Ecco le novità sul caso Moro. Intervista a Gero Grassi

Scena dell'agguato in Via Fani  a Roma 1978Due notizie di questi giorni hanno riacceso l’attenzione dell’ opinione pubblica sul caso Moro: il rinvenimento, in un controsoffitto del policlinico di Milano, di documenti della colonna milanese delle BR e, l’altra notizia, la conferma (prima era solo una ipotesi investigativa), da parte dei RIS dei Carabinieri, della presenza, quel 16 marzo del ‘78, in Via Fani di Antonio Nirta, un boss della ‘ndrangheta. Questa è avvenuta analizzando una vecchia foto del ’78, ritrovata nell’archivio storico del quotidiano romano Il Messaggero. Insomma, per dirla alla maniera di Giuseppe Fioroni, Presidente della Commissione parlamentare sul Caso Moro, non siamo ai titoli di coda nella ricerca della verità di quei sanguinosi e drammatici giorni. Giorni che hanno segnato per sempre la democrazia italiana. Ne parliamo, in questa intervista, con Gero Grassi, giornalista e deputato del PD e membro della Commissione Fioroni.

Onorevole Grassi, lei è membro importante della “Commissione Fioroni”, che è la sesta commissione (dal 1979) che indaga sul caso Moro, istituita con il compito di accertare “eventuali nuovi elementi che possono integrare le  conoscenze acquisite dalle precedenti commissioni (…) e eventuali responsabilità riconducibili ad apparati”. Siamo a quasi quarant’anni dai drammatici fatti Via Fani e di via Caetani, c’è ancora oscurità nella conoscenza profonda di quei fatti. Le chiedo quali sono i primi risultati o misteri svelati dalla Commissione?

Anzitutto mi corre l’obbligo di precisare che l’attuale è la seconda commissione Moro pure essendoci state 4 commissioni: quella sul Terrorismo, la Mitrokin e quella sulla P2 che hanno seguito anche il caso Moro.

C’è tanta oscurità per diverse omissioni verificate nelle indagini pregresse. Credo di poter affermare che abbiamo raggiunto più risultati in due anni che nei trentasei precedenti. Ecco alcuni risultati ottenuti sinora: anzitutto la dinamica della strage di via Fani, le presenze, la sparatoria e il luogo dell’agguato. Accanto a ciò quello che è successo nei tre mesi precedenti il 16 marzo 1978.

Per il Procuratore Pietro Spataro, in un’intervista a Repubblica sul ritrovamento, avvenuto poche settimane fa, di documenti BR della colonna “Walter Alasia”, in un controsoffitto del Policlinico di Milano,  ha affermato che sul caso Moro sappiamo tutto . Per lui non esistono “presunti misteri” . Lei contesta l’affermazione. Le chiedo: Quali, secondo lei, i misteri, le oscurità ancora da chiarire del “Caso Moro”?

Ho contestato aspramente le affermazioni del dottor Spataro anche in Commissione. In Italia esiste la tendenza a difendere posizioni acquisite. Nel caso di specie la verità che ci viene raccontata è quella del memoriale Morucci-Faranda, completamente smontato in Commissione.

Registro con amarezza che i protagonisti di quella stagione (magistrati, militari e classe politica) sono tutti indotti a credere a una verità che oggi non regge più alle evidenti prove. Spirito di corpo? Autodifesa? Troppo presto per dirlo.

In questi giorni i Carabinieri del RIS hanno riconosciuto, analizzando una fotografia della  “scena del crimine” di Via Fani , un boss della ‘ndrangheta Antonio Nirta. Che faceva un mafioso in Via Fani? Più in generale che ruolo ha giocato la criminalità organizzata nel Caso Moro? C’erano rapporti tra queste due entità criminali?

L’uomo della ‘ndrangheta non era solo. Aveva un autorevole complice. Attendiamo che i RIS ci diano conferma sull’identità del personaggio. Le BR hanno avuto rapporti consolidati con mafia, camorra, ‘ndrangheta, banda della Magliana. Anche pezzi deviati dello Stato, purtroppo, hanno avuto queste frequentazioni.

Come giudica le affermazioni di Raffaele Cutolo, lo spietato boss della Camorra: “Potevo salvare Aldo Moro la politica mi ha fermato”?

Cutolo ha detto questo. Non l’ha fermato la politica ma alcuni uomini che, evidentemente, traevano giovamento dalla morte di Moro.

Pochi giorni fa avete ascoltato Claudio Signorile. Perché è importante la sua testimonianza?

Claudio Signorile, con molta bravura, ha offerto un quadro della situazione internazionale del tempo. Ha aggiunto elementi che ci inducono a ritenere che le BR erano controllare a distanza. Infine, precisando nei dettagli affermazioni già fatte, ci ha raccontato la visita a Cossiga del 9 maggio 1978. Era presente quando il Ministro seppe della morte di Moro. La presenza di Signorile forse non fu casuale.

Torniamo a quei maledetti cinquantacinque giorni. Quello che si è scritto, nel corso di questi trentotto anni dall’omicidio di Moro, molto, poi, si è rivelato un falso.  Insomma in quei giorni drammatici abbiamo assistito a depistaggi, carenze  investigative, l’ombra lunga della P2  che domina sugli organi dello Stato e tanto altro. Le chiedo: quali  sono stati gli errori più clamorosi dello Stato italiano  in quei giorni?

Errore più clamoroso è stato il non aver considerato che le idee di Moro sarebbero sopravvissute. Errore è stato non aver capito che Moro andava salvato, perché poi Moro avrebbe salvato lo Stato. Invece ‘Il mio sangue ricadrà su di voi’ e così è stato.

Veniamo alle BR. Conosciamo la storia delle BR, è credibile oggi la tesi che le BR abbiano agito per conto di potenze straniere?

Le BR erano soggetto articolato e complesso. Dentro c’era di tutto. Brigatisti puri che credevano a quello che facevano. Brigatisti connessi alla delinquenza comune, altri erano infiltrati, altri ancora si muovevano solo per tornaconto personale.

Lei gira l’Italia per portare i frutti del suo lavoro, di membro importante della Commissione Fioroni, alla conoscenza dei cittadini. I Suoi incontri sono affollati e partecipati, segno di un desiderio di verità. I titoli degli incontri portano questa frase:  “Chi e perché ha ucciso Moro”. Arriveremo alla piena verità?

Ci stiamo arrivando nonostante il tempo trascorso. Con fiducia e speranza. Il problema è crederci senza paura di toccare il potere.

A settembre saranno cento anni dalla nascita di Aldo Moro. Cosa resta della sua lezione?

Di Aldo Moro resta anzitutto il suo esempio di martire laico della democrazia e della libertà. Un grande uomo che aveva la capacità di leggere il futuro ed incanalarci le Istituzioni. Un uomo che non morirà mai perché il suo ricordo vive nel cuore degli italiani onesti.

 

Mappa delle famiglie mafiose in Liguria

La Liguria è una terra di mafia. Camorra e Cosa Nostra prima, la ‘ndrangheta poi, si sono impadronite di fette rilevanti del territorio ligure, incutendo timore, condizionando la politica, accaparrandosi lucrosi appalti quaranta arresti ordinati dalla Procura Antimafia effettuati in questi giorni, grazie alle indagini della DIA di Genova. Le indagini hanno rivelato come i mafiosi della ‘ndrangheta puntassero ad infiltrarsi, attraverso i sub appalti, nei lavori del Terzo Valico. Inoltre, ed è la prima volta per la Liguria, le indagini hanno rivelato il coinvolgimento del livello dei “colletti bianchi”. Un altro filone di indagini riguarda gli affari delle cosche attraverso lo smaltimento dei rifiuti. Ma quanto è diffusa la ’ndrangheta in Liguria? Quali sono le famiglie mafiose presenti sul territorio ligure? Con la collaborazione dell’Osservatorio Boris Giuliano sulle mafie in Liguria (http://mafieinliguria.it/), che racconta (in modo scientifico) la presenza della criminalità organizzata nel territorio ligure, abbiamo compilato una mappa della presenza mafiosa in quella regione. Le fonti utilizzate sono: relazioni DIA e DNA, relazione della Commissione Parlamentare Antimafia, atti processuali (ordinanze, sentenze, fascicoli ecc).

LA SPEZIA
La provincia della Spezia potrebbe sembrare una provincia “babba”: a prima vista pochi episodi violenti, poche inchieste, pochissime condanne. Ma da anni fonti istituzionali raccontano della presenza di un gruppo criminale calabrese collegato al clan ALVARO di Sinopoli (RC) e delle famiglie DE MASI e ROSMINI. Nel 2000 la DIA scrive che «è stata evidenziata l’attività di elementi legati alla cosca IAMONTE» e un paio di anni dopo dichiara che a Sarzana si è stabilita da tempo la famiglia ROMEO, originaria di Roghudi (RC), «dove svolge attività edilizia e di floricoltura». Anche la Direzione Nazionale Antimafia conferma questa ipotesi: «nell’estremo levante, fino al confine con la provincia di Massa e Carrara, è infatti attivo da tempi un locale di ‘ndrangheta facente capo alla famiglia ROMEO-SIVIGLIA». Incrociando queste fonti istituzionali con diverse inchieste condotte negli ultimi quarant’anni il quadro diventa allarmante, dato che molti soggetti legati ad Antonio ROMEO, considerato dagli inquirenti il vertice del locale, hanno collezionato nel corso degli anni pesanti condanne: il fratello Carmelo ROMEO condannato per associazione a delinquere e tentata estorsione; il pronipote Daniele FAENZA anch’egli coinvolto in tentativi di estorsione ai danni di una ditta che si occupa di smaltimento di rifiuti; Annunziato SIVIGLIA condannato per aver tentato di imporre un racket estorsivo alla Spezia già nel 1983. Gruppi che, oltre ai tradizionali mercati illegali degli stupefacenti, risultano ormai inseriti in diversi settori economici: edilizia, mercato immobiliare, ortofloricoltura, distribuzione commerciale, gioco d’azzardo.

GENOVA
Genova: Da tempo si ritiene che il capoluogo ligure sia sede di un locale di ‘ndrangheta, guidato da Mimmo Gangemi e, precedentemente, da Antonio RAMPINO. Domenico GANGEMI, ex fruttivendolo di S. Fruttuoso, e Domenico BELCASTRO, imprenditore edile, sono stati condannati rispettivamente a anni 19 e mesi 6 di reclusione (pena già confermata in Appello) e a anni 6 di reclusione (pena confermata in Cassazione), nell’ambito del processo “Crimine”, condotto dalla D.D.A. di Reggio Calabria. Sono stati invece tutti assolti, in primo e secondo grado, i 10 imputati del processo “Maglio 3”, tra i quali figuravano diversi “genovesi” (Raffaele BATTISTA, Rocco BRUZZANITI, Antonino MULTARI, Onofrio GARCEA, Lorenzo NUCERA). Arcangelo CONDIDORIO è stato dichiarato incapace di stare in giudizio. Nel centro storico genovese, negli anni ’90, è stata sgominata un’associazione per delinquere di origine calabrese, dedita a molteplici attività criminali, di cui facevano parte alcuni membri delle famiglie di Taurianova (RC) degli ASCIUTTO e dei GRIMALDI. Sempre in centro storico (soprattutto nel sestiere della Maddalena), vi sono tuttora alcune famiglie di origine calabrese che, secondo gli inquirenti, utilizzano modalità mafiose come i FIUMANO’ o agli ALESSI.

Lavagna: nelle relazioni DIA e della DNA si legge che Lavagna è da tempo sede di un locale di ‘ndrangheta, costituito intorno alle famiglie NUCERA-RODA’ originarie di Condofuri (RC). Paolo NUCERA, considerato il capo del locale, è ancora imputato in uno stralcio del processo “Maglio 3”, per lui il pm Lari ha recentemente chiesto 12 anni di reclusione. Sempre Paolo NUCERA, con i fratelli Antonio e Francesco, è stato recentemente arrestato nell’ambito dell’inchiesta “I Conti di Lavagna”, insieme a Francesco Antonio ed Antonio RODA’: devono rispondere di associazione mafiosa ed altri reati, anche riguardanti contatti con l’amministrazione. Inoltre, Antonio NUCERA è stato recentemente condannato in primo grado ad 8 anni di reclusione per prostituzione minorile e cessione di sostanze stupefacenti.

SAVONA
Dopo anni di “deserto giudiziario”, come definito dall’ex Procuratore Capo Francantonio Granero, Savona negli ultimi tempi si è ritrovata spesso al centro di indagini antimafia. Proprio alcuni giorni fa, nell’ambito dell’inchiesta ALCHEMIA, sono stati arrestati (su ordine della D.D.A. di Reggio Calabria e con l’ausilio della polizia giudiziaria ligure) numerosi soggetti da tempo presenti nel savonese, quali Carmelo GULLACE (con i fratelli Elio e Francesco, nonché la moglie Giulia FAZZARI), Antonio FAMELI (residente a Loano, ma originario di S. Ferdinando, collegato ai Piromalli di Gioia Tauro) e Fabrizio ACCAME (autista e prestanome di GULLACE, reduce da un patteggiamento di 1 anno e 10 mesi nell’inchiesta “Real Time”). Sono tutti accusati di associazione mafiosa e sono già rimasti coinvolti, in passato, in procedimenti giudiziari attivati dalla Procura di Savona (per estorsione, usura, intestazione fittizia di beni). Insieme con loro sono stati tradotti in carcere anche vari esponenti della famiglia RASO. Sempre nell’inchiesta ALCHEMIA rispondono di intestazione fittizia di beni Giovanni e Giuseppe SCIGILITANO di Cisano sul Neva (SV), originari di Seminara (RC). Da tempo gli inquirenti sospettavano che nel savonese (tra Borghetto S. Spirito e Toirano, soprattutto) fossero radicati alcuni esponenti della ‘ndrina dei RASO-GULLACE-ALBANESE, tradizionalmente insediata a Cittanova (RC). I fratelli FOTIA hanno invece subito sequestri per 10 mln di euro alle proprie aziende di movimento terra (Scavoter, Se.le.ni e PdF) nel marzo 2015. Non hanno mai avuto processi per 416-bis ma sono ritenuti vicini alla cosca MORABITO-PALAMARA- BRUZZANITI.

IMPERIA
Ad avviso della Presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, trattasi della “sesta provincia della Calabria”. Al di là dell’immagine suggestiva, è noto che il ponente ligure abbia rappresentato una delle mete privilegiate dalle famiglie mafiose di origine calabrese. Alcuni soggetti sono stati qui spediti in soggiorno obbligato, altri si sono rifugiati, in fuga dalle faide, per sfruttare la vicinanza con la Francia, altri ancora sono stati attratti dall’attività di riciclaggio connessa al casino di Sanremo, o comunque hanno trovato floridi mercati in cui investire profitti illeciti.

Ventimiglia: in questa città spiccano i MARCIANO’ (il vecchio boss Giuseppe, suo fratello Vincenzo cl. 1948 e suo figlio Vincenzo cl. 1977) tutti condannati per associazione mafiosa nell’ambito del processo “la Svolta” e PALAMARA Antonio (condannato in primo grado a 14 anni, assolto in Appello; già accusato di associazione mafiosa nel processo Colpo della Strega, 1994). Vi sono inoltre altri soggetti condannati per associazione mafiosa (nell’ambito del processo La Svolta): Paolo e Alessandro MACRI’ (quest’ultimo a titolo di tentativo), Omar ALLAVENA, Giuseppe GALLOTTA, Annunziato ROLDI, Ettore CASTELLANA, Salvatore TRINCHERA, Giuseppe SCARFO’, Giuseppe COSENTINO (assolto in Appello).

Bordighera: qui sono presenti i fratelli PELLEGRINO (Maurizio, Giovanni e Roberto) condannati in I grado, ma assolti in appello, dall’accusa di associazione di tipo mafioso nell’ambito del processo La Svolta; Antonino BARILARO, condannato in I grado, ma assolto in appello dall’accusa di associazione mafiosa; Francesco e Fortunato BARILARO sono stati invece processati e assolti in Maglio 3, così come Benito PEPÉ (suocero di Maurizio PELLEGRINO) e Michele CIRICOSTA. Tali famiglie sarebbero legati al clan Santaiti-Gioffré di Seminara (RC).

Taggia: famiglia MAFODDA (Rodolfo e Mario condannati per 416- bis, Trib. Genova, Uff. GIP, nr. 217/99, Sent. del 15 aprile 1999)

Diano Marina: Nell’aprile del 2015, si è insediata una commissione d’accesso che, al termine di un lungo lavoro, ha optato per non decretare lo scioglimento dell’amministrazione comunale per infiltrazione mafiosa (era finita sotto la lente degli inquirenti, in particolare, la gestione degli stabilimenti balneari). In particolare sono segnalate le famiglie SURACE e SCIGLITANO (Giovanni e Domenico SURACE, e Giovanni SCIGLITANO sono stati rinviati a giudizio per corruzione elettorale, art. 86 D.P.R. 16-5- 1960 n. 570, insieme al sindaco di Diano Marina Chiappori, recentemente rieletto; l’ipotesi accusatoria iniziale era di scambio elettorale politico-mafioso, art. 416-ter c.p.).

L’Infiltrato. Il PCI e la lotta alle BR. Intervista a Vindice Lecis

cop.aspxDurante gli anni di piombo il Partito comunista fu in prima linea nella battaglia contro il terrorismo rosso, che minava i principi democratici del paese e la forza stessa del partito, al suo massimo storico di consenso. Oltre al lavoro alla luce del sole, il Pci operò per individuare e denunciare i soldati della lotta armata e i loro fiancheggiatori, svolgendo anche un’azione d’intelligence parallela, in collaborazione con gli organi dello Stato.

In quel periodo Ugo Pecchioli, braccio destro di Berlinguer, concordò con il generale Dalla Chiesa un’importante operazione segreta: l’infiltrazione in un gruppo di fuoco di un militante del partito, che avrebbe dovuto riferire al comandante dell’antiterrorismo. Un episodio accertato e documentato, sebbene ancora coperto per molti aspetti dal necessario riserbo, che non ha avuto un’adeguata considerazione storica.

Alternando fatti reali e finzione narrativa, questo libro ricostruisce l’attività dei comunisti italiani contro il terrorismo nella stagione violenta tra il 1978 e il 1979: le azioni di spionaggio, i documenti interni, le riunioni riservate, il lavoro di controllo e denuncia nelle fabbriche.

Ne parliamo, in questa intervista, con l’autore Vindice Lecis. Lecis è giornalista al gruppo Espresso. È autore di numerosi romanzi storici e saggi sulla politica italiana del Novecento e sulla storia antica della Sardegna.

Vindice, incominciamo dalla storia  di questo tuo libro davvero interessante. Già ti eri occupato degli anni drammatici della Repubblica. Come nasce il libro?

“Dall’esigenza di raccontare un episodio quasi sconosciuto della lotta al terrorismo, vale a dire l’infiltrazione di un militante del partito comunista italiano nelle Brigate Rosse. Fatto già rivelato in rare occasioni da alcuni studiosi ma mai assunto a paradigma della coraggiosa battaglia del partito più importante della sinistra italiana dell’epoca contro l’eversione armata. Battaglia a viso aperto e senza ambiguità. La documentazione è scarna ma la vicenda mi è stata anche confermata da chi è stato uno dei protagonisti dell’operazione”.

Ti muovi bene tra finzione letteraria e realtà vera (l’infiltrazione di un militante del PCI nelle BR, con l’accordo tra Ugo Pecchioli e il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa). Dalla lettura del libro emerge un quadro devastante dell’Italia di quegli anni. Dall’omicidio Moro a quello di Guido Rossa. Senza dimenticare la violenza di Autonomia Operaia. Emergono anche le gravi colpe dello Stato (la presenza della loggia massonica sovversiva P2). Qual è stato il risultato operativo concreto di questa infiltrazione?

L’infiltrazione fece avviare un lavoro di intelligence che portò, qualche anno dopo, allo smantellamento della colonna romana delle Br. E’ paradossale, se posso aggiungere, che mentre un partito metteva a disposizione un suo uomo, i servizi di informazione e sicurezza fossero infiltrati dalla P2, definita poi come organizzazione criminale ed eversiva dalla Commissione Anselmi e sciolta nel 1982.

Il protagonista quello vero è ancora vivo. Quanto tempo è durata la sua infiltrazione?

Il protagonista è vivo, a quanto ne so. Il suo coraggioso lavoro al servizio della Repubblica durò probabilmente poco meno di sei mesi. Ma la sua attività di infiltrato era cominciata prima, dentro un gruppo violento dal quale spesso le organizzazioni armate reclutavano militanti da utilizzare in attività illegali

Nel libro emerge anche la potente capacità organizzativa del PCI, un partito costruito sulla militanza e su quadri altamente motivati e “professionalizzati”. La figura, letteraria, del quadro Sanna, una sorta di responsabile dell’intelligence, uomo di fiducia di Pecchioli è emblematica. Ti sei ispirato a qualcuno in particolare?

Antonio Sanna è uno di quei tipici quadri comunisti, disciplinati, riservati, rigorosi, impegnati nelle attività classiche del Pci, partito che all’epoca vantava un milione e seicento mila iscritti e che godeva del consenso elettorale di un italiano su tre. Durante gli anni di piombo molti di questi quadri furono utilizzati anche per studiare il fenomeno del terrorismo, dell’eversione. Quando dico studiare intendo proprio lo scandagliare la pletora di organizzazioni armate e gruppi con l’analisi dei documenti, le rivendicazioni, il linguaggio. E dove venivano messi a fuoco gli uomini che fiancheggiavano o aiutavano il terrorismo. Il Pci aveva antenne in ogni luogo, persino negli apparati dello Stato. Molti dirigenti come Antonio Sanna erano presenti negli apparati delle federazioni e nei luoghi di lavoro. Molto del lavoro del Pci fu quello di mantenere viva la mobilitazione del mondo del lavoro contro il terrorismo, di fatto mettendo ai margini qualche settore di ambiguità e collusione con ambienti eversivi, o forse solo di simpatia.

Nel libro c’è la presenza di fonti documentarie  della sezione, diretta da Ugo Pecchioli (il Ministro dell’Interno ombra del PCI),  “Problemi dello Stato”.Questa sezione ha prodotto una documentazione fitta e ricca di analisi sul fenomeno terroristico. Queste informazioni dove sono conservate oggi?

“Sul sito internet del Senato della Repubblica, su concessione dell’’istituto Gramsci che conserva il grande patrimonio documentale del Pci, è consultabile parte delle carte del Fondo Pecchioli. Ugo Pecchioli era il dirigente comunista stretto collaboratore di Enrico Berlinguer e responsabile della sezione problemi dello stato che fu il fulcro dell’antiterrorismo comunista. Nel Fondo ci sono documenti di analisi, alcuni ad uso interno, dove si analizza il fenomeno terroristico con grande accuratezza e si definiscono proposte di lotta all’eversione”.

IL PCI sposò la linea della fermezza dello Stato contro ogni trattativa, per liberare Moro, con le BR. E nel libro la durezza di posizione è esposta chiaramente.  Pensi che non ci fossero altre strade? Qual è il dato politico del libro?

“Il mio parere è che la linea della fermezza fu la necessaria risposta della Repubblica a chi, come le Br, puntavano a costringere lo Stato a scendere a patto e a ottenere un riconoscimento, uno status politico. Altre strade, sinceramente, non ne vedo nemmeno oggi che sono trascorsi decenni. Il terrorismo comunque il riconoscimento lo ebbe ugualmente. Mi spiego: Moro era inviso agli Usa e ai britannici per la sua politica di apertura al Pci. L’agguato di via Fani e la sua morte di Moro fecero deragliare un progetto di intesa politica e costrinsero il Pci ad appoggiare dall’esterno un governicchio, quello di Andreotti, di cui non faceva parte. Un appoggio che portò a un logoramento dei comunisti e una flessione elettorale, sotto un fuoco di fila fortemente polemico della destra Dc e dei socialisti e l’ aperta ostilità degli ambienti atlantici. D’altra parte il progetto brigatista era quello anzitutto di colpire il Pci e la sua strategia di avanzata democratica.

Siamo negli anni bui della nostra Repubblica. Conosciamo tanto ma ci sono molti lati oscuri sulle BR. Quali sono secondo te le cose da chiarire ancora?

La vicenda Moro è chiarita solo in parte. Da tempo emergono oscuri collegamenti con ambienti sia di Gladio che della criminalità organizzata. Come sono da chiarire meglio non pochi e inquietanti aspetti relativi all’individuazione della prigione di Moro e ad alcune bizzarre operazioni brigatiste come il trasporto d’armi in pieno Mediterraneo su barca a vela. Inoltre non comprendo, o forse lo capisco bene, il silenzio brigatista su quelle carte trovate in via Montenevoso a Milano in un covo Br che parlavano di Gladio. Mi riferisco al patto di omertà, tra ex esponenti di vertice delle Brigate Rosse e del potere democristiano per usare un’espressione fortunata del senatore Sergio Flamigni che ha dedicato parte della sua vita a scardinare alcuni misteri. Lo scopo è quello di impedire una ricostruzione veritiera del sequestro e omicidio di Aldo Moro: pensiamo che ancora non conosciamo l’identità di tutte le persone che spararono in via Fani.

I segreti di Bologna. La verità sull’atto terroristico più grave della storia d’Italia.

“La verità non ha tempo: non è mai troppo tardi per raccontarla. Non è mai troppo tardi per mettere insieme tutti i tasselli di un mistero di Stato.”

IL LIBRO
E’ uscito oggi nelle librerie, per Chiarelettere, questo libro-inchiesta sulla strage di Bologna avvenuta il 2 Agosto 1980. È arrivato il momento, dopo trentasei anni, di spiegare fatti rimasti finora in sospeso. Gli italiani hanno assistito inermi ad attentati di ogni genere: omicidi di militanti politici, poliziotti, magistrati. E stragi crudeli, terribili, come quella alla stazione di Bologna dell’agosto 1980 che causò 85 morti e 200 feriti e che, nonostante la condanna definitiva dei tre autori, continua a essere avvolta nel mistero. Dopo interminabili indagini giudiziarie e rinnovate ipotesi storiografiche, gli autori di questo libro, esaminando i materiali delle commissioni Moro, P2, Stragi, Mitrokhin, gli atti dei processi e degli archivi dell’Est, e documenti “riservatissimi” mai resi pubblici, hanno tracciato una linea interpretativa sinora inedita, restituendo quel tragico evento a una più ampia cornice storica e geopolitica, senza la quale è impossibile arrivare alla verità. La loro inchiesta chiama in causa la “doppia anima” della politica italiana, le contraddizioni generate dalla diplomazia parallela voluta dai nostri governi all’inizio degli anni Settanta e, in particolare, lo sconvolgimento degli equilibri internazionali provocato dall’omicidio di Aldo Moro, vero garante di un patto con il Fronte popolare per la liberazione della Palestina finalizzato a evitare atti terroristici nel nostro paese. Senza questo viaggio a ritroso nel tempo è impossibile capire la stagione del terrorismo italiano culminata nell’esplosione del 2 agosto 1980.

GLI AUTORI
Rosario Priore è stato uno dei magistrati più impegnati a ricercare la verità sul terrorismo in Italia, soprattutto nelle sue matrici internazionali. Molte le inchieste da lui condotte: Ustica, Moro, l’attentato a papa Giovanni Paolo II, le stragi di stampo mediorientale. Ha fatto parte di commissioni internazionali sul terrorismo e la criminalità organizzata. È autore di libri di successo, tra cui “Intrigo internazionale” (con Giovanni Fasanella, Chiarelettere 2010), “Chi manovrava le Brigate rosse?” (con Silvano De Prospo, Ponte alle Grazie 2011), “La strage dimenticata” (con Gabriele Paradisi, Imprimatur 2015). Valerio Cutonilli, avvocato, da anni è impegnato a ricercare la verità sulla strage di Bologna. è autore di “Acca Larentia. Quello che non è stato mai detto” (con Luca Valentinotti, Trecento 2010) e di “Strage all’italiana” (Trecento 2007).

Per gentile concessione dell’Editore un estratto del libro.

La pista dimenticata di Rosario Priore
La verità non ha tempo: non è mai troppo tardi per raccontarla. Non è mai troppo tardi per mettere insieme tutti i tasselli di un mistero di Stato. Sollevare il velo sulla strage di Bologna è un dovere soprattutto per chi, come me, ha indagato a lungo sulle vicende più torbide della storia dell’Italia repubblicana e conosce bene i limiti della verità giudiziaria. È arrivato il momento, dopo trentasei anni, di spiegare cose che ancora rimangono in sospeso. E per farlo, per tessere il filo sottile ma tenace che collega questo eccidio al contesto nazionale e internazionale dell’epoca, è di vitale importanza che il lettore tenga a mente alcune date e luoghi che spesso torneranno in questo libro. Veniamo ai fatti. Al momento dell’arresto a Roma, la notte del 9 gennaio 1982, il terrorista rosso Giovanni Senzani viene trovato in possesso di un appunto, scritto di suo pugno, che riassume i contenuti di un colloquio avuto a Parigi con Abu Ayad, capo dei servizi segreti dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Quest’ultimo confida al leader brigatista che le recenti azioni terroristiche avvenute in Europa celano la regia dell’Urss, intenzionata a sanzionare la politica dei paesi europei in Medio Oriente. Senzani annota uno dei tre attentati elencati da Ayad con la sigla «Bo», che io – in qualità di giudice titolare dell’inchiesta, che indagava sulle azioni compiute a Roma dalle Brigate rosse a partire dal 1977 –, non senza sorpresa, interpreterò come un evidente riferimento alla strage avvenuta alla stazione ferroviaria di Bologna il 2 agosto 1980. Invio copia del documento ai colleghi emiliani che stanno indagando sul la carneficina. La notizia, tuttavia, non si rivelerà di alcuna utilità. A riconoscerne l’importanza sarà invece Carlo Mastelloni, il magistrato del Tribunale di Venezia che condurrà in modo esemplare l’istrut toria sul traffico di armi tra l’Olp e le Brigate rosse. Altro fatto saliente. Poche settimane dopo, interrogo Roberto Buzzatti. Il brigatista pentito riferisce di aver assistito a un in contro tra Senzani e un certo Santini, un uomo del Kgb vicino ai servizi segreti italiani e legato a una persona che conosce gli indicibili retroscena della strage di Bologna. L’identikit di Santini mi lascia sgomento per l’incredibile somiglianza con Pietro Musumeci, l’ufficiale del Sismi in seguito condannato per il depistaggio dell’inchiesta bolognese. Ma la differenza di altezza tra i due soggetti porta a escludere che Musumeci sia realmente l’uomo descritto da Buzzatti. E anche quella pista si rivela infruttuosa. Sempre nel 1982, all’aeroporto di Fiumicino, viene arrestata Christa-Margot Fröhlich. La terrorista tedesca trasporta una valigia contenente un potente esplosivo e alcuni detonatori. Chiamato a condurre anche quell’inchiesta, appuro i rapporti tra la donna e l’Ori, il gruppo filopalestinese di «Carlos lo Sciacallo», un pericolosissimo terrorista venezuelano legato agli apparati dell’Est, attualmente detenuto in Francia dove sta scontando l’ergastolo. Nessuno però mi avvisa che un dipendente del Jolly Hotel di Bologna, vista la foto della Fröhlich sul giornale, aveva segnalato ai magistrati bolognesi una forte somiglianza con una signora tedesca presente in albergo il giorno della strage. Può sembrare strano, ma apprendo il fatto solo nel 2005, dopo che la commissione parlamentare Mitrokhin acquisisce copia del verbale con le sommarie informazioni testimoniali. I commissari di maggioranza della Mitrokhin, infatti, stanno vagliando un’ipotesi investigativa sulla strage alla stazione, ignorata per venticinque anni, che rende finalmente comprensibili gli indizi emersi nelle mie vecchie istruttorie. La nuova pista nasce dopo una clamorosa scoperta effettuata da Gian Paolo Pelizzaro, giornalista e consulente della stessa commissione. Pelizzaro rinviene presso la Questura di Bologna alcuni documenti da cui risulta la presenza in città, la mattina del 2 agosto 1980, di Thomas Kram, un altro terrorista tedesco sospettato di militare proprio nel gruppo filopalestinese di Carlos lo Sciacallo. Secondo i commissari di maggioranza, la presenza di Kram è correlata all’attentato, concepito e realizzato dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), gruppo filosovietico affiliato all’Olp, per punire l’Italia. All’inizio degli anni Settanta, infatti, il nostro governo aveva stipulato un’intesa segreta con le organizzazioni della resistenza palestinese – il cosiddetto «lodo Moro» – che consentiva a queste ultime di trasportare armi nel nostro territorio in cambio dell’impegno a non compiere attentati. Il patto viene violato nel novembre del 1979 con l’arresto, a Bologna, di Abu Anzeh Saleh, esponente dell’Fplp coinvolto nel traffico dei missili terra-aria Strela scoperto dai carabinieri a Ortona nei giorni precedenti. Il libro comincia proprio da questo evento, frutto della situazione tesa tra Usa e Urss, negli anni della Guerra fredda, che non risparmia il nostro paese e, seguendo l’iter di quelle armi, svela l’intrigo internazionale allora in atto. La condanna dell’espo nente palestinese, nonostante gli inviti alla clemenza rivolti dal Sismi ai magistrati di Chieti e il pubblico disconoscimento dell’accordo da parte del premier dell’epoca, Francesco Cossiga, potrebbe aver indotto l’Fplp a formulare reiterate minacce e poi a compiere l’attentato ritorsivo alla stazione di Bologna. Come accade spesso in Italia, purtroppo, il confronto sulle nuove risultanze cede subito il passo a polemiche di natura politica. La pista palestinese viene contestata dai commissari di minoranza della Mitrokhin, che invitano i colleghi a rispettare le sentenze sulla strage. Nel 1995, infatti, i terroristi neri dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro vengono condannati in via definitiva quali autori materiali dell’attentato. Nel 2007 passa in giudicato anche la condanna di un terzo neofascista, Luigi Ciavardini, processato a parte in quanto nell’agosto del 1980 era addirittura minorenne. Sempre nel 2005 la Procura della Repubblica di Bologna riapre l’indagine sulla strage per verificare la pista della ritorsione palestinese. Nel 2011 il pm Enrico Cieri iscrive nel registro degli indagati Kram e Fröhlich, ma l’inchiesta viene archiviata dal gip Bruno Giangiacomo il 9 febbraio 2015. Nella richiesta di archiviazione, motivata dall’insufficienza probatoria, il pm Cieri rileva «la persistente ambiguità di un elemento di fatto, storicamente accertato e non compiutamente giustificato: la presenza a Bologna del terrorista tedesco Thomas Kram, esperto di esplosivi, la mattina del 2 agosto 1980». In quell’esatto momento nasce l’idea del libro, che volutamente abbiamo suddiviso in due parti: una prima in cui vengono illustrati la genesi del lodo Moro tra l’Italia e i palestinesi e il ribollente contesto geopolitico internazionale prima della strage; e una seconda che ha per punto focale la strage con le relative indagini e le eclatanti scoperte. Abbiamo scelto questa formula cosicché il lettore arrivi al 2 agosto 1980 con tutti gli elementi a disposizione per capire e, dunque, giudicare.

Valerio Cutonilli – Rosario Priore, I segreti di Bologna.
La verità sull’atto terroristico più grave della storia d’Italia,
Edizioni Chiarelettere, Milano 2016

Il volto sinistro della globalizzazione. Intervista a Paolo Borgognone

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La Brexit si sta rivelando per quello che è: un inganno populista. E purtroppo l’Europa è attraversata dall’inganno populista. E questo inganno ha il volto di Farage, Orban, Le Pen, Salvini, Grillo (Con le sue specificità). Insomma questa “internazionale” euroscettica si sta facendo largo nel dibattito politico europeo. Per dirla con Bauman l’Europa sta vivendo una “meta crisi”che tocca il suo modo d’essere. In questo scenario s’ inseriscono le forze populiste con il loro “sovranismo”. E’ il loro grimaldello usato per scardinare l’Unione Europea. Un grimaldello deleterio. Per capire cos’è il “sovranismo”, quale radici ha e quali sono le sue “ricette”, abbiamo intervistato un giovane studioso piemontese Paolo Borgognone. Potremmo definirlo uno studioso ad indirizzo “putiniano”(da Vladimir Putin) . L’intervista può essere considerata come documento utile per comprendere certi radicalismi politici.

Borgognone, incominciamo dal titolo del suo libro: “L’immagine sinistra della globalizzazione”. Lei un po’ gioca sulle parole, infatti la sua opera è una critica alla Sinistra che, secondo lei, si è piegata al radicalismo liberale. E’ cosi?

La sinistra, nei Paesi dell’Europa occidentale è, per un definizione, l’apparato duale affidabile di gestione dei processi di modernizzazione capitalistica, a livello culturale, politico ed economico. La sinistra liberaldemocratica o socialdemocratica è il versante dominante di questo apparato, la sinistra che nel libro definisco movimentista e bobo-chic ne costituisce invece il versante dominato e subalterno. Nell’ambito di un capitalismo liberale culturalmente ispirato a una retorica che trae i propri spunti direttamente dalla filosofia della “fine capitalistica della Storia” e dall’antropologia del desiderio illimitato quale surrogato postmoderno della precedente mancata realizzazione delle promesse di emancipazione cosmopolitica vagheggiate dal comunismo storico novecentesco, è del tutto naturale e comprensibile che la sinistra connoti se stessa come la parte politica più propensa a propugnare un surplus di modernizzazione in fatto di “libertà” individuali al consumo e al desiderio vendendo tutto ciò a un’opinione pubblica di ceto medio (peraltro ormai ampiamente addomesticata al Verbo politically correct) quale sorta di nuova palingenesi “democratica” foriera di perpetuo “progresso” e imminente “emancipazione” individuale attraverso il consumo e, soprattutto, il desiderio. La sinistra politically correct è, oggi, il braccio politico della “società radicale dei consumi e dei desideri di massa”, così come il polo berlusconiano lo fu, in larga parte, della “società dello spettacolo” televisivo. E’ ovvio che queste fazioni politiche rappresentino le due facce della stessa medaglia.

 

Veniamo alla sua critica al globalismo (o mondialismo). Chi è dotato di un minimo di senso critico sa perfettamente che la globalizzazione produce diseguaglianze insopportabili (però anche opportunità). Quindi si vede il volto “sinistro” della globalizzazione. Ma il punto fortemente critico, per me assolutamente inaccettabile, è la soluzione che lei propone per contrastare il “mondialismo”: ovvero il così detto “sovranismo” (patriottico, ecc.). In Europa è quello delle destre xenofobe, le destre dei muri contro gli immigrati, le destre che vogliono il ritorno alle monete nazionali… Il sovranismo è il rimedio peggiore della malattia… Insomma applicato all’Europa il sovranismo porterebbe solo disastri…

 

La globalizzazione liberale produce alienazione, nomadismo e fine delle identità tradizionali dei popoli, identità che il capitalismo odierno vuole abbattere in quanto i precedenti retaggi culturali comunitari (dall’idea di patria, alla religione e fino al criterio di organizzazione dell’economia su basi socialiste e non liberali) sono avvertiti come un ostacolo al dispiegarsi inarrestabile dei processi di omogeneizzazione cosmopolitica funzionali alla dittatura dell’economia di “libero mercato”. Anche la famiglia tradizionale è oggi sotto attacco, per motivazioni analoghe. Si vorrebbe una società articolata più sullo stereotipo relazionale veicolato dai serial tv americani che non sui valori cavallereschi che hanno edificato il mito e la realtà dell’antica e originaria civiltà europea. Per quanto riguarda le destre, non bisogna correre il rischio di unificare in un unico discorso di aprioristica condanna forze politiche assai diverse. Per esempio, in Serbia il Partito Radicale Serbo è l’unico movimento che si batte apertamente contro la globalizzazione liberale, la Ue, il Fmi e la Nato. Si tratta di un partito culturalmente di destra che però ha compiuto un percorso di avvicinamento alla sinistra per quel che concerne i temi dell’economia e della battaglia (internazionalista) anticoloniale. Lo stesso ha fatto, più recentemente, in Francia, il Front National. Io, sulla scorta di pensatori di indiscusso spessore, come Jürgen Elsӓsser, credo che i partiti di destra siano, di per sé, espressione di un mito incapacitante e che potranno assumere connotati anticapitalistici e di effettiva originalità antisistemica e autenticamente “sovranista” nel momento in cui abbandoneranno qualsivoglia nostalgismo e tentazione alla retorica grettamente anticomunista (peraltro, dopo il 1989, in totale assenza di comunismo) per intavolare una seria e fattiva ipotesi di collaborazione, in chiave anti-liberale ed eurasiatista, con la parte più consapevole (e intellettualmente non agorafobica) della sinistra politica.  

 

Apriamo una parentesi: ho trovato esagerato il peso che ha dato al Partito Radicale nell’essere tra le cause della crisi della sinistra (PCI) italiana. Non trova che sia più profonda la causa? Insomma per lei Sinistra e diritti umani non devono andare di pari passo?

 

Il Partito Radicale, con l’ideologia che ha sempre propugnato, non fu la causa della crisi della sinistra italiana bensì l’agente catalizzatore che agevolò e accelerò la metamorfosi della sinistra dal comunismo al radicalismo liberale, senza transitare dalla stazione intermedia della socialdemocrazia. La metamorfosi della sinistra in partito radicale di massa fu diagnosticata, in passato, con estrema lungimiranza, da intellettuali ideologicamente eterogenei tra loro ma indubbiamente inscrivibili a livello di vertice nel novero del panorama culturale italiano, come Augusto Del Noce, Costanzo Preve e Maurizio Blondet. Nel mio libro, mi sono limitato a constatare il decesso politico e ideologico della sinistra, gli intellettuali che ho menzionato più sopra invece, con largo anticipo diagnosticarono la malattia che nel tempo avrebbe condotto la sinistra a questa ingloriosa fine, ossia a morire di overdose autoindotta di liberalismo, di “pannellismo” e di “dirittumanismo”. Il decesso della sinistra è altresì riconducibile alla propria totale (e ostinatamente perseguita da un certo frangente in avanti, direi almeno dal Sessantotto, ma sostanzialmente già da prima) nonché congenita assenza di anticorpi spirituali, patriottici e religiosi nel senso tradizionale del termine. Laddove, come in Russia, la sinistra possedeva questi anticorpi e non era corrotta dal liberalismo, dal settarismo e dal soggettivismo anarchico, non solo è sopravvissuta ma si attesta, ancora oggi, attorno al 20 per cento dei voti popolari.

 

Torniamo ancora alla sua analisi: lei critica le mire espansive dell’atlantismo (Nato) e prova a delineare una “alternativa” chiamata “euroasiatismo”. Sulla base di questa ideologia pone come “player” principale Vladimir Putin. Putin, per me, è l’emblema di un “sovranismo estremo” con tutto quello che ne consegue sul piano della concezione dello stato e della democrazia. Se l’Europa deve essere riformata, e deve esserlo pena la sua morte, la strada maestra è quella di Spinelli ovvero il federalismo europeo. Insomma Putin e la sua “democratura” non può essere il futuro dell’Europa… Lei pensa invece di si?

 

Non definirei “democratura”, un termine coniato ad arte dal mainstream liberale a scopo palesemente diffamatorio, il modello politico della Russia odierna. Questo sistema politico è definibile invece come «democrazia sovrana» o «democrazia governante» e si connota, al netto dei limiti che pure contempla, come infinitamente più democratico rispetto alle decrepite liberaldemocrazie occidentali, dove il voto popolare non ha più alcun significato perché, come disse a mo’ di esempio nel 2013 Mario Draghi, l’Italia «ha il pilota automatico» per cui, a prescindere da chi vinca le elezioni, la direzione economica, liberista (e quella politica, liberale), cui il Paese avrebbe dovuto sottostare, sarebbe stata decisa altrove, ossia fuori dal contesto parlamentare elettivo, da parte di una ridda di banchieri e tecnocrati rappresentanti interessi speculativi privati e non la volontà generale dei cittadini. Peraltro, cinquant’anni di retorica cosmopolita e filo-capitalista da parte di pannelliani e sodali di ambo gli schieramenti in gara per l’occupazione delle poltrone parlamentari ha favorito un processo di riconfigurazione neoliberale delle mentalità per cui oggi i banchieri internazionali e tutto il loro circo politico-mediatico di complemento vengono effettivamente percepiti come il “meno peggio” che ci si possa aspettare da parte di un ceto medio di ex baby boomers viziati e totalmente adagiati sulle sponde della cultura della liberalizzazione sociale integrale. Per quanto riguarda la rifondazione dell’Europa sulle spoglie della Ue, al federalismo liberale di Spinelli preferisco, personalmente, il federalismo identitario proposto da Alain de Benoist.  

 

L’“alternativa sovranista” non è credibile nemmeno sul fronte dei diritti umani. Anzi si pone agli antipodi della società aperta. Lei non vede questo?

 

La società aperta è un’utopia liberale divenuta, nel momento in cui si è concretizzata attraverso il consolidamento delle strutture politiche, economiche, sociali e mediatiche che ne costituiscono l’involucro burocratico e amministrativo per il controllo, la colonizzazione e la produzione sociale di massa (Ue, Nato, Fmi, Wto, sistema internazionale di banche e aziende private finanziarizzate, partiti politici liberali sistemici, sindacati collaborazionisti, Generazione Erasmus, ecc.), terrorismo imperialista all’esterno e compressione dei diritti dei popoli a una vita propria all’interno. Per cui, se si vuole salvare l’ecologia e ciò che rimane dell’etica tradizionale delle società umane abitanti il pianeta occorre stabilire un’alternativa politica, economica e culturale alla società aperta. Questa alternativa, ossia un movimento antiglobalista che ripristini la sovranità dei popoli e il primato delle culture di appartenenza di ciascuna nazione nei confronti dell’omologazione cosmopolitica, non può basarsi sulla stanca retorica dei diritti umani, che è poi la retorica a giustificazione, in nome della promozione, su larga scala, dei diritti di “libertà” al consumo, alla mobilità e al desiderio (ovvero, la “libertà” intesa come “liberazione” individuale dalle precedenti appartenenze identitarie collettive) di un individuo tanto astratto quanto, in definitiva, americanocentrico, delle guerre coloniali euro-atlantiche del XXI secolo.

 

Ho trovato sorprendente (ma fino ad un certo punto, date le sue premesse) che in più di mille pagine del suo libro non abbia speso una riga su Papa Francesco. Un critico duro dell’attuale globalizzazione finanziaria, della globalizzazione dell’indifferenza. Un Papa che dialoga con i movimenti popolari dell’America Latina. Un Papa alternativo ed è certamente un Papa antisovranista che vuole abbattere i muri di ogni tipo (dall’economia alla religione). Perché questa dimenticanza?

 

Perché la critica mossa da papa Francesco alla globalizzazione liberale è una critica che definirei buonista e in assoluto compatibile con i postulati culturali, appunto liberali, della globalizzazione e dell’imperialismo. Se penso alle “aperture” nei confronti della moda gay friendly, delle politiche obamiane e addirittura del protestantesimo operate da papa Francesco, arrivo a sostenere che il cittadino Bergoglio sia in qualche modo possessore della “doppia tessera”, di Propaganda Fide e del Partito Radicale, ma che sia quest’ultima a esercitare una sorta di primato nell’orientamento più schiettamente politico del papa… Oggi in Italia da papa Francesco a Bertinotti abbiamo un ventaglio molto ampio di personalità politiche pseudo-antagonistiche in realtà fautrici di una critica talmente compatibile della globalizzazione da risultare, in buona sostanza, un’apologia indiretta dell’esistente e, dunque, una legittimazione dell’esistente. L’elogio sperticato pronunciato da papa Francesco nei confronti della cosiddetta democrazia americana, individualista, edonista e protestante, al Congresso Usa, è lo specchio perfetto dell’abisso di “paura della verità” mascherata da ecumenismo in cui è sprofondato il cattolicesimo progressista. Personalmente, la dissoluzione del cattolicesimo non mi lascia indifferente, sebbene io sia spiritualmente più legato all’Ortodossia e all’Islam sciita rivoluzionario, perché oggi la religione dovrebbe rappresentare un baluardo contro la deriva nichilista della società e un tratto culturale fondante per costruire una prospettiva socialista orientata in chiave non materialistica e non settaria.

 

Ovviamente non condivido  assolutamente questo giudizio su Papa Francesco. Definire “buonista” la critica alla globalizzazione non è corretto anzi è sbagliatissimo. Si legga,  per fare un esempio, l’ultima enciclica del Papa la Laudato si. Una Enciclica assolutamente alternativa alla logica del sistema economico imperante. La invito ad approfondire l’opera rivoluzionaria di Francesco. E qui mi fermo . Cambiamo argomento. Da “sovranista” cosa pensa di Trump?

 

Non ho simpatia politica per Donald Trump e per molto di ciò che la sua cultura rappresenta. Donald Trump è un miliardario liberal-populista americano con fare borioso e spaccone tipico dello sceriffo dell’ultima e insignificante contea del Texas. Tuttavia, la sua avversaria alle presidenziali d’autunno, Hillary Clinton, è assai peggio e mi auguro fortemente che venga sconfitta, senza naturalmente esultare per un’eventuale vittoria di Trump. Una storica di rango, Diana Johnstone, in un suo recente e pregevolissimo libro, ha definito Hillary Clinton «la regina del caos», sottolineando gli aspetti più confacenti all’imperialismo e alla dottrina politica del cambio di regime nei Paesi non allineati al consenso di Washington del candidato “democratico” alla Casa Bianca rispetto agli esponenti repubblicani “paleoconservatori”. Hillary Clinton è la stratega politica delle guerre “umanitarie” e dei colpi di Stato postmoderni attuati con la scusa di «tutelare i diritti umani» nei Paesi renitenti all’ordine di Washington e una simile opzione geopolitica, fondata sulla promozione della dottrina del «caos costruttivo», condurrà inevitabilmente, con Hillary Clinton presidente, allo scontro finale tra l’Occidente a guida Usa e la Russia. Nel libro che ho citato, Hillary Clinton regina del caos, Diana Johnstone scrive apertamente che fu proprio l’allora first lady a convincere, nel 1999, Bill Clinton a bombardare la Serbia e oggi la squadra dei falchi liberali russofobici a guida Hillary Clinton si accinge a preparare, nel Baltico, il terreno per lo scontro frontale con la Russia.

 

Una parola sulla Brexit. Ha scritto, recentemente sul Corriere della Sera, Bernard-Henri Levy: «La “Brexit” non è la vittoria di un’“altra” Europa, ma di una “assoluta mancanza di Europa”. Non è l’alba di una rifondazione, ma il crepuscolo di un progetto di civiltà. Significherà, se non ritorna sé, la consacrazione della grigia internazionale degli eterni nemici dei Lumi e di chi ha sempre avversato la democrazia e i diritti dell’uomo». Penso che il filosofo francese abbia ragione. Alla fine il “sovranismo” diventa l’ideologia della paura dell’altro e dell’integrazione dei popoli. Lei non vede questo pericolo?

 

Una parola, prima, su Bernard-Henri Levy, che non stimo come filosofo ma che reputo un eccellente propagandista dell’imperialismo della Nato sotto copertura ideologica ultraliberale. Ricordo, due anni or sono, Bernard-Henri Levy a Kiev, intento a galvanizzare la folla televisiva dello show di piazza Maidan, uno spettacolo violento foriero di un successivo colpo di Stato anti-russo e anti-ucraino (ma rigorosamente filo-Usa) la cui manovalanza armata venne fornita da milizie indiscutibilmente scioviniste, etnonazionaliste e finanche neonaziste. Bene, laddove si colloca Bernard-Henri Levy, teorico del globalismo imperialista contemporaneo, ogni critico responsabile e radicale, nel senso di profondo, di originario, della mondializzazione, si pone sul versante opposto. Sulla Brexit: personalmente sono favorevole all’uscita della Gran Bretagna dalla Ue e al ripristino della sovranità nazionale di questo Paese. Mi fa sorridere riscontrare il cambio di paradigma di 180 gradi dei giornalisti che nel 2014 si schierarono fieramente contro il referendum scozzese sulla fuoriuscita dal Regno Unito e oggi si sono invece repentinamente convertiti a strenui sostenitori dell’“indipendenza” della Scozia, ovvero della permanenza di Edimburgo nella Ue. Ci sono secessionismi buoni e secessionismi cattivi, dunque? Perché l’indipendenza della Scozia nel 2014 era avversata dal 100 per cento dei media televisivi e della carta stampata mentre oggi è sostenuta all’unanimità dal circo mediatico? Infine, una nota sui “giovani”, disincantati e privi di coscienza infelice: hanno votato in maggioranza per il Remain, ma ha votato soltanto il 36 per cento dei giovani aventi diritto. Ciò significa che, sostanzialmente, alla maggioranza dei teenagers frega nulla della Gran Bretagna e poco o niente della Ue, a loro interessa soltanto la perpetuazione, a oltranza, della “società del divertimento” illimitato. Fortunatamente, votando Leave, i buoni padri di famiglia britannici hanno salvaguardato il futuro dei loro figli dediti alla sottocultura dello “svago”, banalmente cosmopoliti e politicamente disimpegnati.