Le radici della crisi del ceto medio. Intervista ad Arnaldo Bagnasco

 

 Arnaldo BagnascoVerso la fine del secolo scorso si è manifestata nei paesi avanzati una crisi del ceto medio. Un segno, tra i tanti, della crisi capitalismo industriale. Crisi che persiste ancora. Oggi il “ceto medio” appare come una “Classe inquieta” attraversata da un rischio di radicalizzazione. Ovvero che diventi “un luogo sociale del rischio”. Quali sono le radici della crisi del ceto medio? Quali dinamiche può scatenare questa crisi? Come ha risposto la politica? Ne parliamo, in questa intervista, con il Professor Arnaldo Bagnasco, emerito di Sociologia all’Università di Torino e accademico dei Lincei. Di Arnaldo Bagnasco la casa editrice Il Mulino ha pubblicato un saggio fondamentale sulla crisi del ceto medio: “La questione del ceto medio. Un racconto del cambiamento sociale” (pag. 230, € 22,00).

 

Professore, incominciamo dando una definizione: ceto o classe media?

Come diceva il sociologo americano Wright Mills, la classe media è un’insalata mista di occupazioni; è una nebulosa che comprende lavoratori indipendenti (come artigiani, piccoli e medi imprenditori) e dipendenti (come gli impiegati pubblici e privati). In realtà, una classe media non è mai esistita, esistono più classi medie professionali, che anche cambiano nel tempo e nello spazio. Eppure, specie in certi momenti, ci si riferisce, nel linguaggio corrente e politico, a un insieme che supera e comprende quelle diversità. Entra allora in gioco il termine ceto, che per i sociologi indica una vicinanza di tratti culturali, stili di vita, possibilità di consumo, effetto anche di misure politiche. Il termine americano middle-class, corrisponde grosso modo all’italiano ceto medio.

Nel suo libro affronta la questione del ceto medio nel più ampio quadro della trasformazione del capitalismo, oggi di stampo neo liberista. Un tempo si definiva il “ceto medio “, tra l’altro, come il ceto, negli anni dell’ascesa, della “Piena cittadinanza sociale” (per reddito, grado d’istruzione , relativa sicurezza nelle prospettive di lavoro, ecc). Oggi quel ceto fa fatica a riconoscersi in quella definizione. Cosa è avvenuto?

Sì, è appunto in quel modo che definisco nel mio libro il ceto medio che si è formato negli anni di forte crescita del dopoguerra. Indipendentemente dall’essere autonomo o dipendente, nel settore pubblico o in quello privato, in posizioni professionali diverse, essere ceto medio significava posizioni medie e cresciute nella scala dei redditi e dei consumi, oltre ad aumentato grado di istruzione, relativa sicurezza nelle prospettive di lavoro, protezione dai rischi della vita. E si può dire che questa era percepita come una condizione di acquisita piena cittadinanza sociale: la maggioranza arriverà a dichiararsi di ceto medio nei sondaggi. Era l’età dei grandi “contratti sociali”, orientati a controllare con politiche di regolazione tensioni e disuguaglianze sociali, per coniugare insieme sviluppo economico e coesione sociale, in un quadro di democrazia politica. I vantaggi della crescita erano diffusi nell’insieme sociale, ma il ceto medio cresciuto nel tempo, era diventato il perno dell’equilibrio sociale.

Per più ragioni quel modello è entrato in crisi nel corso degli anni settanta, e nel decennio successivo l’orientamento neoliberista non è stato in grado di ritrovare solidi equilibri economici e sociali. Crisi economiche si sono succedute, e la disuguaglianza sociale è diminuita sino ai primi anni Ottanta, poi è tornata ad aumentare.

In questi anni di crisi abbiamo assistito a fenomeni di “correnti di polarizzazione” verso il basso, e, in misura minore, verso l’alto. Quanto è polarizzata la società italiana? Ovvero quanto è grande la diseguaglianza? 

Abbiamo molti dati concordanti che mostrano come siano presenti forti correnti di polarizzazione sociale. Come dicono gli inglesi, le figure nel mezzo sono state “strizzate”. Su molti pesa la condizione di essere più lasciati a se stessi, e di vivere senza lavoro o con lavori aleatori in condizioni in cui è difficile progettare un futuro. Guardando più da vicino, si vede però dove più ha colpito la crisi. Ovunque la contrazione di reddito e ricchezza è stata maggiore per le classi più povere che per quelle medie. Più precisamente, in Italia la diminuzione del reddito diventa più consistente a partire dal quarto decile e aumenta gradatamente scendendo ai primi decili.

Anche a questo riguardo bisogna comunque fare attenzione. Il fatto che siano in corso correnti di polarizzazione non significa necessariamente che al momento le nostre siano società polarizzate Una società polarizzata sarebbe quella dove due consistenti insiemi sociali, relativamente omogenei, si confrontano con valori e interessi distinti e contrapposti da far valere. In realtà le disuguaglianze sono più distribuite lungo una scala, e gli insiemi che si formano sono molto eterogenei. Lo riconosce uno dei più importanti studiosi e critici del precariato, Ian Standing. Quanto al ceto medio, è certamente dimagrito ovunque, non è più la maggioranza, ma non è affatto scomparso: in Italia conta per il 40% degli attivi.

Nel suo libro, un vero e proprio “racconto del cambiamento sociale, sostiene che, se i fenomeni di “polarizzazione” verso il basso dovessero ancora peggiorare, vede il rischio che il “ceto medio” diventi un “luogo sociale del rischio” con l’eventualità di una radicalizzazione con esiti negativi per tutto il sistema. Quale sbocco potrebbe avere, questa radicalizzazione, in termini sociali e politici?

Effettivamente abbiamo esempi nel passato dei danni prodotti dalla radicalizzazione politica del ceto medio. La Germania e l’Italia degli anni venti e trenta ne sono due esempi. Anche qui bisogna però fare bene attenzione. Anzitutto, rispetto allora, le condizioni sono molto diverse. Resta comunque la possibilità di derive radicali in senso autoritario, se le condizioni dovessero peggiorare. E l’evoluzione dell’opinione pubblica e del quadro politico in molti Paesi non è davvero incoraggiante. Tuttavia, la storia insegna che il ceto medio si è mobilitato come attore radicalizzato quando si è diffuso nei suoi ranghi un atteggiamento di panico, e questo non è il caso attuale nelle nostre società. Oggi il ceto medio è piuttosto una “classe ansiosa”, come ha detto in America Robert Reich a proposito del fenomeno Trump. Riconoscere la differenza fra panico e ansia non ci tranquillizza, ma è importante, e deve farci riflettere che c’è spazio per intervenire, e che il ceto medio non è perduto alla democrazia.

Com’ è la situazione, del ceto medio, negli altri Paesi europei? Di fronte a questa crisi qual è stata la risposta della politica?

L’esplosione della “questione del ceto medio” si è verificata verso la fine del secolo scorso. In America si era annunciata prima ed è stata molto vivace dopo. E’ comunque significativo che, dove più dove meno, si sia manifestata in tutti i Paesi avanzati. Proprio questo la rendeva il segnale che cambiamenti profondi del capitalismo contemporaneo erano arrivati a una fase nuova, con conseguenze sociali pesanti che arrivavano a toccare anche l’insieme prima meglio stabilizzato.

Per circostanze diverse relative all’andamento dell’economia e/o al miglior funzionamento delle compensazioni sociali, la questione è stata sentita meno in Paesi come il Regno Unito, la Svezia, l’Olanda. Qui si trova un ceto medio meno usurato. Più avvertita è stata invece la questione in altri, fra i quali in particolare l’Italia e la Francia. La politica ne ha preso atto, e il problema del ceto medio è entrato nei programmi elettorali. Comunque sia, anche nuovi fattori di crisi – basti pensare alle migrazioni o al terrorismo internazionale – hanno reso meno centrale e specifica l’attenzione al ceto medio. Questa è una tendenza che oscura e tende a rendere episodiche e confuse le politiche che riguardano le classi medie. Faccio osservare che ho cambiato termine di riferimento, perché quanto sta nel mezzo è un insieme ora più eterogeneo, e riemergono le tensioni fra le sue varie componenti professionali, che prima erano mediate in un progetto di ceto medio, politicamente coltivato in combinazioni di risorse diverse.

Lei prende di mira il capitalismo deregolato, ovvero l’estensione della logica del mercato. Quali strade si possono percorrere per superare la crisi?

Non so se questa sua domanda sia, nel clima di oggi, politically-correct; intendo se non sia una domanda impertinente, da non fare in Italia a un professore, specie se anziano. Umorismo a parte, riconosco che è difficile fare politica oggi, per chiunque ci provi. Ed è velleitario sparare sentenze.

Alla fine del mio libro dico qualcosa sulle prospettive, ma qui riprendo solo un punto generale, che era nella domanda. Il mercato è una grande risorsa di regolazione economica e sociale, ma è sprecato se si afferma in un vuoto di regole, tanto più in epoca di globalizzazione e finanziarizzazione. Non solo l’economia non può funzionare bene se lasciata esclusivamente alla autoregolazione di mercato, ma soprattutto è immanente al capitalismo che il mercato tende a conquistare alla regolazione di mercato sempre più ambiti della vita di relazione. Questa tendenza, ha l’effetto di consumare società, di non permettere la vitale, genuina espressione della società civile, di generare anomia individuale e collettiva, e problemi sociali rilevanti.

Queste osservazioni non sono deduzioni “ideologiche”, ma constatazioni analitiche. I modi in cui il consumo di società si verifica, e punti in cui intervenire sono segnalati da molta, buona ricerca sociale. Aggiungo ancora, per precisare, che se è certamente vero che i tasselli da ricomporre nel quadro economico e politico contemporaneo sono diventati più piccoli, incerti e complicati da combinare, il punto è che dobbiamo guardarci anche da una possibile retorica della inconsistenza della società; la società non è completamente sfatta o sbriciolata dai processi di differenziazione e individualizzazione, e retoriche che insistono su questa immagine giocano proprio a favore della radicalizzazione autoritaria.

 

 

“Con il diaconato femminile avremmo una Chiesa più inclusiva”. Intervista ad Anna Carfora.

Pope Francis celebrates a Pentecost mass in St.Peter's Basilica at the Vatican on May 15, 2016. / AFP / GABRIEL BOUYS (Photo credit should read GABRIEL BOUYS/AFP/Getty Images)

Papa Francesco (Gettyimages)

Continua a far discutere, nella pubblica opinione internazionale, l’idea di Papa Bergoglio di istituire una Commissione di studio sul “diaconato femminile”. Non sono mancati punti di vista  di diversa e opposta tendenza. Ne parliamo, in questa intervista, con la storica Anna Carfora. Anna Carfora è docente di Storia della Chiesa alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Sezione San Luigi (Napoli).

Professoressa, ha fatto grande scalpore, nell’opinione pubblica mondiale, l’idea di Papa Francesco di istituire una Commissione di studio sulla funzione diaconale delle donne. Per la verità già il Cardinale Carlo Maria Martini, in una celebre intervista, aveva lanciato l’idea  di istituire la figura delle diaconesse e la Commissione Teologica internazionale aveva elaborato uno studio sul diaconato. Questa volta, con Papa Francesco, si farà sul serio. Di cosa dovrebbe occuparsi, esattamente, questa Commissione?
La questione del diaconato femminile è già stata più volte sollevata  nella Chiesa. Prima ancora del cardinale Martini,  si erano pronunciati a favore del diaconato femminile teologi del calibro di Yves Congar; già nel 1959, nelle fasi preparatorie del Concilio Vaticano II, due vescovi, di cui quello di Ugento-Santa Maria di Leuca, pongono la questione del diaconato femminile,  ripresa dal Sinodo dei vescovi del 1971, riformulata dal Sinodo delle diocesi della Germania federale nel 1974, riproposta dal cardinale Lehmann presidente della Conferenza episcopale tedesca e recentemente sollevata al Sinodo sulla famiglia dal presidente della Conferenza episcopale canadese  Paul-André Durocher; questo per fare solo alcuni esempi. La dichiarazione Inter insignores della  Congregazione per la dottrina della fede del 1976, negando alle donne l’accesso al sacerdozio, non tocca la questione del diaconato. L’Ordinatio sacerdotalis  ha per oggetto l’ordinazione presbiteriale e su questa si pronuncia in maniera definitiva. Il documento della Commissione Teologica Internazionale Il Diaconato: evoluzione e prospettive del 2003 giunge, dopo una disamina di ordine storico-teologico, alla conclusione che: «Alla luce di tali elementi posti in evidenza dalla presente ricerca storico-teologica, spetterà al ministero di discernimento che il Signore ha stabilito nella sua Chiesa pronunciarsi con autorità sulla questione». Dunque individua nel magistero la fonte legittimamente decisionale sull’argomento. Considerato il lavoro svolto dalla CTI, sembrerebbe quasi superfluo che si nomini una nuova Commissione, tuttavia si può pensare che il papa non intenda prendere delle decisioni così importanti per la vita della Chiesa da solo. Come già accaduto per il Sinodo recente, papa Francesco ha mostrato chiaramente la sua volontà di dar vita ad un processo di coinvolgimento ecclesiale. È difficile dirlo, ma si potrebbe trattare di una Commissione a supporto e a sostegno di un eventuale processo decisionale.

Andiamo  alle “radici”: incominciamo, sia pur brevemente, dalla storia. Che cosa dicono, al riguardo del diaconato, le fonti antiche del Cristianesimo (Nuovo Testamento e Padri della Chiesa)?
Le fonti antiche su questo argomento si esprimono come per tante altre questioni della vita ecclesiale dei primi secoli. Ossia non possono fornire delle assolute certezze storiche; possediamo infatti fonti abbastanza lacunose che ci offrono attestazioni relative ad alcuni periodi e non ad altri, ad alcune Chiese o aree geografiche e non ad altre. Ad esempio, l’uso del termine diacono nel Nuovo Testamento – che pure viene utilizzato da Paolo, nella Lettera ai Romani (16,1-4) in riferimento alla cristiana Febe non ha sempre lo stesso significato e in ogni caso il diaconato maschile di cui si parla negli scritti neotestamentari non coincide con il diaconato permanente attuale. In linea generale si può affermare che nei primi secoli del cristianesimo sicuramente esistevano le diaconesse, che svolgevano varie funzioni, coincidenti o meno con quelle dei diaconi maschi. La loro presenza non risulta ugualmente attestata per l’area occidentale e per quella orientale. L’impiego delle diaconesse  in funzioni rivolte alle donne è la forma che pare essere stata la più diffusa. Elemento, questo, che mostra assieme a tanti altri che le Chiese primitive erano Chiese del loro tempo, dunque non tutto ciò che la storia ci restituisce di esse possiede un carattere di normatività. Va detto, inoltre, che la ricerca storica è un cantiere permanentemente aperto, in cui si formulano nuove ipotesi e si interrogano con nuove domande le fonti stesse per cui bisogna essere cauti nel pretendere dagli studi storici la definitività.

Le diaconesse venivano ordinate? O il loro ruolo era meramente funzionale?
Anche su questo punto non abbiamo uniformità. Le fonti lasciano pensare che in alcuni casi si trattasse di vera ordinazione e in altri no. A volte si descrivono riti di ordinazione che avvenivano con l’imposizione delle mani in altri sembrerebbe più opportuno parlare di istituzione. Alcune differenze probabilmente si devono a quelli che Cloe Taddei Ferretti – in uno dei più interessanti volumi usciti di recente sulla ordinazione delle donne nella Chiesa cattolica dal titolo Non date ai cagnolini – giustamente definisce modelli antropologici sottesi al maschile e femminile per cui ruoli e funzioni degli uni e degli altri mutano nel tempo.

Il diaconato, nella Chiesa Cattolica, è il primo grado del Sacramento dell’Ordine  (gli altri sono : presbiterato ed episcopato). E questo in certi ambienti conservatori costituisce un blocco per dire No alla istituzione delle diaconesse (qualcuno addirittura ha affermato: così diventiamo protestanti)  e quindi no al sacerdozio femminile. Insomma si profila una battaglia all’interno della Chiesa cattolica. L’eterna polarizzazione tra i tradizionalisti e gli innovatori. Lei come risponde alla posizione dei tradizionalisti?
Il diaconato costituisce il primo livello del sacramento dell’ordine, tuttavia la qualifica ad ministerium non ad sacerdotium permetterebbe, nonostante l’unicità del sacramento dell’ordine stesso, di non considerare l’ordinazione diaconale in continuità con l’ordinazione presbiteriale. Non a caso, infatti, si parla del diaconato permanente a cui, è noto, accedono attualmente uomini anche sposati e non del diaconato che precede l’ordinazione dei presbiteri.

Il Papa ha escluso l’ordinazione presbiterale per le donne. Per un uomo del nostro tempo si fa fatica a comprendere le ragioni del NO. Lei, da storica, come spiega questa posizione? E’ possibile superarla?
Non credo sia possibile superare la definitività con cui il no al sacerdozio femminile è stato espresso sia nell’Ordinatio sacerdotalis, sia nel Responsum successivo in cui si chiarisce, da parte della Congregazione per la dottrina della fede, quale carattere vincolante posseggano i pronunciamenti contenuti nella lettera apostolica di Giovanni Paolo II. Lo stesso papa Francesco, nella conferenza stampa durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro nel 2013, ha detto: «Giovanni Paolo II si è pronunciato con una formulazione definitiva, quella porta è chiusa». Di ordinazione femminile si è discusso da sempre nella Chiesa, tuttavia nel secolo scorso il dibattito si è più vivacemente acceso e si è resa più pressante la richiesta di aprire questo spazio alle donne. L’Ordinatio sacerdotalis, non a caso promulgata il giorno di Pentecoste, sembra essere una risposta che mira a “raccordare” la teologia al Magistero, in un momento storico in cui si è voluta individuare una certa autonomia della teologia e una ricettività ridotta di essa rispetto ai pronunciamenti magisteriali. Tuttavia l’idea di un limite oltre il quale non andare, potrebbe, in questa fase della storia della Chiesa cattolica, fungere da riflettore su tutto ciò che ancora non è stato concesso alle donne ma neanche vietato, sollecitando scelte e decisioni che i tempi richiedono.

Veniamo alla vita attuale della Chiesa Cattolica. Come giudica la situazione della donna nella Chiesa? Vede progressi? E nella Chiesa italiana?
Dall’epoca preconciliare ad oggi molti passi sono stati compiuti. L’ammissione delle donne in qualità di uditrici ai lavori della terza sessione del Concilio Vaticano II costituisce un segno epocale, sebbene queste non potessero pubblicamente parlare e neanche accedere ai punti di ristoro frequentati dai Padri conciliari! Soprattutto penso alla svolta impressa da Paolo VI proclamando nel 1970 le prime due donne, Teresa d’Avila e Caterina da Siena, dottori della Chiesa: un riconoscimento della loro «autorità di dottrina» la cui portata non risulta a tutt’oggi pienamente compresa e resa operante. La presenza femminile nella chiesa è forte, non di numero come un tempo – in ossequio all’adagio per il quale la religione è roba da donne – ma di contributi fattivi e di altissima qualità; penso, ad esempio, per parlare di qualcosa di cui ho esperienza diretta, alle teologhe. Mi sembra significativo, del resto, che la richiesta di riconsiderare la possibilità del diaconato femminile sia partita dalle religiose e sia stata formulata direttamente al papa in un contesto come quello dell’assemblea della Superiore generali degli istituti religiosi. Tuttavia si sono registrate negli anni non poche battute d’arresto e una tendenza, sempre pronta a riemergere, che mira a determinare cosa sia lo specifico femminile (quel famoso quanto fumoso “genio femminile”), quasi a neutralizzare, irregimentare il potenziale che le donne possono esprimere. Inoltre gran parte del lavoro svolto dalle donne resta sostanzialmente informale e realizzato dietro le quinte. La Chiesa italiana, probabilmente, risente più di altre di questa condizione nella misura in cui il clericalismo resta più vivo. Non mancano Chiese, però, in cui la condizione della donna è ancora di profonda subordinazione, come alcune testimonianze, ad esempio da regioni africane, inducono a pensare.

Ultima domanda: se si arrivasse davvero all’ istituzione del diaconato femminile, che cosa farebbero queste diaconesse di più di quelle che fanno le donne nella comunità ecclesiale? Come cambierebbe il volto della Chiesa?
Se un diaconato femminile venisse istituito nella Chiesa cattolica in maniera pienamente analoga al diaconato permanente maschile, cambierebbero sicuramente diverse cose. Tra le più importanti, direi, le funzioni liturgico-sacramentali che allo stato le donne non possono svolgere: matrimoni o esequie,  ad esempio. Le donne uscirebbero dall’ombra e dall’ufficiosità e riceverebbero, soprattutto, quella “grazia di stato” che è legata all’ordinazione e che è dono che si riversa sulla comunità prima ancora che sulla persona. Avremmo una Chiesa più inclusiva e meglio capace di riverberare sul mondo – e si comprende bene come non si tratti qui di aggiornare la Chiesa al mondo o meglio di rincorrere le mode del mondo come alcuni paventano – il volto di Dio che è volto di Padre e di Madre allo stesso tempo.Vorrei aggiungere, a questo punto, una considerazione di diverso segno e che riguarda il cosa non cambierebbe nella Chiesa. Mi riferisco alla sua dimensione clericale. C’è un esercizio dell’autorità nella Chiesa che passa attraverso la clericalizzazione  – riguarderebbe anche le diaconesse – e c’è invece tanto bisogno di ripensare a forme di autorità che non siano legate all’appartenenza al clero: in altre parole bisogna aprire la via a che i laici possano contare di più nella Chiesa di cui sono, a pieno titolo, parte.
Vorrei aggiungere, a questo punto, una considerazione di diverso segno e che riguarda il cosa non cambierebbe nella Chiesa. Mi riferisco alla sua dimensione clericale. C’è un esercizio dell’autorità nella Chiesa che passa attraverso la clericalizzazione  – riguarderebbe anche le diaconesse – e c’è invece tanto bisogno di ripensare a forme di autorità che non siano legate all’appartenenza al clero: in altre parole bisogna aprire la via a che i laici possano contare di più nella Chiesa di cui sono, a pieno titolo, parte.

Coop Connection. La prima inchiesta sulle Coop in un libro di Antonio Amorosi per “Chiarelettere”

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Coop Connection.  La prima inchiesta sulle Coop in un libro di Antonio Amorosi per “Chiarelettere”

IL LIBRO

La prima inchiesta sulle coop in Italia. Anni di silenzio, difficile mettere il naso dentro un mondo che garantisce lavoro, potere, soldi e continuità politica. Solo grazie agli ultimi scandali di Mafia capitale sono raffiorate le contraddizioni di un universo economico che da solo genera 151 miliardi di fatturato dando lavoro a più di un milione di persone. Grande distribuzione, grandi opere, servizi, alimentazione, assicurazioni: il mondo coop, frutto di una storia secolare, copre tutto il territorio, dal Nord al Sud, in nome della solidarietà, a difesa dei lavoratori.

Questo libro prova a smontare la propaganda che ha alimentato l’universo coop e racconta la realtà di un business protetto, in cui sfruttamento, corruzione, speculazione finanziaria sono ben presenti seppure mai denunciati perché coperti dal marchio della legalità. per fare del bene tutto è concesso, anche godere di un regime fiscale particolare (lo garantisce la costituzione), allearsi con le mafie locali, pilotare le gare d’appalto, pagare tre euro all’ora un lavoratore, persino arricchirsi sulle spalle degli immigrati.

Un vero blocco economico, politico, culturale che fa comodo a un’intera classe dirigente e che si basa sulla distrazione della magistratura in un intreccio di potere difficile da scalfire. Coop connection vuole dare voce a chi è solo a denunciare questo sistema, in nome di quei valori in cui credono tanti lavoratori e che hanno ispirato la nascita delle prime cooperative.

L’AUTORE

Antonio Amorosi, giornalista d’inchiesta, è nato a Ludwigsburg, in Germania, nel 1970. A trentaquattro anni, nel 2004, è stato assessore alle Politiche abitative del Comune di Bologna con Cofferati sindaco. Si dimette dopo appena diciotto mesi denunciando il sistema politico e amministrativo locale che dal 1986, scavalcando le graduatorie, assegnava una percentuale elevata di alloggi popolari per via politica. Si occupa della presenza della criminalità organizzata in Emilia-Romagna e dell’attualità politica come giornalista radiofonico. Nel 2010 è autore con Christian Abbondanza del libro TRA LA VIA EMILIA E IL CLAN edito dalla Casa della Legalità di Genova. Le sue inchieste per il quotidiano online Affaritaliani.it nel 2011 portano alle dimissioni di diversi politici emiliani e alla nascita di casi giudiziari nazionali. Nel 2013 ha collaborato con “Il Foglio”. Scrive e pubblica i suoi reportage sul settimanale “Panorama” e dal 2014 sul quotidiano “Libero”.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un breve estratto del libro.

Questo libro nasce per fare chiarezza sul mondo delle cooperative, uno dei cardini dell’economia italiana che pesa 151 miliardi di fatturato, l’8 per cento del Pil, e che dà lavoro a più di un milione e centomila persone. Un universo economico che vale più del Prodotto interno lordo dell’intera Ungheria ma poco raccontato, frutto di una storia secolare e di un presente in cui non mancano luci e ombre. E contraddizioni di un sistema fondato sul mutualismo ma degenerato in un’azione mercantile incessante, che sa trasformare in ricchezza ogni debolezza sociale. Dove «fare il bene» è una dialettica commerciale che fa crollare qualsiasi muro e sa inglobare ogni cosa. Al punto che, come scrive Mediobanca, le coop guadagnano più dalla finanza che dalla vendita delle merci.(1)

E operano in Borsa, anche se non potrebbero farlo, tramite quote di una Spa come Unipol. L’inchiesta Mafia capitale, che ha sconvolto Roma, è uno spartiacque che per la prima volta ha cambiato la percezione collettiva che abbiamo delle coop. Ma è solo la punta dell’iceberg di un sistema liquido e complesso che muta ogni volta strategia, e ha alleati nella politica, nella giustizia, in ogni istituzione. Dall’Expo al Mose, da Mafia capitale alla Grande distribuzione, dai cantieri della Tav alla Val di Susa sono troppi i casi in cui imprese targate coop, come Cpl Concordia, risultano inquinate da rapporti con la criminalità organizzata e dalla corruzione. La crisi economica li fa emergere nonostante lo storytelling della sinistra, l’affabulazione che ieri si chiamava propaganda di partito. Per non parlare dei risparmi di molti soci affidati alle coop e andati in fumo in seguito a spericolate operazioni finanziarie. Delle ingiuste agevolazioni, non solo fiscali, che alterano il libero mercato annullando possibili concorrenti. O dei contratti da fame e delle condizioni capestro cui sono costretti molti giovani lavoratori. Un «sottomondo» di schiavi invisibili, manovalanza nell’agroalimentare, nella logistica, nel facchinaggio. Schiavi anche grazie a un articolo del Jobs Act voluto da Renzi e dal ministro del Lavoro – l’ex presidente di Legacoop Giuliano Poletti –, e passato nell’indifferenza generale, che abroga il reato di intermediazione fraudolenta di manodopera, il cosiddetto caporalato. Tutto nel silenzio. Cosa c’è sotto il mondo che eravamo abituati ad associare agli alti valori del mutuo aiuto, nato dalla solidarietà tra gli ultimi? E perché scopriamo solo ora scandali e speculazioni? Quali informazioni ci sono state nascoste?

L’Emilia-Romagna rappresenta il dna di questo sistema con uomini, capitali e strutture, però le indagini giudiziarie sulle coop non partono mai da qui e, se per caso si aprono, presto si dissolvono. L’ex procuratore capo di Bologna, Enrico Di Nicola, ha esaltato il modello giudiziario del capoluogo, fondato sull’«armonia»(2) tra giustizia e politica. Perché in Emilia non c’è separazione di poteri. In effetti è vero. Amministrazione pubblica, partito e pezzi del mondo della magistratura sono entrati in sintonia formando un sistema potente e legalmente inattaccabile in un intreccio difficile da riconoscere, che ha saputo riprodursi negli anni sempre uguale a se stesso e in cui il libero mercato è un’opzione limite, la legalità un’apparenza e la giustizia applicata da un corpo non indipendente. Dagli anni Sessanta e Settanta camorra, ’ndrangheta e mafia hanno  costruito su questo sistema imperi economici, crescendo con le istituzioni che ne negavano la presenza. Un sistema, quello delle coop, che vorrebbe espandersi a tutti gli angoli del paese e che ha in nuovi settori di mercato le sue punte di diamante. Come l’erogazione di servizi ed energia offerti dalla multiutility Hera o il successo nel settore alimentare di Eataly, la Disneyland del cibo di qualità, ma persino l’antimafia può diventare un business che assicura la vendita di prodotti confezionati con il marchio della legalità. Nuovi soldi, nuovi mercati, nuovo potere. Senza nulla togliere al valore del marchio delle cooperative e all’impegno di tanti lavoratori che hanno partecipato alla creazione di tanta ricchezza, è necessario entrare dentro le contraddizioni. Il viaggio nei fondali reconditi di questo pianeta non vuole mettere in discussione le tante persone che con correttezza lavorano anche nella cooperazione e nelle istituzioni. Anzi, questo libro è pensato anche a loro difesa, nella speranza che la spessa corteccia di omertà e indifferenza, unita alla buona fede di molti, possa essere scalfita e che i diritti principali dei soci vengano rispettati.

 

1 Annuario R&S Mediobanca, dicembre 2014.

2 A. Mantovani, «Corriere di Bologna», 30 settembre 2008.

Antonio Amorosi, Coop Connection. Nessuno tocchi il sistema. I tentacoli avvelenati di un’economia parallela, Ed.Chiarelettere, Milano 2016, pp. 304. € 16,90

Contratto Metalmeccanici: “Chiediamo una svolta al negoziato”. Intervista a Marco Bentivogli.

Il segretario nazionale della FIM CISL Marco Bentivogli (Ansa)

Il segretario nazionale della FIM CISL Marco Bentivogli (Ansa)

In settimana ci saranno incontri al tavolo tecnico per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. A che punto siamo con la trattativa? Quali le possibili novità? Lo chiediamo, in questa intervista, a Marco Bentivogli, Segretario Generale nazionale della Fim-Cisl.

Bentivogli, sono passati 6 mesi dall’inizio della trattativa e c’è stato anche uno sciopero generale unitario…. Mi scuso per la provocazione, ma ci sono un milione e seicento mila di metalmeccanici che aspettano qualche risultato. A che punto siete?
Con lo sciopero del 20 aprile, che ha registrato una grandissima partecipazione dei metalmeccanici di tutta Italia, abbiamo dato un segnale forte a Federmeccanica che era arroccata da oltre sei mesi e 13 incontri sulle stesse posizioni, proprio perché nessuno di noi – oggi meno che mai – bisogna accelerare i tempi, contrariamente a quello che ha dichiarato il Presidente di Federmeccanica, Fabio Storchi.
Su molti aspetti della parte normativa (welfare, diritto soggettivo alla formazione, smart working, etc) si sono stati importanti passi in avanti, rimangono invece distanti le posizioni sul salario, con Federmeccanica “marmorizzata” sulla proposta del dicembre scorso.
Non possiamo perdere tempo, se non si entra nel vivo della trattativa, si guastano le relazioni e i contenuti del negoziato, anche gli obiettivi positivi finora raggiunti. E’ per questo che, dopo lo sciopero, abbiamo detto a Federmeccanica di cambiare passo: abbiamo chiesto un calendario di confronto serrato, quasi giornaliero. I prossimi incontri sono stati fissati per il 10, 11, 16 e 17 maggio per il confronto in sede tecnica sui primi testi e il 18 o 19 maggio per il confronto in ristretta con le segreterie nazionali. L’obiettivo è quello di accorciare le distanze che ancora ci separano nel minor tempo possibile, proprio per dare risposte certe e rapide ai lavoratori. I passaggi che abbiamo davanti sono stretti, la controparte, ha spiegato alle imprese che l’accordo sarà uguale alla loro piattaforma. Modalità non solo inaccettabile ma che rende tutto più lento e complicato.

Lei ha definito questo “rinnovo contrattuale” come il più “difficile della storia”. Quali sono le ragioni di questo sua affermazione?
Questo contratto si inserisce in un contesto delicatissimo e molto complicato, per molti aspetti inedito nella storia dei rinnovi contrattuali dei metalmeccanici.
In un contesto in cui rimane viva la crisi e alta la disoccupazione (soprattutto giovanile, al 38% contro il 22% della media europea), si aggiunge il fatto che il nostro Paese oggi sta vivendo un periodo di deflazione, tanto che gli imprenditori volevano addirittura indietro metà degli aumenti concessi con il contratto precedente. Tutto ciò in assenza di regole aggiornate sulle relazioni industriali. C’è poi un sistema industriale spaccato, tra chi non ha subito o sta superando la crisi e chi è stato invece falcidiato dalla recessione. In questa condizione la nostra controparte punta in sostanza ad azzerare il contratto nazionale, è per questo che ho definito la proposta di Federmeccanica “un contratto valigia in mano”.
In gioco non c’è solo il rinnovo del contratto, la vera sfida è innovare il sistema delle relazioni sindacali e industriali del nostro Paese, puntando in particolare sulla partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali.

Veniamo ai punti della trattativa: Federmeccanica punta sul secondo livello, voi sulle garanzie del Contratto Nazionale”. Su che basi avverrà la mediazione? In tempi di “Jobs act” la vedo dura….
Le cose non stanno esattamente così. Se si vuole puntare sul secondo livello bisogna contemplare anche la contrattazione territoriale e premiare chi fa la contrattazione aziendale e non chi da’ salario individuale in modo unilaterale senza nessuna trasparenza meritocratica. Noi pensiamo che il contratto nazionale debba mantenere una forza di garanzia per tutti, fornendo un salario equo e che tuteli il potere d’acquisto e una cornice di regole e tutele condivise che valgano per tutti i lavoratori. Al contempo però sosteniamo che vada assolutamente rafforzata la contrattazione di secondo livello, laddove la ricchezza è prodotta, nella dimensione aziendale ma anche territoriale, per riuscire a fare sistema e raggiungere tutte le aziende, anche quelle più piccole, ridistribuendo perciò la ricchezza a seconda della produttività.
Il contratto dei metalmeccanici riguarda 1 milione e 600 mila di persone, è il più grande del settore privato: abbiamo la responsabilità di trovare – noi e Federmeccanica – un equilibrio che non lasci fuori nessuno.
Non è vero che la mediazione non sia possibile: occorre serietà, impegno e responsabilità da parte di tutti, insieme alla capacità di andare oltre pregiudizi e resistenze reciproche.
Se, come dicevo, questo è il contratto più difficile della storia, occorre coraggio per poterla scrivere la storia. La Fim, in questo, è pronta.

Quali sono gli altri punti strategici del rinnovo contrattuale dove maggiore è la distanza con Federmeccanica?
Sul welfare (previdenza e sanità integrativa), sul diritto soggettivo alla formazione, sul rilancio dell’apprendistato come strumento di alternanza scuola-lavoro, sulla conciliazione tempi vita/lavoro e sui diritti dei lavoratori migranti ci sono disponibilità da parte di Federmeccanica che chiedevamo da anni.
Distanti sono invece ancora le idee sulla partecipazione dei lavoratori, sull’inquadramento professionale (fermo al 1973) e quella relativa alla proposta salariale, rispetto alla quale Federmeccanica è “marmorizzata” sulla proposta fatta a Dicembre dell’anno scorso.

Sul salario la posizione di Federmeccanica è scandalosa: propone l’aumento dei minimi solo per il 5% dei metalmeccanici. come rispondete ? Qual è l a vostra proposta salariale? Ci saranno nuovi inquadramenti ?
Come dicevo, proprio per il contesto in cui si colloca questo rinnovo contrattuale e per la sua importanza, non possiamo permetterci (né noi, né Federmeccanica, a mio avviso) di lasciare fuori nessuno. La proposta salariale di Federmeccanica, invece, di fatto smonta la base del contratto nazionale perché si rivolge soltanto al 5% dei lavoratori, con aumenti posticipati di 15 mesi e senza retroattività.
Infine la proposta presentata non da’ alcuna garanzia di collegamento tra gli accordi aziendali e la produttività, che è ciò che serve invece per rafforzare gli investimenti, aumentare i salari e spingere l’occupazione. Ci sarebbe un minimo di garanzia fissato da Federmeccanica che cesserebbe di essere il contratto “prevalente” con tutto ciò che ne consegue sulla sua efficacia erga omnes.
Con questa ipotesi saranno solo le piccole imprese a pagarne il costo più alto, non si miglioreranno né salari né produttività e si avrà una “balcanizzazione” delle relazioni industriali.
Dobbiamo assolutamente preservare il ruolo di tutela del contratto nazionale, garantendo  potere d’acquisto per tutti i lavoratori del settore. Nelle aziende oggi viene erogato  un salario aziendale mensilizzato (contrattato e soprattutto non contrattato) che va ricondotto ad uno schema più evoluto di inquadramento professionale e di  contrattazione aziendale.
Gli inquadramenti professionali, cristallizzati da troppo tempo, devono essere rinnovati e aggiornati per rispondere meglio ai nuovi ruoli che svolgono oggi operai e impiegati nelle nuove fabbriche in quella che molti definiscono la quarta Rivoluzione Industriale.
In questo la formazione, al pari del salario e del diritto alla salute e sicurezza, diventa un elemento strategico all’interno delle richieste che stiamo facendo nel rinnovo del contratto.

Veniamo alla partecipazione dei lavoratori. Questo è un fattore importante, quale sarà il vostro modello di riferimento? 
In molti, anche tra gli imprenditori, sono affezionati al solo contratto nazionale perché non vogliono un ruolo attivo dei lavoratori e del sindacato in azienda.
Noi invece riteniamo che anche un semplice coinvolgimento oggi non basti più: la vera sfida sull’innovazione si può vincere solo concretizzando la piena e concreta partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali e a quelle organizzative. E’ un salto culturale di qualità che deve fare tutto il mondo del lavoro, in Industry 4.0 i lavoratori devono essere protagonisti, e non solo spettatori, di ciò che accade. Questo a vantaggio anche delle aziende.
Va poi superato il tabù di Federmeccanica contro i contratti territoriali; ancora oggi il 63% delle aziende metalmeccaniche italiane sono piccole imprese che non hanno il contratto aziendale. Fare sistema in Italia pare essere una cosa complicata, in realtà è l’unica strada per migliorare condizioni di lavoro, produttività e occupazione. Dico sempre che è il momento di fare poche cose, chiare, precise, ma di farle tutti insieme.

Ultima domanda: L’unità, finalmente tra voi, porterà ad una nuova FLM, ovviamente rinnovata? 
Il nostro è un tentativo di ricomposizione che deve stare alla larga da un ruolo difensivo. L’unità per scioperare e magari non fare il contratto non ci interessa. Bisogna tenere insieme protesta e proposta. L’FLM, quando fu costituita nel 1973, fu l’esito di un percorso di battaglie comuni degli anni Sessanta, ma soprattutto fu l’approdo di una sintesi alta di posizioni diverse, in un contesto di rispetto reciproco e di libertà di espressione da parte dei protagonisti del tempo.
Oggi purtroppo veniamo da un periodo di forti divisioni, in cui molto spesso il rispetto reciproco delle posizioni in molte fabbriche non c’è stato: i nostri delegati hanno subito molti attacchi e ferite, per i contratti firmati separatamente e per la responsabilità agita in quel contesto. Queste ferite non si cancellano in un giorno.
Lo sciopero unitario che abbiamo fatto il 20 aprile, il primo dopo otto anni, è stato preceduto da attivi regionali dei delegati in cui abbiamo tutti richiamato il rispetto di poter avere idee diverse e di esprimerle liberamente.
Oggi è stata Federmeccanica a riunirci, praticamente “invocando” uno sciopero per la rigidità delle sue posizioni. Il mio auspicio è soprattutto che il rispetto continui, in tutte le fabbriche,  e che sia la precondizione per arrivare a fare, domani, una sintesi alta.
In questi anni il punto di massima divisione del sindacato si è registrato proprio tra Fim e Fiom e tra me e Landini. Siamo molto distanti, se prevarrà lo spirito sindacale – e solo sindacale – la ricomposizione sarà più semplice. Altrimenti, confermeremo la nostra, autonomia e l’indisponibilità ad utilizzare i metalmeccanici su un terreno di opposizione politica. Parlarsi spero aiuti a non ripetere errori vecchi.

IEO, un’eccellenza italiana alla lotta ai tumori. Nuove prospettive di cura con la Precision Medicine . Intervista a Virgilio Sacchini.

Virgilio SacchiniIl suo è uno dei “rientri di cervelli” più importanti avvenuti in questi anni.
Parliamo di Virgilio Sacchini, oncologo e chirurgo di fama mondiale, che nei prossimi giorni farà ritorno, dopo una lunga esperienza negli Usa, a Milano all’ IEO (Istituto Europeo Oncologico) fondato da Umberto Veronesi. E’ una bella notizia per i pazienti e per la ricerca italiana. L’allievo di Veronesi, infatti, è il massimo esperto di tumori al seno. Quali le motivazioni del suo rientro in Italia? Come si svilupperà la sua azione? Quali le nuove prospettive di cura? Ecco le sue risposte:

Che cosa ha spinto uno scienziato così affermato come lei a lasciare un centro di assoluta eccellenza mondiale, il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York e a far ritorno, dopo 16 anni, a Milano?

In realtà sarò sempre parte del Memorial Sloan Kettering Cancer Center, con cui si instaurerà un’importante collaborazione clinica e scientifica.
Quindi, il mio ritorno in Italia non coinciderà con uno strappo definitivo con l’università americana. Sarò sempre docente della Cornel University e apparterrò sempre allo staff del Memorial, con la mia presenza periodica presso queste Istituzioni, in modo da consolidare l’asse Memorial-Sloan Kettering e IEO (Istituto Europeo Oncologico). Ciò permetterà lo scambio di protocolli di trattamento e di sperimentazione più avanzati nel mondo.
Il Memorial Sloan Kettering è considerato una delle migliori istituzioni al mondo per la cura e la ricerca dei tumori.  La scelta di tornare all’IEO è dovuta al fatto che si tratta di un’istituzione d’eccellenza europea, che si avvicina molto al modello del Memorial. C’è una ricerca di base molto forte, con una produzione scientifica tra le più importanti del mondo. Ci sono ricercatori impegnati a capire meglio i meccanismi biochimici della progressione cellulare tumorale. Penso che si possa facilmente organizzare una ricerca traslazionale veloce ed efficace nell’interesse dei pazienti.

Lei andrà a dirigere il programma senologico dell’IEO, un’eccellenza italiana nella lotta ai tumori, fondato da Umberto Veronesi, di cui lei è stato allievo. Come si svilupperà la sua azione? Porterà delle innovazioni?

L’aspetto strategico più importante in questo momento è la stretta interazione tra ricerca di base e ricerca clinica. L’obiettivo prioritario nella ricerca sui tumori in questo momento è il raggiungimento di un’eccellente ricerca traslazionale che, in poche parole, significa trasferire il più in fretta possibile i risultati della ricerca di base – la ricerca molecolare sulle cellule tumorali – in modo che il paziente possa beneficiare delle conoscenze acquisite con la ricerca sperimentale. Il Memorial Sloan Kettering ha sviluppato un ottimo programma di ricerca traslazionale, con una cooperazione molto stretta tra i biologi e i medici curanti, per sperimentare nuove terapie e nuove tecniche diagnostiche.
Per il tumore della mammella, il Memorial è stato pioniere nella determinazione genetica dello sviluppo dei tumori, per identificare le pazienti a rischio da sottoporre ad una speciale sorveglianza o a chirurgia di riduzione del rischio. Dal punto di vista diagnostico, il Memorial è stato uno dei primi istituti al mondo a sviluppare la Risonanza Magnetica come indagine diagnostica selettiva. Dal punto di vista farmacologico numerosi sono i protocolli in atto con nuovi farmaci e vaccini.
L’ambizione non sarà solo di ricerca, ma anche clinica. Il Memorial è una delle migliori istituzioni al mondo per la cura del tumore della mammella, con una delle probabilità di sopravvivenza più alte negli Stati Uniti, e ciò grazie all’esperienza ma, soprattutto, alla pragmaticità con cui vengono condotte le varie fasi del percorso, dalla diagnosi alla scelta dell’intervento e ai trattamenti successivi. Tutto avviene secondo protocolli consolidati e sistemi di predizione del rischio futuro che ci consentono di modulare i trattamenti oncologici.

Lei, recentemente, ha affermato che a Milano nei prossimi dieci anni si giocherà la sfida italiana contro il cancro. Come giudica il livello attuale della ricerca italiana contro i tumori?

I ricercatori clinici italiani vantano una professionalità e una preparazione eccellenti ed è per questo che siamo richiesti in tutto il mondo. In Italia, però, si fatica molto di più, perché bisogna sopperire alla riduzione delle risorse e alle carenze del sistema. I professionisti sono sicuramente sottoposti ad uno stress maggiore che in passato. In questo momento si trovano tra “l’incudine ed il martello”, tra un sistema che, senza colpa, li sta limitando, e un’ utenza – il cittadino – che ha, giustamente, grandi aspettative, spesso fomentate da informazioni irreali e demagogiche. Penso veramente che il cittadino in questo momento debba rendersi conto che non può avere tutto e sùbito, magari gratuitamente, e che la medicina sia onnipotente. Quello che invece deve pretendere è di il massimo in fatto di trattamento, lo stato dell’arte della diagnosi e della cura: il cosiddetto Gold Standard.
È importante implementare sempre di più i controlli di qualità per limitare quanto più possibile gli errori medici, che sono una causa molto importante dell’insuccesso dei trattamenti.

Parliamo della nuova frontiera della ricerca medica: la medicina di precisione. Una frontiera che aprirà scenari positivi per la cura contro i tumori. In che cosa consiste questo nuovo approccio?

La Precision Medicine è vista come una rivoluzione nel campo della scienza medica. Si basa essenzialmente sulla sequenza del DNA, con l’identificazione delle mutazioni geniche. Le moderne tecnologie bioingenieristiche computerizzate utilizzate per l’elaborazione dei dati e l’abbattimento dei costi nello studio della sequenza del DNA permettono di studiare il genoma di ogni individuo e dei singoli tumori per poter meglio individuare predisposizione alle malattie e mettere a punto farmaci più specifici per prevenirle e combatterle.
Sappiamo, ad esempio, che l’Aspirina è in grado di diminuire il rischio di tumori del colon, ma la Precision Medicine ci dice che soggetti con alti livelli di 15-hydrossiprostaglandina (dovuti a mutazione genica) hanno il miglior beneficio dall’assunzione di questo farmaco.
Nel prossimo futuro il trattamento di una malattia potrebbe essere completamente diverso in funzione del genoma dell’individuo. Potrebbe trattarsi di una vera e propria rivoluzione nel modo di curare e nel modo con cui i governi dovranno organizzare la sanità pubblica. L’attenzione alla Precision Medicine è così notevole che per il 2016 il governo americano ha stanziato 210 milioni di dollari per la ricerca in questo campo, un impegno paragonabile al National Cancer Act promulgato da Richard Nixon nel 1971 per destinare notevoli risorse contro questa malattia, e che ha portato ad importanti progressi nelle cure negli ultimi 45 anni. È probabile che possa essere la mazzata finale a questa terribile malattia.
In particolare, si vogliono potenziare soprattutto gli studi sulla Precision Medicine in oncologia, che consentirebbero di definire terapie più mirate, trovare farmaci con minori effetti collaterali e maggiori probabilità di successo.
I tumori, anche di uno stesso organo, sono genomicamente diversi, cioè provocati da geni mutati diversi. Ogni mutazione richiede trattamenti specifici.
Il trattamento mirato con farmaci biologici dipendente dalle mutazioni del tumore è già una piccola realtà, nello specifico per alcuni tumori come quello della mammella, la leucemia mieloide, alcuni tumori del colon e del polmone. Ma non è abbastanza. Bisogna potenziare all’estremo questo meccanismo di cura.
Quello che si vuole fare è trovare sempre più mutazioni nel DNA tumorale responsabili di processi metabolici specifici che possono essere interrotti da farmaci specifici. Così facendo si ridurrebbe molto l’empiricità con cui vengono fatti attualmente i trattamenti. Pensiamo alla chemioterapia, che spesso viene fatta alla cieca, senza sapere se funzionerà, aspettando tre o quattro mesi per vedere i risultati, che spesso sono deludenti e con notevole tossicità per il paziente.
L’analisi genetica ci potrà dire a priori quale sarà il successo del trattamento specifico. Ormai sappiamo che le cellule tumorali possono creare nel loro DNA altre mutazioni, con nuove catene metaboliche che possono bypassare il blocco metabolico attuato dal farmaco. La genomica ci da la possibilità di verificare continuamente le nuove mutazioni che il tumore può formare, e quindi di cambiare farmaco in funzione delle stesse.
Il Memorial Sloan Kettering è scientificamente impegnato nel progetto della Precision Medicine con la possibilità di studiare 516 geni correlati ai tumori, con tentativi di personalizzazione dei trattamenti. L’ambizione è poter determinare queste mutazioni tumorali nel DNA che circola liberamente nel sangue. Le cellule tumorali mettono in circolo DNA che è possibile isolare e sequenziare con tecniche molto complesse, ma già disponibili. Basterà un prelievo di sangue per poter verificare se il tumore è stato completamente debellato o se è ricomparso con nuove caratteristiche che richiedono nuovi farmaci specifici. Ma si vuole fare di più: il tumore, quando nasce, potrebbe già immettere DNA tumorale nel sangue, che un semplice esame del sangue potrebbe evidenziare, consentendo una diagnosi estremamente precoce ed aumentando incredibilmente le possibilità di cura. Sembra un’idea fantascientifica, ma in realtà stiamo già studiando al Memorial Sloan Kettering correlazioni tra DNA mutato e piccoli tumori mammari, in modo da avvalorare questa ipotesi.
Apparentemente questa medicina può sembrare più costosa, perché le sequenze del DNA sono ancora costose, ma negli anni si è avuto un abbattimento incredibile nei costi grazie alla tecnologie più avanzate. Nel 2001 il costo dell’intera sequenza del DNA è stato di cento milioni di dollari, per diventare di dieci milioni nel 2007, centomila nel 2009, diecimila nel 2011 e cinquemila nel 2014. Le previsioni sono che entro qualche anno sequenziare l’intero genoma potrebbe costare qualche centinaio di dollari.
In un momento come questo, in cui si discute molto sulla spesa sanitaria nazionale e sugli esami inutili e costosi, questa metodica potrebbe completamente rivoluzionare la medicina, sostituendo esami complessi e spesso non specifici con un esame del sangue, selezionando poi un minor numero di pazienti per esami diagnostici o di screening.
Naturalmente, il numero di guarigioni, la minor tossicità dei trattamenti, la migliore qualità della vita in generale non hanno prezzo.

È possibile utilizzare la “medicina di precisione” anche per altre patologie?

Questa è la finalità. Ad esempio, l’ipercolesterolemia (che non è una malattia, ma un fattore di rischio) potrà essere trattata in modo diverso a seconda dei geni coinvolti.

Torniamo per un attimo alla ricerca italiana in ambito medico. Qual è il gap più grave, e come superarlo?

Il gap principale sono le risorse. La ricerca costa e i ricercatori hanno il diritto di vivere in modo dignitoso. Con le stesse risorse che si hanno in America, la ricerca italiana sarebbe esplosiva e, a mio avviso, determinante per sconfiggere il cancro una volta per tutte.

Ultima domanda: quale messaggio vuole dare ai giovani ricercatori italiani che hanno lasciato il nostro paese?

Mantenere il rapporto con il nostro paese. La tecnologia ci consente di scambiarci dati e immagini in tempo reale e, in definitiva, lavorare in un laboratorio nel Minnesota è come lavorare dietro casa in Italia (purtroppo, però, senza l’affetto della famiglia e senza le nostre bellezze italiane). Certamente, se si ha l’opportunità di tornare, bisogna farlo con entusiasmo, per cercare di portare la nostra esperienza positiva in Italia, soprattutto con un atteggiamento di lavoro di squadra e voglia di produrre, evitando il tipico fazionismo italiano, cioè la formazione di gruppetti antagonistici che si fanno la guerra, quello che io definisco la “politicizzazione” della ricerca e della medicina.