Nei giorni scorsi, a Verona , è morto Ottaviano Gelmini storico leader dei metalmeccanici della Cisl di Verona. Un testimone per tutto il movimento sindacale, un maestro per molti giovani sindacalisti. In tempi difficili per il movimento sindacale, ricordare questo “profeta-operaio”, come lo chiama il Segretario Nazionale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli, offre l’occasione per riflettere un poco sulle ragioni profonde del fare sindacato. Ragioni e ideali che Ottaviano Gelmini ha incarnato con grande rigore morale.
Pubblichiamo, per gentile concessione della Segreteria Nazionale della Fim, questo ricordo di Gelmini.
“Sono nato nel 1937. Per capire come le cose sono cambiate nella mia vita, basta pensare che mi chiamo Gelmino perché, quando mi hanno battezzato, questo strano nome era di moda”.
Comincia con questa intelligente ed ironica consapevolezza il racconto “Cipolle e Libertà” – a cura di un grande narratore di storie personali, quale è stato Federico Bozzini – della vita di Gelmino Ottaviani, operaio metalmeccanico veneto, poi storico dirigente sindacale della Fim, la categoria dei metalmeccanici della Cisl.
Gelmino e’ scomparso il 23 febbraio, ma l’insegnamento che ci lascia non scomparirà mai.
“Cipolle e Libertà” e’ un racconto intenso, che ha ispirato anche un bellissimo monologo del Teatro Civico di Marco Paolini, un libro che si legge tutto d’un fiato e da cui emerge tanto, sia della storia da cui veniamo, ma anche e soprattutto del presente che stiamo vivendo.
Infatti, la cosa che più colpisce delle parole e dei pensieri di Gelmino e’ la loro incredibile, straordinaria attualità, tanto da rendere questo uomo un “profeta” dei nostri giorni, una mente lungimirante che è stata e rimarrà sempre un punto di riferimento indimenticabile per molti di noi.
Attraverso la sua vita ripercorriamo la storia del nostro Paese dal Dopoguerra in poi, i principali avvenimenti che hanno caratterizzato il Novecento, la Guerra, gli attentati terroristici, ma anche il boom economico degli anni Sessanta e le prime automatizzazioni industriali.
Situazioni che Gelmino affrontò con grande coraggio e determinazione.
“Cosa ti ricordi della guerra?
I bombardamenti, quelli me li ricordo.
Ma non mi ricordo di avere avuto paura”.
Il 6 settembre 1954 inizio’ a lavorare come tornitore alla Riello (“noi da operai stavamo bene”, “mi pareva di avere il vestito da sera”) vivendo, dall’interno della sua fabbrica a Legnago, in provincia di Verona, il boom degli anni Sessanta quando “la gente si è messa il riscaldamento in casa”.
Ma poi, come egli stesso ci ricorda (“Le sconfitte sono sempre iniziate il giorno dopo delle vittorie”), i suoi colleghi hanno “cominciato a lavorare il doppio guadagnando meno” e i giovani operai che Gelmino vedeva arrivare in fabbrica non avevano più quel senso di appartenenza che aveva contraddistinto il suo ingresso in Riello.
Poi iniziarono i licenziamenti.
Nel ’58 si iscrisse alla Fim e Gelmino ci racconta con grandissimo ed intenso realismo tutta la fatica di fare il sindacalista, di togliere tempo e spazio a moglie e figli per “insegnare” ai colleghi i concetti di giustizia sociale, di redistribuzione della ricchezza, di democrazia, di senso del dovere (“non era tempo perso”, ci dice).
Non aveva paura di lottare, di scontrarsi con i superiori per difendere questi principi, per osteggiare i soprusi, lo sfruttamento, le ingiustizie.
Una volta, di fronte ad un capo del personale che “teorizzava la linea dura”, Gelmino gli rispose – per nulla intimorito: “Senta, io a casa ho ancora una cassetta di cipolle. E, mangiando pane e cipolle, metto in ginocchio la Riello”.
Era faticoso “tenere assieme” i lavoratori, fare sintesi di opinioni diverse e spesso in conflitto tra loro, ma ne valeva la pena perché era l’unica strada per apprendere quella che forse è la lezione più grande che ci ha lasciato Gelmino, la libertà.
Perché la libertà non cade dall’alto, si conquista, si sceglie. Soprattutto la libertà di pensiero.
Sosteneva: “Si dice sempre che il tempo e’ denaro, ma il denaro non è tempo. Non è reversibile l’equazione. Il tempo e’ vita. E, se è vita, decido io dove investirlo: nella pesca, nell’orto, al sindacato, in famiglia. Questa è liberta’. Lo so che è una parola grossa, allora la riempi di parole piccole e vai meglio”.
Gelmino e’ stato anche uno straordinario modello di semplicità e di sobrietà, valori che gli derivavano dalla sua umile famiglia di origine – quella in cui la ‘mansarda’ di oggi era ancora il ‘granaro’ – ma che lui scelse di non tradire mai (“Quello che prendevo mi bastava. Bisogna aver fatto la fame per sapere quanto poco ti basta per campare”).
Ora, in una società che si ostina a rimanere egoisticamente, selettivamente opulenta e che non ha imparato la lezione neanche dopo la crisi iniziata nel 2008, questi valori sono un faro che deve illuminare la nostra attività e il nostro impegno civico, così come lo sono stati nella vita di Ottaviani.
Suonano tristemente profetiche anche le sue parole riguardo alla pensione, ‘guadagnata’ dopo una vita di lavoro: “Io sono un privilegiato perché tutte le mattine in cui mi sveglio sotto al letto trovo le cinquanta mila lire che mi spettano di pensione”.
Gelmino non si è mai rassegnato, e in questo abbiamo il dovere di seguire il suo esempio fino in fondo, ad una società in cui i giovani non riescono neanche ad immaginare la pensione perché il futuro e’ stato loro rubato da chi ha scambiato la libertà del lavoro con il denaro, da chi ha pensato di sfruttare il presente e gli altri, ma ha scoperto di avere perso tutto, anche se stesso.
“Se la Repubblica e’ fondata sul lavoro, anche tu ti sei fondato sul lavoro. Hai capito che il lavoro non sempre rende liberi.
Servono almeno un metro uguale per tutti, regole non scritte, da non cambiare in corso, cipolle per resistere e senso del limite. Senso del limite. Perché se no sei un poveretto, anche se sei miliardario”.
Gelmino ci ha insegnato il significato delle parole “dovere”, “responsabilità”, “libertà” e “limite”: un patrimonio di valore inestimabile di cui gli saremo sempre riconoscenti, ma che soprattutto abbiamo il dovere di non sprecare.
*Segretario Generale Nazionale Fim – Cisl
Pubblichiamo un estratto del libro Cipolle e libertà, ricordi e pensieri di Gelmino Ottaviani, operaio metalmeccanico alla soglia della pensione, di Federico Bozzini, Edizioni Lavoro.
(…) Sono sempre stato curiosissimo di tutte le novità che incrociavo.
Mi interessava veramente osservare e capire. Da quel momento gli studenti hanno cominciato ad arrivare davanti alla fabbrica e a frequentare le sedi del sindacato. Noi della Fim aprivamo la porta a tutti: chi ci chiedeva di discutere ci invitava a nozze. Non avevamo nessuna paura degli extraparlamentari, forse perché anche le nostre idee sbrindellate non stavano in nessun partito. Diverso era l’atteggiamento dei compagni della Cgil. Loro un partito ce l’avevano e guardavano con sospetto a tutta questa ventata di nuove idee che sembravano ridiscutere tutto e tutti. La Riello aveva una tradizione di operai comunisti. Se uno era comunista era della Fiom e della Cgil per forza. Noi siamo stati i primi a sgarrare questa regola. Ma per loro restavamo i “mocoletti”, ii ravanelli: rossi fuori e bianchi dentro. Non me lo hanno mai dette in faccia queste cose, ma non c’è alcun dubbio che dietro le spalle la menavano alla grande. L’obiezione che ti facevano era semplice: ma come, tu sei socialista, perché non vieni alla Cgil? Sei socialista e allora perché perdi tempo a chiacchierare con questa gente che critica sindacato o partito? Quando non si discuteva in fabbrica, c’erano riunioni di fuoco in sede. Non ho mai ascoltato e parlato tanto in vita mia. Tutto stava cambiando e discutere era l’unica maniera per capire. C’era tutto il mondo che si muoveva ed era affascinante cercar di intuirne la direzione… Avevo un figlio di 4 anni e uno di otto mesi. Mi ricordo l’8 dicembre del 1969 ero stato a Verona a un comizio di Bruno Storti, allora segretario generale della Cisl. Faceva freddo e per la fretta ho lasciato in casa la stufa a cherosene con i tubi staccati. Mia moglie, per non far battere i denti ai bambini, ha dovuto arrangiarsi a montare gli scarichi da sola. Quando sono tornato ne ho sentite di tutti i colori. Un giorno è scoppiata e mi ha detto: “se avessi saputo che avresti fatto una vita del genere, non ti avrei sposato”. In quei mesi i figli li vedevo e non li vedevo. Molto spesso ero lontano da casa anche la domenica. Al mattino arrivava la bianchina di Natali o la Prinz verde di Viviani e partivo.