Una certa idea di Roma. Un testo di Raffaele Morese

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Raffaele Morese (Ansa)

Domani mattina a Roma, presso l’Auditorium Antonianum , in via Manzoni 1, si svolgerà un forum, organizzato dall’associazione Koiné, su : “la primavera di Roma”. Sono previsti, tra gli altri, gli interventi di : Raffaele Morese, Fabrizio Barca, Pierre Carniti, Giorgio Benveuto, Innocenzo Cipolletta,  Pietro Barrera, Andrea Riccardi, Giuseppe Roma, Andrea Romano e tanti altri (vedi www. e-koine.com programma e documento di base).

Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione, il testo della relazione introduttiva di Raffaele Morese, Presidente di Koiné.

 

UNA CERTA IDEA DI ROMA

Le città non sono cose nostre di cui si possa disporre a piacimento: sono cose altrui, delle generazioni venture, delle quali nessuno può violare il diritto e l’attesa… Sono la casa comune che va usata e migliorata; che non va distrutta mai!…Per questo occorre riscoprire il valore e il destino delle città ed affermare il diritto inalienabile che hanno sopra di esse le generazioni venture: nell’affermare, perciò, che le generazioni presenti non hanno il diritto di dilapidarle o di distruggerle”

Così si espresse uno dei più famosi sindaci d’Italia, Giorgio La Pira il 2 ottobre 1955 nel salone dei Cinquecento, davanti ai sindaci di tutto il mondo. Così mi sento di condividerle e ripeterle. Abbiamo presente, infatti, il pericolo che corre Roma, sottoposta da anni ad un disordine organizzato, spesso a fini ignobilmente privati ed ora esposta ad un preoccupante logorio.

Ma non possiamo lasciare che il rumore assordante della deriva prosegua senza una reazione di quanti ritengono che le generazioni future non meritano questo lascito. Ci saranno le elezioni per il nuovo sindaco e il nuovo consiglio comunale. Evento che, ci auguriamo, rappresenti un’occasione per tutti di un’inversione di tendenza, di una presa di coscienza salda della necessità di affrontare le tante questioni irrisolte di questa città. Non solo chi l’abiterà in futuro, ma anche il contemporaneo ha diritto di vivere bene la città. Si tratta di un’impresa senza precedenti, ma neanche impossibile, specie se si realizzano alcune condizioni basilari.

La prima condizione. Un esplicito, ampio, costruttivo dibattito sulla Roma di domani. Le emergenze sono numerose, quasi tutte incancrenitesi nel corso degli anni. Esse sono state aggravate dal prevalere della logica della toppa e per di più, esasperate dalle insoddisfazioni popolari o dalle resistenze corporative o per la crescita della marginalità sociale. Roma deve ritrovare la sua anima di grande capitale europea, ospitale, solidale, creativa, aperta alle innovazioni, attrattiva di investimenti e intelligenze. Senza questo sforzo, le emergenze la travolgeranno. Ma non illudiamoci. Il miracolismo non è la ricetta giusta. Le questioni sono complesse e non ci sono soluzioni facili. La semplificazione non si addice all’agenda del risanamento morale, economico e civico della città.

Infatti, sarà necessario un duro e paziente lavoro di impostazione programmatica: dalle attività produttive agricole, industriali e turistiche, ai servizi pubblici e privati rivolti alle persone e alle imprese; dall’assetto urbano a partire dalle periferie, alla rigenerazione e riuso in chiave ambientalista del patrimonio immobiliare esistente; dalla valorizzazione dell’immenso giacimento culturale per il quale non basta né la pura conservazione, né il pur necessario supporto di tecnologie, alla ridefinizione di un welfare locale – integrato tra pubblico e privato – attento soprattutto agli anziani, alle donne, alle persone disabili, ed ai bambini. E’ un elenco denso, ma che in controluce fa vedere che c’è tanto lavoro da riqualificare e tanto lavoro da creare.

Soltanto un coinvolgente confronto tra tutti i protagonisti della vita concreta della città potrà favorire una qualità rassicurante alle priorità per le quali vale la pena spendere le molte o poche risorse umane e materiali disponibili. Soltanto in questo modo, i tanti interessi precostituiti, che hanno molte responsabilità per l’andazzo attuale, potranno essere ridimensionati e sopravanzati dal prevalere del bene comune.

Noi, oggi, avviamo un lavoro non facile di partecipazione al ridisegno del futuro della città. Come sollecita Renzo Piano, anche per Roma, c’è bisogno di un laborioso rammendo nelle relazioni umane e nella qualità della vita urbana, come antidoto al degrado, come vaccino per non passare dall’illusione alla delusione.

La seconda condizione. Far funzionare la catena di comando istituzionale. La compromissione e la confusione dei ruoli hanno sostituito, passo dopo passo, l’efficacia dell’impianto decisionale proprio di questo grande comune che non ha paragoni, per vastità, in Italia. Né la dimensione metropolitana è stata fatta propria dal sistema politico, al punto di andare con convinzione oltre il Campidoglio e dare corpo ad un inedito centro propulsore di una organizzazione più razionale della comunità.

La compromissione ha giocato un brutto scherzo alla politica. I cittadini se ne sono accorti e si sono allontanati progressivamente da essa o si sono rivolti ad offerte politiche improvvisate e inadeguate. La stessa istituzione comunale ha perso prestigio. Ad essa si è sommata una confusione chiassosa nel government. Specie nell’ambito delle aziende di servizio pubblico locale, si sono accumulati debiti, inefficienze e insoddisfazioni. La lista è lunga, ma per fare soltanto un esempio, nel sistema del trasporto pubblico, la sovrapposizione di centri decisionali, la provvisorietà delle soluzioni, la girandola dei cambiamenti manageriali (7 amministratori delegati negli ultimi 7 anni) hanno lasciato sgomenti e stremati sia chi vi lavora, sia chi lo utilizza.

Un nuovo ordinamento è inevitabile. Superare la dimensione comunale per quella metropolitana, privilegiare la struttura municipale, ripristinare la gerarchia, ciascuno nella propria autonomia, tra chi prende le decisioni strategiche, chi deve guidare la macchina gestionale dei servizi e dell’amministrazione e chi deve esercitare il controllo sui risultati, rendere equo ed efficiente il sistema fiscale e tariffario locale, abbattere sprechi e superfluo a vantaggio dei bisogni dei più deboli rappresentano le ragioni minimali per il buon governo dell’istituzione pubblica.

Soltanto in questo modo, anche l’apparato amministrativo può essere modellato a dimensione delle esigenze della cittadinanza. Non è vero che è tutto marcio; è vero che devono essere ripristinate le condizioni perché ciò che è sano emerga con dignità. Ma anche in questo caso, va detto con franchezza che le responsabilità apicali devono essere le prime ad essere sottoposte a revisioni profonde circa i meriti e i comportamenti. Il bandolo della matassa è da prendere da lì, con tenacia e lungimiranza. Soltanto così si può arrivare alla definizione di un vero e proprio patto tra chi vive nell’amministrazione e cittadini, i primi per assicurare efficienza ed efficacia; i secondi per saper coniugare, in una logica evolutiva di cittadinanza, i bisogni individuali con l’interesse collettivo.

La terza condizione. Far crescere coesione sociale e partecipazione dei cittadini. La società, come dice Zygmunt Bauman, è tendenzialmente liquida. Ma non può essere così scomposta da risultare dispersa. Anzi, occorre operare per non rendere irreversibili le solitudini, per far dialogare le culture diverse e trasformarle in ricchezza esistenziale, per responsabilizzare le persone nella gestione dei beni comuni a partire da quelli più a portata di mano, per avere quartieri a misura dei vecchi e dei bambini, per dare ai giovani occasioni di socialità e di comunicazione.

Per riannodare i fili della coesistenza tollerante, c’è lavoro per tutti. Il dialogo interreligioso e quello interculturale, sarà tanto più fecondo quanto più solleciterà alla convivenza pacifica, alla reciproca comprensione, all’integrazione nel tessuto cittadino. “La fede non genera odio, la fede non sparge sangue, la fede richiama al dialogo”, così si è espressa efficacemente Ruth Dureghello (presidente della comunità ebraica di Roma), salutando alcuni giorni fa, Papa Francesco in visita alla Sinagoga e rivolgendosi a tutte le comunità religiose. La multi etnicità, come condizione normale della vita di una comunità come quella romana, si gioverà grandemente dell’impegno al confronto e all’ascolto che le comunità religiose ed in genere le comunità di ogni cultura sapranno continuare ad alimentare e sviluppare.

L’impegno dei cittadini a farsi carico della buona gestione della città è un altro spaccato della partecipazione. Non basta votare (e sarà fatica questa volta convincere la gente ad andarci), non basta dare una delega. Occorre sentirsi coinvolti nelle grandi scelte della città (la candidatura di Roma alle olimpiadi del 2024 avrebbe meritato un coinvolgimento ben più ampio di un voto consiliare), ma anche nelle piccole, come tener pulito il marciapiede davanti al proprio negozio e non trattarlo da pattumiera che raccoglie la polvere accumulata all’interno. La responsabilità dei cittadini verso la cosa pubblica deve diventare un’eccellenza.

Milano ha dato recentemente un fenomenale segno di civismo. Centinaia di cittadini sono accorsi a ripulire le mura imbrattate dai Black Blocks nel giorno dell’inaugurazione dell’Expo. Ma non è solo merito dei singoli. Ci vuole spontaneismo, ma non è sufficiente. Senza lo “spintaneismo” dell’amministrazione milanese non ci sarebbe stata quell’organizzazione e quell’intensità di impegno a cui abbiamo assistito.

Con l’utilizzo di vecchi e nuovi strumenti di partecipazione, supportati anche dalle nuove tecnologie e dai nuovi mezzi di comunicazione, l’amministrazione della città deve dialogare con i suoi cittadini. In altre parole, la partecipazione va sollecitata, motivata, organizzata, fiancheggiata supportando l’estensione delle pratiche – spesso volontaristiche – già in atto e che rischiano di essere relegate a marginalità. E quindi, anche a Roma deve diventare un’abitudine, una normalità chiedere ai cittadini pareri, indicazioni, impegni.

Queste tre condizioni possono avere una ragionevole fattibilità se saranno accompagnate da due convincimenti. Il primo è che va archiviata l’idea, che ha avuto una discreta cittadinanza, per cui Roma può essere affidata soltanto a chi è estraneo alla politica e ha in spregio i partiti. Per quanto l’una e gli altri non volino abbastanza alto per essere guardati con ammirazione, una collettività non si governa sensatamente senza stabili organizzazioni di idee e uomini che si contendono la leadership. Queste organizzazioni e questa contesa vanno costruite attorno a una visione del futuro, non per l’accaparramento di posti. Il problema semmai è quello di alimentare tali organizzazioni perché le idee e soprattutto gli uomini siano meritevoli di essere votati, non solo perché sono onesti (ci mancherebbe!) ma perché hanno le capacità per ascoltare e per trasformare le visioni in fatti.

E questo si sposa con un altro convincimento. Che dalla società vi sia una continua sollecitazione verso la politica e i partiti. L’esercizio di questa pressione è tanto più efficace quanto più avviene con costanza, non in ordine sparso, con motivazioni molto forti. C’è stata una solitudine della politica negli ultimi anni, iniziata ben prima dell’ultima consiliatura, che ha avuto come interfaccia il mutismo civico che, benché incolpevole, ha subito passivamente devianze, inimmaginabili fino a qualche anno fa, nella gestione della Roma pubblica.

Sarebbe bene che, proprio dal basso – specie da parte di quelli che hanno da dire qualcosa perché fanno belle esperienze – emergesse un bisogno di protagonismo propositivo. “La politica sarà salvata soltanto dalla partecipazione dei cittadini” (Roberto Saviano, Il boss mascherato, Repubblica, 16/01/2016). Infatti, anche il migliore e più attrezzato personale politico non può gestire una realtà complessa soltanto in maniera illuministica. Il legame con l’opinione dei cittadini rappresenta la chiave per procedere con margini di sicurezza e di consenso.

C’è dunque bisogno che si attivino delle vedette, che si alimentino sensori, si formino antidoti per prevenire errori e per sostenere scelte avvedute. E’ un compito che vale per ciascuno di noi, ma che acquista valenza politica se è espressione di un atteggiamento collettivo. Di una comunità che si fa rete. Non ci si può limitare a denunciare o impedire illegalità, scorrettezze, imbrogli. Si devono indicare e sostenere percorsi virtuosi e scelte volte all’interesse generale.

I lavori di questa giornata vaglieranno la portata ideale e concreta di questa sollecitazione. La narrazione che raccoglieremo non dovrà essere ascritta all’antipolitica, bensì alla volontà di dare un senso robusto all’agire politico. E se lo faremo in modo cooperativo, senza burocratismi e con tanta passione, potremo dire di non aver perso tempo prezioso, ma di aver dato ragione a don Tonino Bello che amava dire che “ siamo angeli con un’ala sola e possiamo volare soltanto se restiamo abbracciati”.