Cipolle e Libertà. Storia di un profeta – operaio. Un ricordo di Gelmino Ottaviani di Marco Bentivogli*

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Nei giorni scorsi, a Verona , è morto Ottaviano Gelmini storico leader dei metalmeccanici della Cisl di Verona. Un testimone per tutto il movimento sindacale, un maestro per molti giovani sindacalisti. In tempi difficili per il movimento sindacale, ricordare questo “profeta-operaio”, come lo chiama il Segretario Nazionale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli, offre l’occasione per riflettere un poco sulle ragioni profonde del fare sindacato. Ragioni e ideali che Ottaviano Gelmini ha incarnato con grande rigore morale.

Pubblichiamo, per gentile concessione della Segreteria Nazionale della Fim, questo ricordo di Gelmini.

“Sono nato nel 1937. Per capire come le cose sono cambiate nella mia vita, basta pensare che mi chiamo Gelmino perché, quando mi hanno battezzato, questo strano nome era di moda”.

Comincia con questa intelligente ed ironica consapevolezza il racconto “Cipolle e Libertà” – a cura di un grande narratore di storie personali, quale è stato Federico Bozzini – della vita di Gelmino Ottaviani, operaio metalmeccanico veneto, poi storico dirigente sindacale della Fim, la categoria dei metalmeccanici della Cisl.

Gelmino e’ scomparso il 23 febbraio, ma l’insegnamento che ci lascia non scomparirà mai.

“Cipolle e Libertà” e’ un racconto intenso, che ha ispirato anche un bellissimo monologo del Teatro Civico di Marco Paolini, un libro che si legge tutto d’un fiato e da cui emerge tanto, sia della storia da cui veniamo, ma anche e soprattutto del presente che stiamo vivendo.

Infatti, la cosa che più colpisce delle parole e dei pensieri di Gelmino e’ la loro incredibile, straordinaria attualità, tanto da rendere questo uomo un “profeta” dei nostri giorni, una mente lungimirante che è stata e rimarrà sempre un punto di riferimento indimenticabile per molti di noi.

Attraverso la sua vita ripercorriamo la storia del nostro Paese dal Dopoguerra in poi, i principali avvenimenti che hanno caratterizzato il Novecento, la Guerra, gli attentati terroristici, ma anche il boom economico degli anni Sessanta e le prime automatizzazioni industriali.

Situazioni che Gelmino affrontò con grande coraggio e determinazione.

“Cosa ti ricordi della guerra?

I bombardamenti, quelli me li ricordo.

Ma non mi ricordo di avere avuto paura”.

Il 6 settembre 1954 inizio’ a lavorare come tornitore alla Riello (“noi da operai stavamo bene”, “mi pareva di avere il vestito da sera”) vivendo, dall’interno della sua fabbrica a Legnago, in provincia di Verona, il boom degli anni Sessanta quando “la gente si è messa il riscaldamento in casa”.

Ma poi, come egli stesso ci ricorda (“Le sconfitte sono sempre iniziate il giorno dopo delle vittorie”), i suoi colleghi hanno “cominciato a lavorare il doppio guadagnando meno” e i giovani operai che Gelmino vedeva arrivare in fabbrica non avevano più quel senso di appartenenza che aveva contraddistinto il suo ingresso in Riello.

Poi iniziarono i licenziamenti.

Nel ’58 si iscrisse alla Fim e Gelmino ci racconta con grandissimo ed intenso realismo tutta la fatica di fare il sindacalista, di togliere tempo e spazio a moglie e figli per “insegnare” ai colleghi i concetti di giustizia sociale, di redistribuzione della ricchezza, di democrazia, di senso del dovere (“non era tempo perso”, ci dice).

Non aveva paura di lottare, di scontrarsi con i superiori per difendere questi principi, per osteggiare i soprusi, lo sfruttamento, le ingiustizie.

Una volta, di fronte ad un capo del personale che “teorizzava la linea dura”, Gelmino gli rispose – per nulla intimorito:  “Senta, io a casa ho ancora una cassetta di cipolle. E, mangiando pane e cipolle, metto in ginocchio la Riello”.

Era faticoso “tenere assieme” i lavoratori, fare sintesi di opinioni diverse e spesso in conflitto tra loro, ma ne valeva la pena perché era l’unica strada per apprendere quella che forse è la lezione più grande che ci ha lasciato Gelmino, la libertà.

Perché la libertà non cade dall’alto, si conquista, si sceglie. Soprattutto la libertà di pensiero.

Sosteneva: “Si dice sempre che il tempo e’ denaro, ma il denaro non è tempo. Non è reversibile l’equazione. Il tempo e’ vita. E, se è vita, decido io dove investirlo: nella pesca, nell’orto, al sindacato, in famiglia. Questa è liberta’. Lo so che è una parola grossa, allora la riempi di parole piccole e vai meglio”.

Gelmino e’ stato anche uno straordinario modello di semplicità e di sobrietà, valori che gli derivavano dalla sua umile famiglia di origine – quella in cui la ‘mansarda’ di oggi era ancora il ‘granaro’ –  ma che lui scelse di non tradire mai (“Quello che prendevo mi bastava. Bisogna aver fatto la fame per sapere quanto poco ti basta per campare”).

Ora, in una società che si ostina a rimanere egoisticamente, selettivamente opulenta e che non ha imparato la lezione neanche dopo la  crisi iniziata nel 2008, questi valori sono un faro che deve illuminare la nostra attività e il nostro impegno civico, così come lo sono stati nella vita di Ottaviani.

Suonano tristemente profetiche anche le sue parole riguardo alla pensione, ‘guadagnata’ dopo una vita di lavoro: “Io sono un privilegiato perché tutte le mattine in cui mi sveglio sotto al letto trovo le cinquanta mila lire che mi spettano di pensione”.

Gelmino non si è mai rassegnato, e in questo abbiamo il dovere di seguire il suo esempio fino in fondo, ad una società in cui i giovani non riescono neanche ad immaginare la pensione perché il futuro e’ stato loro rubato da chi ha scambiato la libertà del lavoro con il denaro, da chi ha pensato di sfruttare il presente e gli altri, ma ha scoperto di avere perso tutto, anche se stesso.

“Se la Repubblica e’ fondata sul lavoro, anche tu ti sei fondato sul lavoro. Hai capito che il lavoro non sempre rende liberi.

Servono almeno un metro uguale per tutti, regole non scritte, da non cambiare in corso, cipolle per resistere e senso del limite. Senso del limite. Perché se no sei un poveretto, anche se sei miliardario”.

Gelmino ci ha insegnato il significato delle parole “dovere”, “responsabilità”, “libertà” e “limite”: un patrimonio di valore inestimabile di cui gli saremo sempre riconoscenti, ma che soprattutto abbiamo il dovere di non sprecare.

*Segretario Generale Nazionale Fim – Cisl

Pubblichiamo un estratto del libro Cipolle e libertà, ricordi e pensieri di Gelmino Ottaviani, operaio metalmeccanico alla soglia della pensione, di Federico Bozzini, Edizioni Lavoro.

(…) Sono sempre stato curiosissimo di tutte le novità che incrociavo.

Mi interessava veramente osservare e capire. Da quel momento gli studenti hanno cominciato ad arrivare davanti alla fabbrica e a frequentare le sedi del sindacato. Noi della Fim aprivamo la porta a tutti: chi ci chiedeva di discutere ci invitava a nozze. Non avevamo nessuna paura degli extraparlamentari, forse perché anche le nostre idee sbrindellate non stavano in nessun partito. Diverso era l’atteggiamento dei compagni della Cgil. Loro un partito ce l’avevano e guardavano con sospetto a tutta questa ventata di nuove idee che sembravano ridiscutere tutto e tutti.
La Riello aveva una tradizione di operai comunisti. Se uno era comunista era della Fiom e della Cgil per forza. Noi siamo stati i primi a sgarrare questa regola. Ma per loro restavamo i “mocoletti”, ii ravanelli: rossi fuori e bianchi dentro. Non me lo hanno mai dette in faccia queste cose, ma non c’è alcun dubbio che dietro le spalle la menavano alla grande. L’obiezione che ti facevano era semplice: ma come, tu sei socialista, perché non vieni alla Cgil? Sei socialista e allora perché perdi tempo a chiacchierare con questa gente che critica sindacato o partito?
Quando non si discuteva in fabbrica, c’erano riunioni di fuoco in sede. Non ho mai ascoltato e parlato tanto in vita mia. Tutto stava cambiando e discutere era l’unica maniera per capire. C’era tutto il mondo che si muoveva ed era affascinante cercar di intuirne la direzione…
Avevo un figlio di 4 anni e uno di otto mesi. Mi ricordo l’8 dicembre del 1969 ero stato a Verona a un comizio di Bruno Storti, allora segretario generale della Cisl. Faceva freddo e per la fretta ho lasciato in casa la stufa a cherosene con i tubi staccati. Mia moglie, per non far battere i denti ai bambini, ha dovuto arrangiarsi a montare gli scarichi da sola. Quando sono tornato ne ho sentite di tutti i colori. Un giorno è scoppiata e mi ha detto: “se avessi saputo che avresti fatto una vita del genere, non ti avrei sposato”. In quei mesi i figli li vedevo e non li vedevo. Molto spesso ero lontano da casa anche la domenica. Al mattino arrivava la bianchina di Natali o la Prinz verde di Viviani e partivo.

Gli scenari della Fisica dopo la scoperta delle “onde gravitazionali”. Intervista a Paola Leaci

Grande eco ha avuto, nell’opinione pubblica internazionale, la scoperta delle “Onde Gravitazionali”.  Si tratta della conferma dell’intuizione di Albert Einstein, ipotizzata dal grande fisico  nel 1916. Lo studio di Einstein è conservato presso gli Archivi dell’Università Ebraica di Gerusalemme. La fisica sta vivendo una stagione felice di scoperte. Tra i principali protagonisti di questa nuova frontiera della fisica c’è anche il lavoro di ricerca di alcuni fisici italiani (proprio ieri alla Sapienza di Roma, nell’aula Amadi, c’è stata la presentazione dei risultati della ricerca).  Quali saranno i futuri scenari della fisica dopo questa scoperta? Quali implicazioni avrà nella nostra vita? Di tutto questo parliamo, in questa intervista, con Paola Leaci che è stata una delle artefici della scoperta. Paola Leaci, 35 anni,  attualmente svolge la sua attività di ricerca, presso il dipartimento di Fisica della Sapienza.

La conferma dell’intuizione di Albert Einstein, quello sulle “onde gravitazionali”, grazie, anche al contributo prezioso di fisici italiani, è stato recepito con grande attenzione dalla opinione pubblica internazionale. Per l’autorevole fisico britannico, Stephen Hawking,  questa conferma può portare ad “un nuovo di guardare l’universo” e, addirittura, potenzialmente, rivoluzionare l’astronomia. Le chiedo: in cosa consiste questo “nuovo modo di vedere l’Universo”? Cambierà Qualcosa nella nostra percezione dell’universo?

Ci tengo a precisare che l’evento osservato e’ frutto di una stretta collaborazione di circa 1300 persone, tra cui -come lei giustamente osserva- fondamentale il contributo italiano. 

Il violento processo di collisione osservato è caratterizzato da un rilascio di energia pari a tre volte la massa del Sole, ma risulta invisibile. Le onde gravitazionali, che sono in grado di attraversare indisturbate profondi strati di materia, risultano quindi l’unico messaggero in grado di fornire informazioni su ciò che è veramente accaduto, essendo  assenti le emissioni di segnali elettromagnetici. Averle trovate significa perciò anche guardare indietro nel tempo e conoscere i dettagli dei primissimi istanti di vita dell’Universo.

Il risultato raggiunto rappresenta quindi un modo completamente nuovo di guardare ed ascoltare l’universo, una possibilità di esplorare cio’ a cui non abbiamo mai avuto accesso finora.

Lei ha parlato anche di implicazioni “tecnologiche”, in che senso?

Al di la’ delle implicazioni di carattere astrofisico, che sono tante, ce ne sono varie anche in ambito tecnologico e pratico.

Le onde gravitazionali sono predette dalla teoria della Relativita’ Generale di Einstein. Pochi sanno che le conoscenze derivanti da questa teoria hanno fornito un contributo essenziale alla messa a punto e al grado di precisione ottenibile dalle attuali reti satellitari GPS.

Ci sono inoltre molte analogie tra alcune delle tecniche che noi analisti dati utilizziamo per l’estrazione del segnale gravitazionale e quelle utilizzate nel campo dell’elaborazione digitale delle immagini, che trovano impieghi rilevanti anche nel campo della video-sorveglianza. 

Detto in altre parole, noi cerchiamo l’impronta del segnale gravitazionale emesso da una particolare classe di sorgenti con una tecnica del tutto analoga a quella che si utilizza per identificare una figura umana.

Inoltre, il processo di estrazione del segnale gravitazionale e’ nella maggior parte dei casi molto complicato dal punto di vista computazionale. Esso richiede familiarità con vari software e tecniche per creare algoritmi efficienti in grado di funzionare su processori paralleli. Alcuni di questi programmi e tecniche sono largamente utilizzati non solo nel mondo accademico, ma anche in molti settori dell’industria. Due esempi immediati riguardano la tecnologia superiore basata sulle unità di elaborazione grafica (GPU), che è ampiamente utilizzata in campi disparati come l’elaborazione di immagini scientifiche, l’esplorazione petrolifera e perfino in ambito finanziario. Questi sono solo alcuni esempi. Insomma, la ricaduta tecnologica e’ notevole, anche se non immediatamente tangibile.

Bosone di Higgs, onde gravitazionali, ecc. la fisica sta vivendo una stagione felice di scoperte. Quali saranno le prossime tappe, come si svilupperà la ricerca sulle “onde gravitazionali”? Riusciremo a “vedere” le vestigia dell’Universo primordiale?

Assolutamente si, penso siamo vicini! Al momento basiamo le nostre affermazioni su un unico evento. Affermazioni più accurate saranno possibili solo dopo aver rivelato più eventi di onde gravitazionali e -almeno personalmente- sono confidente che ce ne saranno degli altri.

Al momento io ed i miei colleghi stiamo continuando ad analizzare i dati del primo run osservativo di LIGO, conclusosi lo scorso 12 Gennaio. Non sappiamo ancora cosa ci troveremo davanti. 

Inoltre, il segnale osservato proviene solo da una delle possibili sorgenti di onde gravitazionali, ma ce ne sono delle altre. Il nostro compito è identificarle analizzando anche i dati che verranno raccolti in maniera congiunta dai due interferometri LIGO (situati uno ad Hanford e l’altro a Livingston)  e dall’interferometro Virgo (situato a Cascina, Pisa) entro quest’anno.

L’utilizzo di più rivelatori e’ fondamentale sia per poter eliminare i tanti disturbi ambientali (avvalendosi di tecniche di coincidenza) che per ridurre l’incertezza nella direzione di provenienza di un segnale gravitazionale.

La vicenda delle “onde gravitazionali” ha coinvolto, come ha ricordato lei, circa 1300 ricercatori, e lei è fra gli artefici della scoperta. Il suo caso enfatizza, giustamente, la preparazione ottima, in questo caso sul piano della fisica, che il nostro sistema universitario offre agli studenti. COSA manca alla ricerca italiana per frenare la fuga dei cervelli? 

Credo che la presenza di adeguati finanziamenti contribuirebbe fortemente a limitare questa “fuga di cervelli”. 

Devo pero’ aggiungere che, per quanto mi riguarda, la scelta di recarmi all’estero, proprio presso il “Max Planck Institut fuer Gravitationsphysik” in Germania, e’ stata assolutamente volontaria, la realizzazione di un mio desiderio.

La sua storia, però, è una storia di “rientro” dal Max Planck Institute all’Università la “Sapienza” di Roma. Una scelta coraggiosa (visto lo stato della ricerca italiana), perché?

Penso che ognuno di noi possa fornire il proprio contributo -anche se talvolta esiguo- per migliorare le cose e che sia bello farlo anche nel proprio paese di provenienza, se ovviamente ne si ha la possibilità e la voglia.

Ultima domanda: Qual è la motivazione più profonda che un giovane deve avere per affrontare lo studio della Fisica?

La bramosia della conoscenza, comprendere il contesto nel quale si colloca il nostro bel pianeta e capire quello che accade al di fuori di cio’ che vediamo.

“Nel cuore del conflitto”. Un bel saggio di Alessandro Pucci

nelcuoredelconflittoA volte capita d’imbattersi in persone inconsuete, davvero fuori dall’ordinario, che compiono azioni fuori dagli schemi, che dedicano tempo e pazienza all’elaborazione di strategie personali e originali di sopravvivenza e persino di perseguimento della felicità. Capita più spesso di quanto s’immagini.

Meno frequenti, invece, quelli che vanno oltre e, accanto a tale sforzo, compiono anche quello di un’elaborazione critica del proprio percorso intimo, generando così un processo di comunicazione rivolto agli altri, nel tentativo (immaginiamo), di renderli partecipi dei propri progressi, se pure di progressi si tratta.

È questo il caso di Alessandro Pucci, che nella vita di tutti i giorni fa il tecnico manutentore di reti telefoniche per una grande compagnia: controlla le centraline, sale e scende da impianti e palificazioni, accetta e distribuisce lamentele, rampogne e minacce della clientela, tanto bisognosa di connettività quanto avara di complimenti. 

La sua “vita vera”, da qualche anno a questa parte, si svolge invece lungo percorsi diversi. Ha letto molto, ha compiuto un percorso di studi teologici e filosofici, ha riflettuto sulla vita quotidiana e sui conflitti che, numerosi, l’avvelenano o la rendono migliore. Cura un blog – cronache dell’anima (http://cronachedellanima.blogspot.it/) – nel quale riversa le sue riflessioni.

Da questo processo è nato un piccolo libro: “Nel cuore del conflitto”; autopubblicato, venduto in rete e distribuito personalmente nei numerosi incontri che l’autore ha organizzato nella sua terra, le Marche, offre una penetrante lettura della vita di relazione; con un linguaggio che oscilla fortemente tra l’eloquio filosofico e la piana, semplice declinazione delle riflessioni quotidiane, Pucci riesce a rendere una modesta e luminosa testimonianza.

Testimonia infatti che è possibile, qualunque sia la nostra funzione nella grande “macchina mondiale” (scippando la definizione da un romanzo di un altro marchigiano, come lui: Paolo Volponi), provare a dipanare la matassa dell’esistenza e delle relazioni, accettando e provando a comprendere – è il caso di dirlo – la natura del “conflitto”, ineluttabilmente presente nella nostra vita.

Quattro capitoli: il conflitto interiore; il conflitto sociale; la guerra come degenerazione del conflitto; la speranza di pace. Seguendo questa mappa concettuale, la ragionata proposta di Alessandro Pucci illumina alcuni angoli del nostro quotidiano, con grande efficacia, soprattutto quando affronta i temi legati alla vita di relazione, ai rapporti umani. In fondo, sembra dire Pucci, tutta la vita è una lotta: cerchiamo di trovarci un senso e una prospettiva.

Come ha acutamente notato padre Alex Zanotelli in una sua recensione apparsa sul numero di Ottobre 2015 di “Mosaico di Pace”, il tema del conflitto è troppo vasto per «poter essere esaurientemente sviluppato in un unico testo». Tuttavia Pucci (è ancora Zanotelli che lo scrive) tenta «di tracciare un sentiero, una via percorribile (…) viaggiare all’interno dei conflitti significa cercare di capire la vita e i suoi inquietanti misteri».

Ecco: dietro ciascuno di noi – e dentro – c’è un mistero; e ancora più grande è quello del mondo. Come scrisse il teologo Rudolph Otto, si tratta di un “mysterium tremendum et fascinans”. Ed è curioso (o provvidenziale?) che, alle volte, un valido aiuto per affrontare l’enormità del tema ci giunga, inatteso, da chi – senza titoli, senza fasti – prova a condividere con gli altri i pensieri più profondi.

Alessandro Pucci, Nel cuore del conflitto, Prefazione di Roberto Mancini (Ordinario di Filosofia Teoretica, Università degli Sudi di Macerata), pagg.: 212, self-published – ISBN-13: 978-1507634806

Il libro è disponibile anche su Amazon (http://www.amazon.it/Nel-Cuore-Conflitto-Alessandro-Pucci/dp/1507634803/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1455548623&sr=8-1&keywords=nel+cuore+del+conflitto ).

L’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill è una nuova tappa della “geopolitica della misericordia”. Intervista a Francesco Peloso

Papa Francesco durante l'udienza generale del 10 febbraio 2016 in piazza San Pietro in Vaticano (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Papa Francesco durante l’udienza generale del 10 febbraio 2016, Piazza San Pietro in Vaticano (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Domani, nella mattinata, Papa Francesco lascerà Roma per recarsi in Messico. Un viaggio importante. Durerà una settimana. Farà tappa all’Avana dove, all’aeroporto “Josè Martì”, incontrerà , nel pomeriggio, il Patriarca Russo Ortodosso Kirill. L’incontro durerà due ore. Alla fine ci sarà la firma di una dichiarazione congiunta dei due leader religiosi. Un incontro storico, che segnerà una svolta nei rapporti tra la Chiesa Cattolica e l’Ortodossia. Una svolta che viene da lontano. Come si è arrivati a questo incontro? Quali sono le possibili conseguenze a livello religioso e politico? Ne parliamo, in questa intervista, con Francesco Peloso, giornalista  vaticanista del sito d’informazione religiosa, del quotidiano “La Stampa”, “Vatican insider”. Peloso è  anche collaboratore dell’Unità e del settimanale “Internazionale”.

L’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Ortodosso Kirill, che avverrà all’aeroporto dell’Avana, è un fatto di enorme portata storica. Non è un fatto episodico. Ovviamente ha una sua storia, quella dei rapporti con l’ortodossia. Quali sono le “radici” di quest’incontro ?

Il dialogo fra la Chiesa di Roma e il mondo ortodosso va avanti dagli anni del Concilio Vaticano II, ma di certo – considerato che le le chiese d’oriente fra di loro non sono tutte uguali – la svolta nel dialogo con il patriarcato di Mosca inizia dopo la caduta del Muro di Berlino e il ripristino della libertà religiosa in Russia. Si tratta per altro delle due maggiori confessioni cristiane del mondo fra le quali, nei secoli passati e fino a tempi recenti, non sono mancante le incomprensioni, le diffidenze, le rivalità. Da quando però il processo ecumenico ha preso piede, il possibile incontro fra Roma e Mosca rappresentava di certo il coronamento agognato di questo percorso.

La scelta del luogo non è causale…..Perché proprio all’Avana?

Per motivi politici prima ancora che religiosi, o comunque per un mix di queste due componenti. Bisogna considerare infatti che Cuba continua ad aver buone relazioni con Mosca, ben oltre la stagione della guerra fredda. Certo sono mutate molte cose, e tuttavia si tratti di due nazioni, entrambe protagoniste di primo piano della storia contemporanea che, per varie ragioni, si collocano in modo antagonista o quanto meno interlocutorio rispetto agli Stati Uniti, e questo indubbiamente le lega, non sono insomma alleati degli Usa, anzi ne hanno contestato in questi decenni il primato di unica superpotenza. D’altro canto Cuba è entrata – anche grazie alla formidabile mediazione del papa e del Vaticano – in una nuova e originale fase nei rapporti con Washington, è iniziato il disgelo, sono caduti i muri, riprese le relazioni diplomatiche, ed è solo l’inizio. E qui bisogna sottolineare che anche il presidente Obama è uno degli attori da considerare in quanto sta avvenendo; la rinuncia dell’attuale capo della Casa Bianca ad essere ‘gendarme del mondo’, ha insomma avuto un peso in questa vicenda, e il dialogo fra lui e il papa è nato proprio a partire da questa scelta. Il regime castrista, d’altro canto, sotto la guida di Raul Castro, si sta aprendo un po’ alla volta al mondo, anche alla presenza della religione. La Chiesa cattolica ha fatto da apripista, quella ortodossa sta seguendo la stessa strada. Cuba è quindi un po’ certamente ‘casa’ del papa, quale leader morale, religioso e in parte politico riconosciuto da tutta l’America Latina, e sicuramente è un partner importante per Mosca, sia a livello politico che religioso.

Quali saranno, nelle due ore di colloquio, i principali “dossier” che affronteranno?

Quelli di cui si è già detto in questi giorni: in primo luogo il senso del cammino ecumenico, il valore dell’incontro fra il papa e il patriarca per la pace; qui mi aspetto qualcosa di più che una dichiarazione solo formale. Poi certamente la vicenda ucraina con i contrasti fra ortodossi e greco-cattolici, il Medio Oriente, il problema dei cristiani perseguitati, il no al fondamentalismo religioso, a chi usa il nome di Dio per uccidere o promuovere guerre sante, la libertà e la convivenza religiosa, il tema dell’ambiente, il contributo del cristianesimo alle relazioni pacifiche fra gli Stati, i governi, i popoli…vedremo.

L’incontro con il Patriarca Kirill avrà delle conseguenze sui rapporti con gli Uniati (i cristiani di rito greco fedeli a Roma), che, come si sa, sono una comunità molto presente in Ucraina (altro luogo di conflitto). Con questo incontro crollerà un altro muro (quello tra “uniati” e Patriarcato di Mosca), con possibili conseguenze politiche?

Non credo che crollerà un muro, il conflitto ucraino ha infatti già prodotto un fiume di vittime del quale forse ci siamo accorti solo in parte. Senza contare i profughi, gli sfollati interni, le lacerazioni sociali, gli opposti e intransigenti nazionalismi alimentati da Mosca e da Kiev, il problema dell’applicazione di accordi internazionali, da parte di Putin in particolare. I greco-cattolici e i fedeli al patriarcato di Mosca sono dentro questo schema terribile, in parte ne sono protagonisti. Certo, l’abbraccio fra Francesco e Kirill può dire qualcosa: soprattutto in termini di una convivenza possibile, facendo compiere un primo passo importante in direzione di un superamento di una contrapposizione storica fra la Chiesa ucraina fedele a Roma e quella russa. D’altro canto il nodo Ucraina è sempre stato il vero ostacolo al l’incontro fra il papa e il patriarca; vediamo fino a che punto ci sarà coraggio di venirsi incontro.

Insomma con questa mossa Francesco si conferma un “player” di livello planetario. Forse l’unico che ha un carisma che gli consente massima libertà dli movimento… La “geopolitica della misericordia” ha messo a segno diversi successi. Possiamo fissare i punti fermi della “geopolitica” di Francesco?

Mi pare un’impostazione corretta della questione, tuttavia i punti fermi sono troppi da elencare. Parlerei però, piuttosto, di una diplomazia in movimento, una diplomazia dinamica, che ha nel multilateralismo e poi ancor di più nel multipolarismo, la sua bussola. Qui non si tratta di capire chi sono i ‘nuovi’ alleati della Santa Sede, come qualcuno seguendo vecchi schemi prova a fare, ma di comprendere il metodo: è questo “camminare insieme nella differenza” che conta. Cioè la necessità di accettare l’interlocutore, di comprenderne la sua visione, per lavorare insieme tutte le volte che questo è possibile, sapendo che restano -allo stesso tempo – delle distanze. Solo così, nel metodo Francesco, si può puntare a obiettivi di fondo come la fine dei conflitti, l’allargamento del principio di cittadinanza a chi ne è escluso (gli ‘scartati’ spesso richiamati dal papa), la rinuncia a interessi di potere in nome di un aiuto ai deboli, o di politiche in favore del genere umano e delle generazioni future, come nel caso della salvaguardia ecologica, del Creato. Per fare questo non si può stilare la classifica dei cattivi, dire: tu non ti puoi sedere la tavolo del negoziato, con te non ci parlo. Il riconoscimento dell’altro implica un approccio nuovo, multipolare appunto, e di pari dignità. Il che non significa rinunciare alle proprie ragioni, alle critiche, al contrario vuol dire dare una chance in più a principi che, altrimenti, sarebbero rifiutati a priori; si pensi alla libertà religiosa in Cina o nei Paesi islamici, per non dire degli squilibri sociali ed economici fra nord e sud del Pianeta.

Il prossimo muro che cadrà sarà la Cina?

Il dialogo con la Cina prosegue in modo positivo, la diplomazia vaticana è al lavoro, ma i tempi di queste cose sono sempre incerti, mille ostacoli possono frapporsi.

Ultima domanda: Dopo l’ Avana il Papa andrà in Messico. Un paese dilaniato dalle bande criminali dei Narcos e dalla corruzione. Quali sono gli obiettivi di questa visita?

Il discorso sul Messico sarebbe lungo. Di certo il papa vuole portare una parola di speranza ai più deboli, agli offesi, ai migranti, ai poveri, che sono le vere vittime della violenza tremenda e disumana dei cartelli della droga, della corruzione degli apparati statali, della ‘tratta’ di esseri umani da una parte all’altra del confine con gli Stati Uniti. E poi di certo nei pensieri del pontefice ci sono le popolazioni indigene. Il Messico, con papa Francesco, credo che possa riscoprire un cristianesimo ispirato, profetico, capace di parlare di pace, di fratellanza, di giustizia e di perdono, parole non retoriche, ma che toccano la carne viva di un popolo.

“IO, MORTO PER DOVERE”. La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi

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IL LIBRO

Il nostro dovere non è arrestare qualcuno e mettergli le manette per fare bella figura con i superiori e magari prendersi un encomio. Noi siamo pagati per garantire i diritti, per migliorare, nel nostro piccolo, il mondo che ci circonda, la vita delle persone.”

Roberto Mancini

Un libro coraggioso questo di Chiarelettere. E’ la storia di un poliziotto coraggioso: Roberto Mancini. Un uomo sapeva già tutto del disastro ambientale nella cosiddetta Terra dei fuochi. Vent’anni fa conosceva nomi e trame di un sistema criminale composto da una cricca affaristica in combutta con la feccia peggiore della malavita organizzata e con le eminenze grigie della massoneria. Aveva scritto un’informativa rimasta per anni chiusa in un cassetto e ritenuta non degna di approfondimenti, ha continuato il suo impegno depositando, nell’ultimo periodo della sua vita, un’altra informativa (pubblicata per la prima volta in questo libro).

Mancini, è morto il 30 aprile 2014, ucciso da un cancro. Sarà riconosciuto dal ministero dell’Interno come “vittima del dovere”. Un giovane poliziotto cresciuto tra le fila della sinistra extraparlamentare negli anni confusi e violenti della contestazione. Manifestazioni, picchetti, scontri di piazza, poi la scelta della divisa, per molti incomprensibile e spiazzante, per Mancini del tutto naturale.

Una grande storia di passione, impegno e coraggio. Questo libro finalmente la racconta tessendo insieme con delicatezza e profondità le testimonianze dei colleghi e della famiglia (la moglie Monika, che ha collaborato alla stesura, la fi glia Alessia, che aveva tredici anni quando il papà è morto), i documenti, oltre dieci anni di lavoro alla Criminalpol e la voce stessa di Mancini, che restituisce la sua verità e tutto il senso della sua battaglia umana e professionale.

Una storia chiusa per anni nel silenzio e oggi riscoperta, oggetto di una fiction con protagonista Giuseppe Fiorello nel ruolo di Mancini e finalmente patrimonio di tutti, da non dimenticare.

GLI AUTORI

Luca Ferrari, giornalista, documentarista e fotografo, è autore dell’inchiesta che per la prima volta ha raccontato la storia di Roberto Mancini, pubblicata su “la Repubblica”. Ha collaborato con la trasmissione Servizio pubblico, condotta da Michele Santoro, e con “la Repubblica”, “l’Espresso”, “The Huffington Post” e “il Fatto Quotidiano”. Con il suo primo film, Pezzi (2012), prodotto da Valerio Mastandrea, ha vinto il Premio Doc It – Prospettive Italia Doc per il miglior documentario italiano al Festival internazionale del film di Roma e ha ottenuto una candidatura nella categoria miglior documentario al David di Donatello 2013. Nel 2015 il suo secondo fi lm documentario, Showbiz, sempre prodotto da Valerio Mastandrea, è stato presentato alla Festa del cinema di Roma.

Nello Trocchia, giornalista e scrittore, precario dell’informazione, collabora con “il Fatto Quotidiano”, “l’Espresso” e con La7 (La gabbia). Ha realizzato inchieste su clan, malaffare politico e crimini ambientali. È autore di Federalismo criminale (Nutrimenti 2009), menzione speciale al premio Giancarlo Siani, primo libro-inchiesta sui comuni sciolti per mafia; La peste (con Tommaso Sodano, Rizzoli 2010), sulla cricca politico-criminale che ha realizzato il sacco ambientale in Campania; Roma come Napoli (con Manuele Bonaccorsi e Ylenia Sina, Castelvecchi 2012). Da agosto del 2015 è sottoposto a vigilanza dei carabinieri per aver subito minacce da un boss di camorra a seguito delle inchieste giornalistiche pubblicate.

Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo uno stralcio del libro

Il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi

«Mio padre è un eroe. Ha dei nemici? Bene. Questo significa che ha lottato per qualcosa nella sua vita. L’unica sua debolezza è stata la morte: non usatela per affermare la vostra forza.» Il 3 maggio 2014, il giorno del funerale, Alessia ha solo tredici anni. Il papà, Roberto Mancini, sostituto commissario di polizia, ne aveva cinquantatré ed è morto per aver scoperto e denunciato con una determinazione e un coraggio unici un sistema criminale e la rete dei trafficanti di veleni. Nella basilica di San Lorenzo fuori le Mura, a Roma, le istituzioni sono presenti in prima fila insieme con la famiglia per dare l’ultimo saluto a un servitore dello Stato, encomiato perfino dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quelle stesse istituzioni che a lungo lo avevano ignorato e perfino osteggiato. Mancini è stato il primo poliziotto a investigare sui rifiuti tossici. Le sue indagini hanno anticipato di quasi due decenni la scoperta del disastro ambientale in alcune zone della Campania, la cosiddetta Terra dei fuochi. Quando era nella Criminalpol, a metà degli anni Novanta, Mancini ha smascherato la connivenza tra imprenditoria e camorra; tra politica, massoneria e bassa manovalanza criminale. Il risultato della sua inchiesta è scritto nero su bianco in un’informativa che, per qualche sconosciuto motivo, è rimasta chiusa in un cassetto per più di dieci anni. Mancini ha completato quel documento ormai storico senza mai curarsi dei rischi che correva. «Voglio credere che allora non fossero ancora maturi i tempi e l’opinione pubblica non fosse pronta» ha detto il poliziotto poco prima di morire commentando il fatto che le sue indagini fino a quel momento fossero state ignorate. Mancini è stato uno sbirro controcorrente, sempre con «il manifesto», quotidiano comunista, sotto braccio, insofferente al potere delle gerarchie ma comunque dalla parte della legge e della giustizia sociale. E questo dava fastidio. Negli anni del liceo aveva militato nel collettivo di sinistra, poi la voglia di cambiare il sistema dall’interno lo aveva portato a far domanda per entrare in polizia. Negli anni Ottanta, sorprendendo chiunque lo conoscesse, era diventato il più giovane viceispettore d’Italia. Per molti colleghi, che in questo libro lo ricordano con affetto e stima, è stato un «esempio»; per altri, soprattutto per alcuni suoi superiori ai quali lui non si è mai piegato per ottenere promozioni o simpatie, è stato invece solo un «visionario, un pazzo». Eppure quel «pazzo» si è ammalato perché durante le sue indagini, portate avanti per anni, è andato a scavare nelle aree contaminate dai trafficanti di veleni armato solo di guanti di lattice e mascherina. Lì dove hanno vomitato di tutto: scorie di fonderia, ceneri, ammoniaca, liquami, rifiuti industriali di ogni genere. Nel 1994 Roberto Mancini aveva cominciato a indagare su Cipriano Chianese, secondo la Procura di Napoli l’«inventore» dell’ecomafia, e a produrre una quantità di informazioni molto scomode. Con la commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, da consulente, tra il 1997 e il 2001, era tornato poi ad attraversare quei territori per rilievi e verifiche. Tra l’Italia e l’estero aveva partecipato a sessanta sopralluoghi su discariche abusive e luoghi contaminati. E il pazzo alla fine ci ha rimesso la pelle. Una biopsia gli ha diagnosticato il linfoma non-Hodgkin. Mancini ha conosciuto la depressione, ha attraversato una stagione di profonda sofferenza ma non ha mai smesso di lavorare. Fino all’ultimo ha cercato di fornire documentazioni al pm Alessandro Milita, colui che rappresenta la pubblica accusa nel processo ancora in corso a carico di Chianese. Nel 2005 Mancini si sottopone a un trapianto e per un momento tutto sembra risolversi per il meglio, l’incubo finito. Ma non c’è lieto fine a questa storia. Nel maggio del 2010, infatti, il morbo si riaffaccia. Una nuova biopsia diagnostica una recidiva. Il poliziotto non risponde più alle chemio, si sottopone al trapianto del midollo osseo, donato dal fratello. Purtroppo non servirà. I nomi dei responsabili dell’avvelenamento di quella terra rimangono a lungo impuniti: è stato questo il più grande rimpianto di Mancini, insieme a quella telefonata di riconoscenza dall’amministrazione della polizia, doverosa e tanto attesa, che però non è mai arrivata durante i terribili e faticosissimi giorni dell’agonia prima della morte.

Mancini resterà sempre il poliziotto comunista, ligio al dovere, ma insofferente al potere. Questo libro racconta per la prima volta la sua storia. Siamo entrati nella sua vita; abbiamo conosciuto i suoi amici di sempre, i colleghi e la sua famiglia, in particolare la moglie Monika che ha contribuito in modo attivo alla stesura di queste pagine. Come giornalisti, abbiamo preso spunto dalle sue indagini per denunciare una mattanza ambientale senza precedenti. Abbiamo recuperato alcune sue carte inedite, appunti scritti a mano, documenti scottanti e compromettenti, frutto di anni di investigazioni sul campo, che pubblichiamo per la prima volta. Ma soprattutto abbiamo raccontato la storia di un poliziotto, di un tifoso, di un amante, di un marito, di un padre e di un investigatore eccelso. Di un uomo che stimiamo profondamente. Questo non è il ritratto di un eroe, tutt’altro. Gli eroi servono a pulire la coscienza di chi non si sporca le mani o di chi le mantiene pulite ficcandole in tasca, di chi non prende mai posizione, di chi nutre le schiere di coloro che si voltano sempre dall’altra parte. Oggi Roberto Mancini è una nobile voce che non fa più paura. Dopo la sua morte è arrivata l’approvazione unanime per il lavoro svolto e nel consenso generale la coscienza collettiva si è liberata del peccato. Mancini rifuggiva l’omologazione, si è sempre rifiutato di essere altro da quello che era solo per compiacere e ottenere favori personali. Forse non avrebbe gradito tutti questi applausi.

Luca Ferrari, Nello Trocchia con Monika Dobrowolska Mancini, Io, morto per dovere. La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi. Prefazione di Giuseppe Fiorello, Ed. Chiarelettere, Milano 2016 . Pagg. 168 _ 15 euro