto fraterno di pace di questa Chiesa e dell’intera Chiesa cattolica.

Le nostre relazioni mi stanno molto a cuore. Già a Buenos Aires ero solito andare nelle sinagoghe e incontrare le comunità là riunite, seguire da vicino le feste e le commemorazioni ebraiche e rendere grazie al Signore, che ci dona la vita e che ci accompagna nel cammino della storia. Nel corso del tempo, si è creato un legame spirituale, che ha favorito la nascita di autentici rapporti di amicizia e anche ispirato un impegno comune. Nel dialogo interreligioso è fondamentale che ci incontriamo come fratelli e sorelle davanti al nostro Creatore e a Lui rendiamo lode, che ci rispettiamo e apprezziamo a vicenda e cerchiamo di collaborare. E nel dialogo ebraico-cristiano c’è un legame unico e peculiare, in virtù delle radici ebraiche del cristianesimo: ebrei e cristiani devono dunque sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio e da un ricco patrimonio spirituale comune (cfr Dich. Nostra Aetate 4), sul quale basarsi e continuare a costruire il futuro.

Con questa mia visita seguo le orme dei miei Predecessori., Papa Giovanni Paolo II venne qui trent’anni fa, il 13 aprile 1986; e Papa Benedetto XVI è stato tra voi sei anni or sono. Giovanni Paolo II, in quella occasione, coniò la bella espressione “fratelli maggiori”, e infatti voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede. Tutti quanti apparteniamo ad un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci protegge come suo popolo. Insieme, come ebrei e come cattolici, siamo chiamati ad assumerci le nostre responsabilità per questa città, apportando il nostro contributo, anzitutto spirituale, e favorendo la risoluzione dei diversi problemi attuali. Mi auguro che crescano sempre più la vicinanza, la reciproca conoscenza e la stima tra le nostre due comunità di fede. Per questo è significativo che io sia venuto tra voi proprio oggi, 17 gennaio, quando la Conferenza Episcopale Italiana celebra la “Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei”.

Abbiamo da poco commemorato il 50º anniversario della Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II, che ha reso possibile il dialogo sistematico tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Il 28 Ottobre scorso, in Piazza San Pietro., ho potuto salutare anche un gran numero di rappresentanti ebraici, e mi sono così espresso: «Una speciale gratitudine a Dio merita la vera e propria trasformazione che ha avuto in questi cinquant’anni il rapporto tra cristiani ed ebrei. Indifferenza e opposizione si sono mutate in collaborazione e benevolenza. Da nemici ed estranei, siamo diventati amici e fratelli. Il Concilio, con la Dichiarazione Nostra aetate ha tracciato la via: “sì” alla riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo; “no” ad ogni forma di antisemitismo, e condanna di ogni ingiuria, discriminazione e persecuzione che ne derivano». Nostra aetate ha definito teologicamente per la prima volta, in maniera esplicita, le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Essa naturalmente non ha risolto tutte le questioni teologiche che ci riguardano, ma vi ha fatto riferimento in maniera incoraggiante, fornendo un importantissimo stimolo per ulteriori, necessarie riflessioni. A questo proposito, il 10 dicembre 2015, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo , ha pubblicato un nuovo documento, che affronta le questioni teologiche emerse negli ultimi decenni trascorsi dalla promulgazione di Nostra aetate. Infatti, la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico merita di essere sempre più approfondita, e desidero incoraggiare tutti coloro che sono impegnati in questo dialogo a continuare in tal senso, con discernimento e perseveranza. Proprio da un punto di vista teologico, appare chiaramente l’inscindibile legame che unisce cristiani ed ebrei. I cristiani, per comprendere sé stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche, e la Chiesa, pur professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità dell’Antica Alleanza e l’amore costante e fedele di Dio per Israele.

Insieme con le questioni teologiche, non dobbiamo perdere di vista le grandi sfide che il mondo di oggi si trova ad affrontare. Quella di una ecologia integrale è ormai prioritaria, e come cristiani ed ebrei possiamo e dobbiamo offrire all’umanità intera il messaggio della Bibbia circa la cura del creato. Conflitti, guerre, violenze ed ingiustizie aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno per la pace e la giustizia. La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche. La vita è sacra, quale dono di Dio. Il quinto comandamento del Decalogo dice: «Non uccidere» (Es 20,13). Dio è il Dio della vita, e vuole sempre promuoverla e difenderla; e noi, creati a sua immagine e somiglianza, siamo tenuti a fare lo stesso. Ogni essere umano, in quanto creatura di Dio, è nostro fratello, indipendentemente dalla sua origine o dalla sua appartenenza religiosa. Ogni persona va guardata con benevolenza, come fa Dio, che porge la sua mano misericordiosa a tutti, indipendentemente dalla loro fede e dalla loro provenienza, e che si prende cura di quanti hanno più bisogno di Lui: i poveri, i malati, gli emarginati, gli indifesi. Là dove la vita è in pericolo, siamo chiamati ancora di più a proteggerla. Né la violenza né la morte avranno mai l’ultima parola davanti a Dio, che è il Dio dell’amore e della vita. Noi dobbiamo pregarlo con insistenza affinché ci aiuti a praticare in Europa, in Terra Santa, in Medio Oriente, in Africa e in ogni altra parte del mondo la logica della pace, della riconciliazione, del perdono, della vita.

Il popolo ebraico, nella sua storia, ha dovuto sperimentare la violenza e la persecuzione, fino allo sterminio degli ebrei europei durante la Shoah. Sei milioni di persone, solo perché appartenenti al popolo ebraico, sono state vittime della più disumana barbarie, perpetrata in nome di un’ideologia che voleva sostituire l’uomo a Dio. Il 16 ottobre 1943, oltre mille uomini, donne e bambini della comunità ebraica di Roma furono deportati ad Auschwitz. Oggi desidero ricordarli con il cuore, in modo particolare: le loro sofferenze, le loro angosce, le loro lacrime non devono mai essere dimenticate. E il passato ci deve servire da lezione per il presente e per il futuro. La Shoah ci insegna che occorre sempre massima vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della dignità umana e della pace. Vorrei esprimere la mia vicinanza ad ogni testimone della Shoah ancora vivente; e rivolgo il mio saluto particolare a voi, che siete qui presenti.

Cari fratelli maggiori, dobbiamo davvero essere grati per tutto ciò che è stato possibile realizzare negli ultimi cinquant’anni, perché tra noi sono cresciute e si sono approfondite la comprensione reciproca, la mutua fiducia e l’amicizia. Preghiamo insieme il Signore, affinché conduca il nostro cammino verso un futuro buono, migliore. Dio ha per noi progetti di salvezza, come dice il profeta Geremia: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore –, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Che il Signore ci benedica e ci protegga. Faccia splendere il suo volto su di noi e ci doni la sua grazia. Rivolga su di noi il suo volto e ci conceda la pace (cfr Nm 6,24-26). Shalom alechem!

Dal Sito:  HYPERLINK 

“Il nome di Dio è Misericordia”. Il libro-intervista di Papa Francesco

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Saranno il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, l’attore Roberto Benigni, Padre Federico Lombardi e Jianqing Zhang Agostino (ospite del carcere di Padova) a presentare il  libro-intervista, scritto dal vaticanista della Stampa Andrea Tornielli, al Papa Francesco dal titolo «Il nome di Dio è Misericordia», domani, nella tarda mattinata, all’Augustianum di Roma situato a due passi da Piazza San Pietro. Anche Rainews24 seguirà la presentazione. Questo libro, scrive Tornielli, “è il frutto di un colloquio cominciato nel salottino della sua abitazione, nella Casa Santa Marta in Vaticano, in un afosissimo pomeriggio dello scorso luglio, pochi giorni dopo il ritorno dal viaggio in Ecuador, Bolivia e Paraguay”. Il libro-intervista, da domani in libreria per le edizioni Piemme, esce in contemporanea in 86 Paesi: tra gli editori ci sono, Verlag e Planeta.

Quello di Francesco è un vero e proprio inno alla Misericordia di Dio, una misericordia vissuta nella sua esperienza di Pastore nei luoghi delle periferie esistenziali e sociali dell’Argentina.

Dal libro esce un ritratto a tinte forti dell’ecclesiologia missionaria di Bergoglio, una sfida profetica per tutta la Chiesa cattolica.

Di seguito pubblichiamo un breve estratto, tratto dal sito http://www.lastampa.it/vaticaninsider/ita, del libro di Andrea Tornielli.

Troppa misericordia?  

La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un peccato. Ma allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio. Gesù ha perdonato persino quelli che lo hanno messo in croce e lo hanno disprezzato. Dobbiamo tornare al Vangelo. Là troviamo che non si parla solo di accoglienza e di perdono, ma si parla di “festa” per il figlio che ritorna. L’espressione della misericordia è la gioia della festa, che troviamo bene espressa nel Vangelo di Luca: «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (15, 7). Non dice: e se poi dovesse ricadere, tornare indietro, compiere ancora peccati, che si arrangi da solo! No, perché a Pietro che gli domandava quante volte bisogna perdonare, Gesù ha detto: «Settanta volte sette» (Vangelo di Matteo 18, 22), cioè sempre.

Al figlio maggiore del padre misericordioso (il riferimento è alla parabola del Figlio Prodigo, ndr.) è stato permesso di dire la verità di quanto accaduto, anche se non capiva, anche perché l’altro fratello, quando ha cominciato ad accusarsi, non ha avuto il tempo di parlare: il padre l’ha fermato e lo ha abbracciato. Proprio perché c’è il peccato nel mondo, proprio perché la nostra natura umana è ferita dal peccato originale, Dio che ha donato suo Figlio per noi non può che rivelarsi come misericordia. […]

Seguendo il Signore, la Chiesa è chiamata a effondere la sua misericordia su tutti coloro che si riconoscono peccatori, responsabili del male compiuto, che si sentono bisognosi di perdono. La Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio. Perché ciò accada, lo ripeto spesso, è necessario uscire. Uscire dalle chiese e dalle parrocchie, uscire e andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono, dove sperano. L’ospedale da campo, l’immagine con la quale mi piace descrivere questa “Chiesa in uscita”, ha la caratteristica di sorgere là dove si combatte: non è la struttura solida, dotata di tutto, dove ci si va a curare per le piccole e grandi infermità. È una struttura mobile, di primo soccorso, di pronto intervento, per evitare che i combattenti muoiano. Vi si pratica la medicina d’urgenza, non si fanno i check-up specialistici. Spero che il Giubileo straordinario faccia emergere sempre di più il volto di una Chiesa che riscopre le viscere materne della misericordia e che va incontro ai tanti “feriti” bisognosi di ascolto, comprensione, perdono e amore.

Andrea Tornielli, Il nome di Dio è Misericordia, Ed. Piemme, Milano 2016, pagg. 120, 15 €