
La Brexit si sta rivelando per quello che è: un inganno populista. E purtroppo l’Europa è attraversata dall’inganno populista. E questo inganno ha il volto di Farage, Orban, Le Pen, Salvini, Grillo (Con le sue specificità). Insomma questa “internazionale” euroscettica si sta facendo largo nel dibattito politico europeo. Per dirla con Bauman l’Europa sta vivendo una “meta crisi”che tocca il suo modo d’essere. In questo scenario s’ inseriscono le forze populiste con il loro “sovranismo”. E’ il loro grimaldello usato per scardinare l’Unione Europea. Un grimaldello deleterio. Per capire cos’è il “sovranismo”, quale radici ha e quali sono le sue “ricette”, abbiamo intervistato un giovane studioso piemontese Paolo Borgognone. Potremmo definirlo uno studioso ad indirizzo “putiniano”(da Vladimir Putin) . L’intervista può essere considerata come documento utile per comprendere certi radicalismi politici.
Borgognone, incominciamo dal titolo del suo libro: “L’immagine sinistra della globalizzazione”. Lei un po’ gioca sulle parole, infatti la sua opera è una critica alla Sinistra che, secondo lei, si è piegata al radicalismo liberale. E’ cosi?
La sinistra, nei Paesi dell’Europa occidentale è, per un definizione, l’apparato duale affidabile di gestione dei processi di modernizzazione capitalistica, a livello culturale, politico ed economico. La sinistra liberaldemocratica o socialdemocratica è il versante dominante di questo apparato, la sinistra che nel libro definisco movimentista e bobo-chic ne costituisce invece il versante dominato e subalterno. Nell’ambito di un capitalismo liberale culturalmente ispirato a una retorica che trae i propri spunti direttamente dalla filosofia della “fine capitalistica della Storia” e dall’antropologia del desiderio illimitato quale surrogato postmoderno della precedente mancata realizzazione delle promesse di emancipazione cosmopolitica vagheggiate dal comunismo storico novecentesco, è del tutto naturale e comprensibile che la sinistra connoti se stessa come la parte politica più propensa a propugnare un surplus di modernizzazione in fatto di “libertà” individuali al consumo e al desiderio vendendo tutto ciò a un’opinione pubblica di ceto medio (peraltro ormai ampiamente addomesticata al Verbo politically correct) quale sorta di nuova palingenesi “democratica” foriera di perpetuo “progresso” e imminente “emancipazione” individuale attraverso il consumo e, soprattutto, il desiderio. La sinistra politically correct è, oggi, il braccio politico della “società radicale dei consumi e dei desideri di massa”, così come il polo berlusconiano lo fu, in larga parte, della “società dello spettacolo” televisivo. E’ ovvio che queste fazioni politiche rappresentino le due facce della stessa medaglia.
Veniamo alla sua critica al globalismo (o mondialismo). Chi è dotato di un minimo di senso critico sa perfettamente che la globalizzazione produce diseguaglianze insopportabili (però anche opportunità). Quindi si vede il volto “sinistro” della globalizzazione. Ma il punto fortemente critico, per me assolutamente inaccettabile, è la soluzione che lei propone per contrastare il “mondialismo”: ovvero il così detto “sovranismo” (patriottico, ecc.). In Europa è quello delle destre xenofobe, le destre dei muri contro gli immigrati, le destre che vogliono il ritorno alle monete nazionali… Il sovranismo è il rimedio peggiore della malattia… Insomma applicato all’Europa il sovranismo porterebbe solo disastri…
La globalizzazione liberale produce alienazione, nomadismo e fine delle identità tradizionali dei popoli, identità che il capitalismo odierno vuole abbattere in quanto i precedenti retaggi culturali comunitari (dall’idea di patria, alla religione e fino al criterio di organizzazione dell’economia su basi socialiste e non liberali) sono avvertiti come un ostacolo al dispiegarsi inarrestabile dei processi di omogeneizzazione cosmopolitica funzionali alla dittatura dell’economia di “libero mercato”. Anche la famiglia tradizionale è oggi sotto attacco, per motivazioni analoghe. Si vorrebbe una società articolata più sullo stereotipo relazionale veicolato dai serial tv americani che non sui valori cavallereschi che hanno edificato il mito e la realtà dell’antica e originaria civiltà europea. Per quanto riguarda le destre, non bisogna correre il rischio di unificare in un unico discorso di aprioristica condanna forze politiche assai diverse. Per esempio, in Serbia il Partito Radicale Serbo è l’unico movimento che si batte apertamente contro la globalizzazione liberale, la Ue, il Fmi e la Nato. Si tratta di un partito culturalmente di destra che però ha compiuto un percorso di avvicinamento alla sinistra per quel che concerne i temi dell’economia e della battaglia (internazionalista) anticoloniale. Lo stesso ha fatto, più recentemente, in Francia, il Front National. Io, sulla scorta di pensatori di indiscusso spessore, come Jürgen Elsӓsser, credo che i partiti di destra siano, di per sé, espressione di un mito incapacitante e che potranno assumere connotati anticapitalistici e di effettiva originalità antisistemica e autenticamente “sovranista” nel momento in cui abbandoneranno qualsivoglia nostalgismo e tentazione alla retorica grettamente anticomunista (peraltro, dopo il 1989, in totale assenza di comunismo) per intavolare una seria e fattiva ipotesi di collaborazione, in chiave anti-liberale ed eurasiatista, con la parte più consapevole (e intellettualmente non agorafobica) della sinistra politica.
Apriamo una parentesi: ho trovato esagerato il peso che ha dato al Partito Radicale nell’essere tra le cause della crisi della sinistra (PCI) italiana. Non trova che sia più profonda la causa? Insomma per lei Sinistra e diritti umani non devono andare di pari passo?
Il Partito Radicale, con l’ideologia che ha sempre propugnato, non fu la causa della crisi della sinistra italiana bensì l’agente catalizzatore che agevolò e accelerò la metamorfosi della sinistra dal comunismo al radicalismo liberale, senza transitare dalla stazione intermedia della socialdemocrazia. La metamorfosi della sinistra in partito radicale di massa fu diagnosticata, in passato, con estrema lungimiranza, da intellettuali ideologicamente eterogenei tra loro ma indubbiamente inscrivibili a livello di vertice nel novero del panorama culturale italiano, come Augusto Del Noce, Costanzo Preve e Maurizio Blondet. Nel mio libro, mi sono limitato a constatare il decesso politico e ideologico della sinistra, gli intellettuali che ho menzionato più sopra invece, con largo anticipo diagnosticarono la malattia che nel tempo avrebbe condotto la sinistra a questa ingloriosa fine, ossia a morire di overdose autoindotta di liberalismo, di “pannellismo” e di “dirittumanismo”. Il decesso della sinistra è altresì riconducibile alla propria totale (e ostinatamente perseguita da un certo frangente in avanti, direi almeno dal Sessantotto, ma sostanzialmente già da prima) nonché congenita assenza di anticorpi spirituali, patriottici e religiosi nel senso tradizionale del termine. Laddove, come in Russia, la sinistra possedeva questi anticorpi e non era corrotta dal liberalismo, dal settarismo e dal soggettivismo anarchico, non solo è sopravvissuta ma si attesta, ancora oggi, attorno al 20 per cento dei voti popolari.
Torniamo ancora alla sua analisi: lei critica le mire espansive dell’atlantismo (Nato) e prova a delineare una “alternativa” chiamata “euroasiatismo”. Sulla base di questa ideologia pone come “player” principale Vladimir Putin. Putin, per me, è l’emblema di un “sovranismo estremo” con tutto quello che ne consegue sul piano della concezione dello stato e della democrazia. Se l’Europa deve essere riformata, e deve esserlo pena la sua morte, la strada maestra è quella di Spinelli ovvero il federalismo europeo. Insomma Putin e la sua “democratura” non può essere il futuro dell’Europa… Lei pensa invece di si?
Non definirei “democratura”, un termine coniato ad arte dal mainstream liberale a scopo palesemente diffamatorio, il modello politico della Russia odierna. Questo sistema politico è definibile invece come «democrazia sovrana» o «democrazia governante» e si connota, al netto dei limiti che pure contempla, come infinitamente più democratico rispetto alle decrepite liberaldemocrazie occidentali, dove il voto popolare non ha più alcun significato perché, come disse a mo’ di esempio nel 2013 Mario Draghi, l’Italia «ha il pilota automatico» per cui, a prescindere da chi vinca le elezioni, la direzione economica, liberista (e quella politica, liberale), cui il Paese avrebbe dovuto sottostare, sarebbe stata decisa altrove, ossia fuori dal contesto parlamentare elettivo, da parte di una ridda di banchieri e tecnocrati rappresentanti interessi speculativi privati e non la volontà generale dei cittadini. Peraltro, cinquant’anni di retorica cosmopolita e filo-capitalista da parte di pannelliani e sodali di ambo gli schieramenti in gara per l’occupazione delle poltrone parlamentari ha favorito un processo di riconfigurazione neoliberale delle mentalità per cui oggi i banchieri internazionali e tutto il loro circo politico-mediatico di complemento vengono effettivamente percepiti come il “meno peggio” che ci si possa aspettare da parte di un ceto medio di ex baby boomers viziati e totalmente adagiati sulle sponde della cultura della liberalizzazione sociale integrale. Per quanto riguarda la rifondazione dell’Europa sulle spoglie della Ue, al federalismo liberale di Spinelli preferisco, personalmente, il federalismo identitario proposto da Alain de Benoist.
L’“alternativa sovranista” non è credibile nemmeno sul fronte dei diritti umani. Anzi si pone agli antipodi della società aperta. Lei non vede questo?
La società aperta è un’utopia liberale divenuta, nel momento in cui si è concretizzata attraverso il consolidamento delle strutture politiche, economiche, sociali e mediatiche che ne costituiscono l’involucro burocratico e amministrativo per il controllo, la colonizzazione e la produzione sociale di massa (Ue, Nato, Fmi, Wto, sistema internazionale di banche e aziende private finanziarizzate, partiti politici liberali sistemici, sindacati collaborazionisti, Generazione Erasmus, ecc.), terrorismo imperialista all’esterno e compressione dei diritti dei popoli a una vita propria all’interno. Per cui, se si vuole salvare l’ecologia e ciò che rimane dell’etica tradizionale delle società umane abitanti il pianeta occorre stabilire un’alternativa politica, economica e culturale alla società aperta. Questa alternativa, ossia un movimento antiglobalista che ripristini la sovranità dei popoli e il primato delle culture di appartenenza di ciascuna nazione nei confronti dell’omologazione cosmopolitica, non può basarsi sulla stanca retorica dei diritti umani, che è poi la retorica a giustificazione, in nome della promozione, su larga scala, dei diritti di “libertà” al consumo, alla mobilità e al desiderio (ovvero, la “libertà” intesa come “liberazione” individuale dalle precedenti appartenenze identitarie collettive) di un individuo tanto astratto quanto, in definitiva, americanocentrico, delle guerre coloniali euro-atlantiche del XXI secolo.
Ho trovato sorprendente (ma fino ad un certo punto, date le sue premesse) che in più di mille pagine del suo libro non abbia speso una riga su Papa Francesco. Un critico duro dell’attuale globalizzazione finanziaria, della globalizzazione dell’indifferenza. Un Papa che dialoga con i movimenti popolari dell’America Latina. Un Papa alternativo ed è certamente un Papa antisovranista che vuole abbattere i muri di ogni tipo (dall’economia alla religione). Perché questa dimenticanza?
Perché la critica mossa da papa Francesco alla globalizzazione liberale è una critica che definirei buonista e in assoluto compatibile con i postulati culturali, appunto liberali, della globalizzazione e dell’imperialismo. Se penso alle “aperture” nei confronti della moda gay friendly, delle politiche obamiane e addirittura del protestantesimo operate da papa Francesco, arrivo a sostenere che il cittadino Bergoglio sia in qualche modo possessore della “doppia tessera”, di Propaganda Fide e del Partito Radicale, ma che sia quest’ultima a esercitare una sorta di primato nell’orientamento più schiettamente politico del papa… Oggi in Italia da papa Francesco a Bertinotti abbiamo un ventaglio molto ampio di personalità politiche pseudo-antagonistiche in realtà fautrici di una critica talmente compatibile della globalizzazione da risultare, in buona sostanza, un’apologia indiretta dell’esistente e, dunque, una legittimazione dell’esistente. L’elogio sperticato pronunciato da papa Francesco nei confronti della cosiddetta democrazia americana, individualista, edonista e protestante, al Congresso Usa, è lo specchio perfetto dell’abisso di “paura della verità” mascherata da ecumenismo in cui è sprofondato il cattolicesimo progressista. Personalmente, la dissoluzione del cattolicesimo non mi lascia indifferente, sebbene io sia spiritualmente più legato all’Ortodossia e all’Islam sciita rivoluzionario, perché oggi la religione dovrebbe rappresentare un baluardo contro la deriva nichilista della società e un tratto culturale fondante per costruire una prospettiva socialista orientata in chiave non materialistica e non settaria.
Ovviamente non condivido assolutamente questo giudizio su Papa Francesco. Definire “buonista” la critica alla globalizzazione non è corretto anzi è sbagliatissimo. Si legga, per fare un esempio, l’ultima enciclica del Papa la Laudato si. Una Enciclica assolutamente alternativa alla logica del sistema economico imperante. La invito ad approfondire l’opera rivoluzionaria di Francesco. E qui mi fermo . Cambiamo argomento. Da “sovranista” cosa pensa di Trump?
Non ho simpatia politica per Donald Trump e per molto di ciò che la sua cultura rappresenta. Donald Trump è un miliardario liberal-populista americano con fare borioso e spaccone tipico dello sceriffo dell’ultima e insignificante contea del Texas. Tuttavia, la sua avversaria alle presidenziali d’autunno, Hillary Clinton, è assai peggio e mi auguro fortemente che venga sconfitta, senza naturalmente esultare per un’eventuale vittoria di Trump. Una storica di rango, Diana Johnstone, in un suo recente e pregevolissimo libro, ha definito Hillary Clinton «la regina del caos», sottolineando gli aspetti più confacenti all’imperialismo e alla dottrina politica del cambio di regime nei Paesi non allineati al consenso di Washington del candidato “democratico” alla Casa Bianca rispetto agli esponenti repubblicani “paleoconservatori”. Hillary Clinton è la stratega politica delle guerre “umanitarie” e dei colpi di Stato postmoderni attuati con la scusa di «tutelare i diritti umani» nei Paesi renitenti all’ordine di Washington e una simile opzione geopolitica, fondata sulla promozione della dottrina del «caos costruttivo», condurrà inevitabilmente, con Hillary Clinton presidente, allo scontro finale tra l’Occidente a guida Usa e la Russia. Nel libro che ho citato, Hillary Clinton regina del caos, Diana Johnstone scrive apertamente che fu proprio l’allora first lady a convincere, nel 1999, Bill Clinton a bombardare la Serbia e oggi la squadra dei falchi liberali russofobici a guida Hillary Clinton si accinge a preparare, nel Baltico, il terreno per lo scontro frontale con la Russia.
Una parola sulla Brexit. Ha scritto, recentemente sul Corriere della Sera, Bernard-Henri Levy: «La “Brexit” non è la vittoria di un’“altra” Europa, ma di una “assoluta mancanza di Europa”. Non è l’alba di una rifondazione, ma il crepuscolo di un progetto di civiltà. Significherà, se non ritorna sé, la consacrazione della grigia internazionale degli eterni nemici dei Lumi e di chi ha sempre avversato la democrazia e i diritti dell’uomo». Penso che il filosofo francese abbia ragione. Alla fine il “sovranismo” diventa l’ideologia della paura dell’altro e dell’integrazione dei popoli. Lei non vede questo pericolo?
Una parola, prima, su Bernard-Henri Levy, che non stimo come filosofo ma che reputo un eccellente propagandista dell’imperialismo della Nato sotto copertura ideologica ultraliberale. Ricordo, due anni or sono, Bernard-Henri Levy a Kiev, intento a galvanizzare la folla televisiva dello show di piazza Maidan, uno spettacolo violento foriero di un successivo colpo di Stato anti-russo e anti-ucraino (ma rigorosamente filo-Usa) la cui manovalanza armata venne fornita da milizie indiscutibilmente scioviniste, etnonazionaliste e finanche neonaziste. Bene, laddove si colloca Bernard-Henri Levy, teorico del globalismo imperialista contemporaneo, ogni critico responsabile e radicale, nel senso di profondo, di originario, della mondializzazione, si pone sul versante opposto. Sulla Brexit: personalmente sono favorevole all’uscita della Gran Bretagna dalla Ue e al ripristino della sovranità nazionale di questo Paese. Mi fa sorridere riscontrare il cambio di paradigma di 180 gradi dei giornalisti che nel 2014 si schierarono fieramente contro il referendum scozzese sulla fuoriuscita dal Regno Unito e oggi si sono invece repentinamente convertiti a strenui sostenitori dell’“indipendenza” della Scozia, ovvero della permanenza di Edimburgo nella Ue. Ci sono secessionismi buoni e secessionismi cattivi, dunque? Perché l’indipendenza della Scozia nel 2014 era avversata dal 100 per cento dei media televisivi e della carta stampata mentre oggi è sostenuta all’unanimità dal circo mediatico? Infine, una nota sui “giovani”, disincantati e privi di coscienza infelice: hanno votato in maggioranza per il Remain, ma ha votato soltanto il 36 per cento dei giovani aventi diritto. Ciò significa che, sostanzialmente, alla maggioranza dei teenagers frega nulla della Gran Bretagna e poco o niente della Ue, a loro interessa soltanto la perpetuazione, a oltranza, della “società del divertimento” illimitato. Fortunatamente, votando Leave, i buoni padri di famiglia britannici hanno salvaguardato il futuro dei loro figli dediti alla sottocultura dello “svago”, banalmente cosmopoliti e politicamente disimpegnati.
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