Gli Eurosprechi che alimentano il populismo. Un libro di Roberto Ippolito

“Il mio mondo è mia sorella ricoverata in questo schifo di ospedale. Cosa dovevo votare? Leave! Così invece di versare 350 milioni di sterline alla settimana a Bruxelles, daremo letti e coperte decenti a chi deve farsi curare.” Vanessa Stevenson, cittadina di Hillingdon, ovest di Londra, dopo il referendum che ha deciso l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

“Chi immagina un’Europa guarita e in piena salute non può far finta di niente nei confronti degli eurosprechi.”
Roberto Ippolito

Come sempre documentatissimo, Roberto Ippolito, nel suo ultimo libro, fa venire alla luce e rende di dominio pubblico sprechi miliardari spaventosi dell’Unione Europea: autostrade con poche auto nonostante immani investimenti, aeroporti nuovi eppure deserti, tonno pagato sei volte di più, dipendenti gratificati da un’indennità extra anche se malati, la proliferazione di enti perfino con nomi simili, la media di un immobile su cinque al mondo non adoperato. E poi errori che inficiano il 4,4 per cento di tutti i pagamenti. Eurosprechi mette nero su bianco che, così com’è, l’Unione non funziona, è un sogno rovinato. Fa rabbia che la casa comune, creata per assicurare una vita migliore ai suoi cittadini, butti via con i soldi se stessa. Dagli innumerevoli episodi raccontati dettagliatamente emerge un’Europa che annaspa nelle piccole convenienze quotidiane con grandi costi. Ci sono sperperi senza fine che nessuno potrebbe mai neanche immaginare. Con un paradosso: il deficit di bilancio balza al 4,8 per cento, molto oltre il tetto di Maastricht. Chi crede nell’Unione Europea non può chiudere gli occhi, non deve: gli eurosprechi sono troppi e troppo abbondanti. Gli europeisti sono davvero impegnati per togliere pretesti all’azione disgregatrice? L’Unione può superare le resistenze e crescere se, oltre a ritrovare la forza dello slancio ideale e una visione solidale, affronta adeguatamente la questione dei soldi. Gli eurosprechi sono un macigno sulla strada di chi vuole gridare ancora: “Viva l’Europa”.

L’Autore
Roberto Ippolito, scrittore e giornalista, ha pubblicato con Chiarelettere i libri di successo “Ignoranti” (2013) e “Abusivi” (2014). In precedenza ha firmato “Evasori” (Bompiani 2008) e “Il Bel Paese maltrattato” (Bompiani 2010). Ha diretto a Roma “Libri al centro” a Cinecittà, “conPasolini”, “Nel baule” al Maxxi; a Ragusa, il festival letterario “A tutto volume”. È stato editor del “Festival dell’economia” di Trento e ha ideato il “Tour del Brutto dell’Appia Antica”. Dopo aver curato a lungo l’economia per il quotidiano “La Stampa”, è stato direttore comunicazione di Confindustria e direttore relazioni esterne dell’Università Luiss, dove ha anche insegnato “Imprese e concorrenza” alla Scuola superiore di giornalismo.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro.

L’Unione Europea non va di moda. Va di moda attaccarla, denigrarla, ritenerla la causa di tutti i mali. Fonte di sventure, di impoverimento, di ingiustizie. Per quello che fa e anche per quello che non fa. Eppure l’Europa è qualcosa di unico al mondo. Ma quale Europa? Questo libro fa venire alla luce e rende di dominio pubblico sprechi miliardari spaventosi. Mette nero su bianco che, così com’è, l’Unione non funziona, è un sogno rovinato. Già prima della Brexit, l’addio della Gran Bretagna alle istituzioni comuni deciso con il referendum del 23 giugno 2016, l’Unione era malata. Dopo quel giorno incredibile tutto è diventato più incerto. Il domani per l’Europa ci può essere, se l’Europa cambia. Sapere è più prezioso che mai. Fa rabbia che l’Unione, creata per assicurare una vita migliore ai suoi cittadini, butti via con i soldi se stessa. Dov’è la politica che costruisce? Dove sono i progetti che fanno progredire? Dov’è l’attenta valutazione del beneficio di ogni euro impiegato? Episodio per episodio emerge un’Europa che annaspa nelle piccole convenienze quotidiane con grandi costi. Ci sono sperperi senza fine che nessuno potrebbe mai neanche immaginare. E pensare che il tema dei costi dell’Unione ha già un grande impatto sulla gente, ha pesato nella vittoria del leave, l’abbandono dell’Unione da parte del Regno Unito, e fornisce legna agli incendiari leader populisti e anti-immigrati che infiammano l’Europa. Per rendersene conto potrebbero bastare le opinioni degli abitanti di Hillingdon, il quartiere a ovest di Londra dove il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, l’Ukip di Nigel Farage, ha pilotato il grosso successo della Brexit respinta invece praticamente in tutta la capitale inglese. 1 Con lo scrutinio alle ultime battute, lasciando l’ospedale di Hillingdon all’alba, una votante, Vanessa Stevenson, ha sfoderato in chiave personale tutto il suo rancore anti-Ue: «Il mio mondo è mia sorella ricoverata in questo schifo di posto. Sporco, senza infermieri, tenuto come un garage. Cosa dovevo votare? Leave! Così invece di versare 350 milioni di sterline alla settimana a Bruxelles, daremo letti e coperte decenti a chi deve farsi curare qui». Vanessa Stevenson ha semplificato troppo? Ha mischiato le conseguenze delle politiche locali con quelle europee? Si è sentita appagata dall’aver individuato e messo ko chi ha identificato come il nemico? La sua irritazione sembra la sintesi privata della diffusa avversione per l’Europa. Nove giorni prima del voto, il vendutissimo quotidiano conservatore inglese «The Sun», impegnato a tirare la volata alla Brexit e alle sue motivazioni, ha scritto che, nei «nostri 43 anni nell’Unione Europea», Bruxelles «si è dimostrata sempre più avida, sprecona, tirannica e incredibilmente incompetente in una crisi». 2 I giudizi all’origine della Brexit sul cattivo governo dell’Unione, fondati e non, si ritrovano diffusi nei paesi membri, da est a ovest, da nord a sud, tra paure, arroccamenti e propaganda. Travolgono le istituzioni comuni a prescindere, sovrapponendole alle politiche adottate, anche se le politiche possono essere differenti in rapporto ai risultati delle elezioni per il Parlamento Europeo, agli orientamenti e alla composizione della Commissione europea, al colore e agli atteggiamenti dei governi nazionali. Nei singoli stati c’è chi strilla, chi esagera, chi sbatte la porta e chi vorrebbe sbatterla. Ma i problemi esistono. Gli eurosprechi esistono. E neanche pochi. Infatti nelle pagine che seguono il lettore troverà vicende e importi scaturiti da ricerche, davvero infinite, cioè qualcosa di estremamente concreto ed estremamente negativo. Questo libro rivela quanto e come si sperpera, offendendo perfino il comune senso del pudore (economico). Dilapidare i soldi dell’Unione, facendola funzionare male, mette in pericolo addirittura la sua sopravvivenza. E dunque guardare in faccia lo stato delle cose, passare al setaccio i comportamenti significa essere consapevoli della svolta necessaria, nella lunga stagione di stallo del processo di integrazione. Sono innumerevoli e gravi i casi trovati di sperpero di soldi dei cittadini, soldi spesso buttati via senza logica, senza progetti, senza controlli, senza badare ai risultati ma con gli eccessi della burocrazia. Sciupare montagne di euro mina la fiducia nei confronti delle attuali istituzioni. Riduce la passione e l’interesse della gente anche per il loro rafforzamento. L’uso distorto delle risorse a Bruxelles e nei posti più disparati del continente è uno sgambetto sul cammino dell’unificazione, ostacola le azioni comuni su fronti caldi come la sicurezza o le difficoltà dell’economia e offre argomenti, facili ma forti, agli avversari dell’Unione. I costi dell’Europa sono il carburante dell’avanzata antieuropeista. L’operazione trasparenza dei conti, al contrario, può costituire una carta decisiva da giocare per chi vuole rilanciare la costruzione europea, oggi ferma e con il futuro appannato da pesanti incertezze. Questo libro è stato concepito in seguito a una constatazione elementare: finora nessuno si è preso la briga di studiare i conti dell’Unione e di descrivere che fine fanno veramente piccole e grandi somme. Sempre pronta a rimproverare, bocciare e mettere in castigo, anche giustamente, i governi dei paesi membri (ventisette senza la Gran Bretagna), la Commissione europea, presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker dall’1 novembre 2014 e nei dieci anni precedenti dal portoghese José Barroso, 3 non sembra guardare con uguale severità in casa propria. E pensare che il rigore, il tanto discusso rigore, è la sua bandiera, quella del Partito popolare europeo maggioritario nel Parlamento Europeo e della cancelliera tedesca Angela Merkel. L’esigenza di serietà nelle politiche economiche di ogni stato, per soddisfare l’interesse generale, è stata sostenuta in modo anche oltranzistico. È storia. Nonostante questo, ben altra cosa sono i fatti che avvengono nella casa comune. Nell’orbita dei ventotto commissari, tra direzioni, agenzie e segrete stanze, ne accadono di tutti i colori. Per tutte le scoperte raccontate, ci sono le pezze d’appoggio e sono indicate le fonti. Non si tratta di opinioni. Un grosso lavoro di accertamento e verifica viene compiuto dalla Corte dei conti europea, che ha sede a Lussemburgo. La Corte punta ripetutamente il dito sull’uso anomalo o sbagliato del denaro dei contribuenti. I suoi giudizi sono importanti anche se non vincolanti e dovrebbero pesare visto il compito, affidato dal Trattato di Bruxelles del 1975, di controllare la regolarità delle entrate e delle spese dell’Unione Europea e la correttezza della gestione finanziaria. 4 Invece per le sue relazioni e per i suoi ammonimenti il disinteresse sembra sistematico. Queste pagine sono state realizzate guardando in tutte le direzioni, ma più di cento documenti della Corte spulciati e studiati rappresentano la base fondamentale essendo ufficiali e il frutto dell’analisi delle spese effettuate e delle decisioni prese, dei contratti stipulati e delle pratiche svolte nonché dei sopralluoghi e dei colloqui con valore formale. All’ombra del presidente francese François Hollande o del presidente del consiglio italiano Matteo Renzi o della Merkel e dei governanti di tutti i paesi membri, miliardi e miliardi di euro vengono dissipati ogni anno. Sì, miliardi. Un bel po’ di miliardi. Se si continua così, il disfacimento di tutta l’Unione è inevitabile. Altro che Brexit. Chi crede nell’Unione Europea non può chiudere gli occhi sulla questione quattrini, non deve: gli eurosprechi sono troppi e troppo abbondanti. Chi impiega il denaro dei cittadini ha il dovere di preoccuparsi. Direzione per direzione, ente per ente, ufficio per ufficio, il portafoglio può essere aperto con maggiore oculatezza e maggiori benefici. E il sogno dell’Unione può essere coltivato, per un grande disegno solidale ancora più forte e per il benessere dei suoi abitanti, 450 milioni una volta salutati quelli al di là della Manica. Chi non vuole veder scendere ancora questo numero e immagina un’Europa guarita e in piena salute non può far finta di niente nei confronti degli eurosprechi. Il viaggio negli sperperi del Vecchio Continente, dunque, ora può cominciare.

Pagamenti bocciati
Alcuni hanno persino tratto vantaggio dallo scompaginamento dell’Europa. L’Ue però non figura tra i beneficiari. Jan Zielonka 20145

Anche lui è preoccupato. Il portoghese Vítor Manuel da Silva Caldeira cammina pensieroso. È per strada a Strasburgo, diretto al Parlamento Europeo. In qualità di presidente della Corte dei conti europea, la mattina di giovedì 26 novembre 2015, non può sottrarsi al suo compito, anche se sgradevole: certificare, numeri alla mano, che l’Unione Europea butta via i soldi con una facilità estrema. E così, nella seduta plenaria del Parlamento, illustrandomla relazione sul bilancio del 2014 dell’Unione 6 presentata al termine dell’analisi dei conti, pronuncia il verdetto che non potrebbe essere più severo: «Troppe spese non sono ancora conformi alle norme finanziarie dell’Ue» sono le sue parole che rimbalzano nell’aula. 7 L’intervento dura pochi minuti, in un clima gelido. Non ci sarebbe da aggiungere altro per descrivere l’inesorabile dissipazione di soldi e quindi di opportunità. Questa è l’Europa. Oggi. Il discorso di Caldeira ai deputati non può che essere una rapida sintesi dei giudizi e dei fatti contenuti nella relazione sul bilancio che occupa 320 pagine della «Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea». 8 Più che sufficiente, però, per mostrare il panorama tutt’altro che limpido. Il presidente della Corte dei conti europea sente infatti il bisogno di lanciare un avvertimento: «La gestione finanziaria dell’Ue trarrebbe grande beneficio da una maggiore trasparenza. Ciò è fondamentale per ottenere la fiducia dei cittadini». Caldeira fa suonare l’allarme: «A giudizio della Corte, le risorse di bilancio dell’Ue potrebbero essere investite meglio e più rapidamente per affrontare le molte sfide cui l’Europa è confrontata». Troppe spese non conformi vuol dire troppi soldi spesi male. La Corte dei conti europea calcola errori nei pagamenti del 2014 pari al 4,4 per cento di tutte le uscite. I soli errori incidono per 6,3 miliardi di euro su un bilancio complessivo di 142,5 miliardi. La cifra è enorme dopo le cifre immense già registrate per i due anni precedenti. Il livello di errore stimato, che misura il livello di irregolarità, infatti, è praticamente lo stesso di quello del 2013 e del 2012, quando è stato del 4,5 per cento. Ancora una volta si colloca al di sopra della soglia di rilevanza del 2 per cento nonostante le azioni correttive disposte. Il 4,4 per cento deriva dalle verifiche che sono state compiute su un esteso campione, che copre tutti i settori di spesa. La realtà, però, è anche peggio. All’esito del grosso lavoro di accertamento svolto ad ampio raggio bisogna aggiungere i molti errori che la stessa Corte dichiara di non essere in grado di quantificare, «quali le violazioni minori di norme in materia di appalti, l’inosservanza di norme in materia di pubblicità o il recepimento non corretto di direttive dell’Ue nella legislazione nazionale». Questi altri errori «non sono inclusi nel tasso» stimato dalla Corte che, pertanto, dovrebbe essere più elevato.9

Roberto Ippolito, EUROSPRECHI. Tutti i soldi che l’Unione butta via a nostra insaputa, Chiarelettere, Milano 2016. Pagg. 160, 13 euro

_____________________

1Ettore Livini, Chi vince. Tra i «marziani» di Hillingdon. «La Ue era solo per i ricchi», «la Repubblica», 25 giugno 2016.
2BeLeave in Britain, «The Sun», 14 giugno 2016. Editoriale anticipato alle 22.58 del giorno prima sul sito «thesun.co.uk» con il titolo Sun Says. We urge our readers to beLeave in Britain and vote to quit the Eu on June 23.
3In carica dal 22 novembre 2004 al 31 ottobre 2014.
4Trattato che modifica talune disposizioni finanziarie dei trattati che istituiscono le Comunità europee e del trattato che istituisce un Consiglio unico e una Commissione unica delle Comunità europee, firmato a Bruxelles il 22 luglio 1975 e in vigore dall’1 giugno 1977, «Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea» n. L359 20° anno, 31 dicembre 1977.
5Jan Zielonka, docente polacco di Politiche europee all’Università di Oxford, Is the Eu doomed?, Polity Press, Cambridge 2014 (edizione italiana Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea, Laterza, Roma-Bari 2015).
6Corte dei conti europea, «Relazione annuale della Corte dei conti sull’esecuzione del bilancio per l’esercizio 2014», Lussemburgo, 10 novembre 2015. Le citazioni relative a questo documento in tutto il libro sono ricavate anche da Corte dei conti europea, «2014 Sintesi dell’audit dell’Ue. Presentazione delle relazioni annuali della Corte dei conti europea sull’esercizio 2014», Lussemburgo, 10 novembre 2015. Le citazioni prive di note in tutte le pagine successive sono relative a questi due documenti.
7Corte dei conti europea, «Discorso di Vítor Caldeira, Presidente della Corte dei conti europea. Presentazione delle relazioni annuali sull’esercizio 2014. Seduta plenaria del Parlamento Europeo», Strasburgo, 26 novembre 2015.
8«Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea» n. C373 58° anno, 10 novembre 2015.
9Corte dei conti europea, «Relazione annuale sull’esercizio 2014 – Risposte alle domande più frequenti», Lussemburgo, 10 novembre 2015.

Aldo Moro, lo statista e il suo dramma. Intervista a Guido Formigoni

13bcbb6cover26474-jpegDOMANI al Quirinale, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e delle alte cariche dello Stato, si svolgerà la Cerimonia per il Centenario della nascita di Aldo Moro. Lo statista pugliese è stato l’uomo più importante, dopo De Gasperi, per la democrazia italiana. La sua tragica fine, ucciso barbaramente dalle BR, segnò per sempre la storia dell’Italia repubblicana e della Democrazia Cristiana. Quali sono le radici politiche di Aldo Moro? Cosa ha significato Moro per la democrazia italiana? Di questo, e altro, parliamo con lo storico Guido Formigoni, Ordinario di Storia Contemporanea all’Università IULM di Milano. Formigoni è un conoscitore profondo della vicenda politica morotea. E’ appena uscita, per la casa editrice Il Mulino, una biografia sul leader democristiano: Aldo Moro, Lo statista e il suo dramma. (pagg. 490).

Professor Formigoni, il 23 settembre sono cento anni dalla nascita Aldo Moro, lei ha appena pubblicato una corposa biografia, per la casa editrice Il Mulino, sullo statista pugliese. Il suo è stato un lavoro profondo di ricerca archivistica. Quali novità storiografiche sono presenti nel suo libro? 

Ho tentato di dare un’immagine di Moro che tenga assieme gli aspetti diversi della sua personalità, come uomo, credente, intellettuale, giurista, marito e padre di famiglia, oltre che politico. Non è cosa semplice, soprattutto per la riservatezza del suo carattere, che ha lasciato poche tracce. Ma egli, pur essendo profondamente dedito alla sua vocazione politica, non ha mai voluto essere un “politico di professione”. Poi, ho voluto inserire la sua biografia su uno sfondo internazionale complessivo (le carte americane sono a questo proposito molto utili) e in una comprensione più articolata del dibattito politico interno alla Dc (soprattutto in alcuni momenti cruciali). La documentazione inedita aiuta a fare qualche passo avanti in questa direzione.
Devo anche dire che ho tentato di fare un lavoro che sia simpatetico con il personaggio (condizione necessaria per capirlo), ma non agiografico. Ho anche individuato alcuni limiti e soprattutto una tensione interna alla sua politica, che mi ha fatto usare il sottotitolo “Lo statista e il suo dramma”. Non solo il dramma dell’assassinio, ma della crescente difficoltà che egli sperimentò a far convergere tutti gli elementi della sua proposta politica.

Sicuramente dopo De Gasperi è l’uomo più importante nella storia della democrazia italiana. Qual era la sua visione della politica? Per alcuni, denigratori, rappresentava “gli arcani del potere”. Invece era l’uomo che guardava lontano, nel senso che capiva i movimenti profondi della società italiana. Perché questa dicotomia?

Il suo modo di far politica, e anche la sua peculiare leadership, erano in effetti complessi da capire. Non tanto per il luogo comune del linguaggio astruso (che gli fu cucito addosso: fu la stampa a confezionare addirittura alcune delle famose espressioni contraddittorie, come “convergenze parallele”). In realtà egli parlava con grande logicità e chiarezza, anche se non era certo un demagogo e forse era un po’ prolisso e qualche volta noioso. Ma il problema è più profondo. Da una parte egli capiva in anticipo molti problemi e sapeva dove voleva andare: aveva un progetto, un discorso sul ruolo dello Stato rispetto alla società e sul ruolo dell’Italia nel mondo, che erano indubbiamente lungimiranti. Ma aveva poi la convinzione che questo progetto andasse perseguito con grande prudenza e trainandosi per così dire un mondo che era lontano, distratto, problematico. Per non causare controreazioni pericolosissime (in un paese dalla democrazia fragile e incerta), non bisognava mai forzare. Costruire piuttosto lentamente il consenso. Qui stanno le origini sia di alcuni suoi grandi successi, sia di una possibile rilettura del suo ruolo come pigro insabbiatore delle novità, quando non riusciva a rendere palese che le sue lentezze erano mirate a non pregiudicare un obiettivo, e non semplicemente frutto di conservatorismo. Comunque, quando lo riteneva necessario, sapeva usare la battaglia e la durezza del confronto delle idee: si pensi alla lotta contro il ritorno indietro reazionario dei primi anni Settanta.

Moro è un “figlio” spirituale di Montini (che diventerà, poi, Papa Paolo VI). La sua era una spiritualità profonda, per certi versi, a mio modo di vedere, anche mistica. Quali sono le radici della spiritualità morotea?

Certo, abbiamo coscienza di un legame con la cultura montiniana e la sintesi tra fede e modernità che essa perseguiva. Però abbiamo poche tracce per indicare i tratti profondi e personali della sua spiritualità. Possiamo ricordare la frequentazione diretta del Vangelo fin da giovane, il piacere nell’incontrare il Concilio (anche se non ne parlò mai in pubblico), alcuni struggenti cenni di fede negli scritti dalla prigionia brigatista. Non so se si possa parlare di mistica, ma certo di una fede interiorizzata e vissuta, che ogni giorno guidava la vita.

Qual è stato il contributo più importante di Aldo Moro nella storia dei cattolici italiani?

Forse il suo impegno a costruire le premesse di una autonomia della Dc dalla Chiesa, costruita non su una laicizzazione qualunque, ma sulla coscienza di un’assunzione di responsabilità del laicato, nel dialogo onesto con la comunità cristiana tutta. La battaglia sul centro-sinistra (osteggiato dalla gerarchia) coincide con questo difficilissimo processo, che riesce a ottenere risultati importanti (anche se la generazione successiva alla sua non coltiverà molto tale assetto). La sua idea di ispirazione cristiana come “principio di non appagamento” e stimolo interiore verso la giustizia, espressa nel congresso della Dc del 1973, è il risvolto ulteriore di questa coscienza forte di una unità tra fede e vita non giocata sul richiamo confessionale, ma piuttosto sulla coerenza delle scelte quotidiane.

Quest’uomo mite aveva molti nemici (dagli Usa alla destra cattolica). Dove nasce quest’odio? Cosa faceva paura di Aldo Moro?

Non solo la destra cattolica, ma tutta la destra. Pensiamo alla P2. Pensiamo a una certa stampa ferocemente a lui avversa. Nel caso degli Stati Uniti bisogna distinguere: da una parte c’è la vera ostilità preconcetta di Kissinger, dall’altra invece ci sono ambienti politici e diplomatici che percepiscono la sua capacità politica e lo stimano e apprezzano (soprattutto nel mondo progressista kennediano). Nei suoi nemici c’era probabilmente proprio la consapevolezza che egli guardava altrove e che poteva riuscire a realizzare progetti di cambiamento, non era solo un innocuo utopista. In questo senso era percepito come più pericoloso di altri: era un vero statista, non un predicatore qualunque.

L’idea di Moro sulla DC era un’idea riformista e progressista, pur nei limiti della struttura del partito. E’ così?

Beh, lui si rende conto che la Dc è (degasperianamente) un partito composito che deve stare al centro del sistema e garantire in qualche modo il suo equilibrio complessivo. Cioè appunto la sua lenta trasformazione verso il modello dello Stato sociale previsto dalla Costituzione. In questo senso la Dc per lui va guidata dall’interno con abilità e prudenza, senza forzature, portandosi dietro possibilmente tutto il moderatismo. Per questo spesso interloquisce con le correnti della sinistra interna, ma solo tra il 1969 e il 1973 si fa mettere nell’angolo con le sinistre: lui voleva piuttosto gestire in modo progressista un partito ambivalente, non fare semplicemente testimonianza dall’opposizione.

La “terza fase”, il disegno politico-strategico moroteo, si interruppe con la sua tragica fine. Quale sarebbe stato lo sviluppo della democrazia  italiana?

Questo è difficile dirlo. C’è una controversia sul modo di intendere il progetto della terza fase. Recentemente molti hanno messo l’accento sulla sua volontà di fermare l’avanzata comunista, di logorare il Pci in mezzo al guado. Io non credo sia da leggere in questo modo. E’ chiarissimo da tutte le fonti che egli non pensi al governo insieme al Pci: non accetta la proposta berlingueriana del compromesso storico.
Pensa che non sarebbe accettabile né nel paese né a livello internazionale, e soprattutto vede ancora la lentezza del processo di ripensamento del partito comunista. Ma pensa necessaria una fase di avvicinamento e rilegittimazione reciproca per coinvolgere il Pci più radicalmente sul terreno della difesa delle istituzioni democratiche, in modo da favorire il suo processo di revisione ideologica e politica. Al fondo di questo percorso forse ci sarebbe stato il superamento della “democrazia diffiicile” segnata dall’impatto delle guerra fredda. Ma non è certo facile immaginare in che modi e in che tempi.

A quasi 40 anni dalla sua morte resta sempre la domanda: perché fu ucciso?

Sicuramente fu ucciso dalla follia brigatista che vedeva in lui ben più di un semplice simbolo del potere democristiano, ma propriamente colui che poteva stabilizzare la democrazia (con il suo dialogo con il Pci, ma anche con la sua attenzione ai movimenti sociali post-sessantottini). Poi, è evidente che i cinquantacinque giorni sono ancora un buco nero in cui non sappiamo tutta la verità, nemmeno su aspetti molto banali e concreti (la prigione, i tempi…). Per cui c’è la sensazione che sull’azione delle Br forse si sia innestata anche la volontà di altri ambienti che odiavano il suo ruolo politico. Si è spesso citato la Cia o il Kgb (senza nessun appiglio diretto in realtà). Forse sarebbe anche da guardare a centri di potere interni alla società italiana, che condizionavano ad esempio la passività degli apparati di sicurezza…

Cosa resta della sua lezione politica?

A tratti sembra di essere ormai troppo lontani dai suoi giorni per poter parlare di una lezione viva. Anche perché purtroppo la sua assenza non ha aiutato una continuità delle sue intuizioni, dei suoi metodi e della sua ispirazione. Ma credo senz’altro che anche la politica attuale potrebbe imparare dalla sua capacità di intuire i problemi storici senza farsi condizionare troppo dall’attualità, dalla sua volontà di usare in modo mite la parola e la ragione per ricondurre sempre le tensioni su un terreno di dialogo e di crescita della democrazia, della sua arte della mediazione non finalizzata alla propria sopravvivenza, ma all’evoluzione lenta e sicura di un sistema fragile come la democrazia italiana.

Da Assisi appello di Pace: con la guerra sono perdenti anche i vincitori

 Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace, Papa Francesco nelle Basilica di San Francesco (Ap Photo)

Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace, Papa Francesco nelle Basilica di San Francesco (Ap Photo)

Al termine del 30esimo Incontro mondiale dei leader religiosi organizzato ad Assisi dalla Comunità di Sant’Egidio è stato letto l’Appello per la pace 2016.
Eccolo integralmente, (dal sito):

Uomini e donne di religioni diverse, siamo convenuti, come pellegrini, nella città di San Francesco. Qui, nel 1986, trent’anni fa, su invito di Papa Giovanni Paolo II, si riunirono Rappresentanti religiosi da tutto il mondo, per la prima volta in modo tanto partecipato e solenne, per affermare l’inscindibile legame tra il grande bene della pace e un autentico atteggiamento religioso. Da quell’evento storico, si è avviato un lungo pellegrinaggio che, toccando molte città del mondo, ha coinvolto tanti credenti nel dialogo e nella preghiera per la pace; ha unito senza confondere, dando vita a solide amicizie inter-religiose e contribuendo a spegnere non pochi conflitti. Questo è lo spirito che ci anima: realizzare l’incontro nel dialogo, opporsi a ogni forma di violenza e abuso della religione per giustificare la guerra e il terrorismo. Eppure, negli anni trascorsi, ancora tanti popoli sono stati dolorosamente feriti dalla guerra. Non si è sempre compreso che la guerra peggiora il mondo, lasciando un’eredità di dolori e di odi. Tutti, con la guerra, sono perdenti, anche i vincitori.

Abbiamo rivolto la nostra preghiera a Dio, perché doni la pace al mondo. Riconosciamo la necessità di pregare costantemente per la pace, perché la preghiera protegge il mondo e lo illumina. La pace è il nome di Dio. Chi invoca il nome di Dio per giustificare il terrorismo, la violenza e la guerra, non cammina nella Sua strada: la guerra in nome della religione diventa una guerra alla religione stessa. Con ferma a convinzione, ribadiamo dunque che la violenza e il terrorismo si oppongono al vero spirito religioso.
Ci siamo posti in ascolto della voce dei poveri, dei bambini, delle giovani generazioni, delle donne e di tanti fratelli e sorelle che soffrono per la guerra; con loro diciamo con forza: No alla guerra! Non resti inascoltato il grido di dolore di tanti innocenti. Imploriamo i Responsabili delle Nazioni perché siano disinnescati i moventi delle guerre: l’avidità di potere e denaro, la cupidigia di chi commercia armi, gli interessi di parte, le vendette per il passato. Aumenti l’impegno concreto per rimuovere le cause soggiacenti ai conflitti: le situazioni di povertà, ingiustizia e disuguaglianza, lo sfruttamento e il disprezzo della vita umana.
Si apra finalmente un nuovo tempo, in cui il mondo globalizzato diventi una famiglia di popoli. Si attui la responsabilità di costruire una pace vera, che sia attenta ai bisogni autentici delle persone e dei popoli, che prevenga i conflitti con la collaborazione, che vinca gli odi e superi le barriere con l’incontro e il dialogo. Nulla è perso, praticando effettivamente il dialogo. Niente è impossibile se ci rivolgiamo a Dio nella preghiera. Tutti possono essere artigiani di pace; da Assisi rinnoviamo con convinzione il nostro impegno ad esserlo, con l’aiuto di Dio, insieme a tutti gli uomini e donne di buona volontà.

Un inno alla leggerezza: Lettera sul fanatismo. Un testo di Shaftesbury

lettera-sul-fanatismo_cover-1Tre motivi per leggerlo.

“Le opinioni più ridicole, le mode più assurde possono essere dissipate soltanto con la dote dell’irriverenza e da un pensiero meno serio e più lieve.” Ashley-Cooper, conte di Shaftesbury). Prezioso questo libretto pubblicato da Chiarelettere. Un classico del pensiero del ‘700. In tempi segnati da fanatismo e integralismo ci farà bene la lettura di questo libretto- Perché è una lettera illuminante scritta da un filosofo più di tre secoli fa e ancora oggi essenziale. Perché è un manifesto contro la malinconia e l’eccesso di serietà. Perché è un inno alla leggerezza che è l’anticamera della libertà.

L’AUTORE (DA WIKIPEDIA)

Shaftesbury nasce a Londra, nipote di Anthony Ashley-Cooper, I conte di Shaftesbury e figlio del secondo Conte. Sua madre è Lady Dorothy Manners, figlia di John, Conte diRutland. Secondo il racconto del III Conte, il matrimonio tra i genitori di Shaftesbury venne combinato grazie all’intercessione di John Locke, fidato amico del I Conte. Il padre di Shaftesbury pare fosse debilitato sia dal punto di vista fisico che psichico, tanto che, all’età di tre anni, il figlio è posto sotto la tutela del I Conte, il nonno. Locke, presente nella casa del Conte grazie alle sue conoscenze mediche, ha già assistito alla nascita del piccolo Shaftesbury, ed è a lui che gliene viene affidata l’educazione, che la condusse sulla base dei principî enunciati nel proprio scritto Pensieri sull’educazione (pubblicato nel 1693); il metodo di insegnamento del latino e greco antico tramite la conversazione fu portato avanti con successo dalla sua istruttrice, Elizabeth Birch, tanto che all’età di undici anni si dice il piccolo Shaftesbury fosse in grado di leggere scorrevolmente entrambe le lingue.

Nel novembre del 1683, alcuni mesi dopo la morte del I Conte, il padre inviò Shaftesbury al College di Winchester, dove trascorse un periodo infelice, a causa del suo carattere timido e perché schernito a causa del nonno. Lasciò Winchester nel 1686, per una serie di viaggi all’estero, che gli permisero di entrare in contatto con associazioni di artisti e classicisti, che ebbero una forte influenza sui suoi carattere e opinioni. Durante i suoi viaggi sembra non cercasse il dialogo con altri giovani inglesi quanto piuttosto coi loro tutori, con cui poteva conversare su tematiche a lui più congeniali.

Nel 1689, l’anno successivo alla Gloriosa Rivoluzione, Shaftesbury tornò in Inghilterra, e sembra che abbia trascorso i successivi cinque anni dedicandosi a una tranquilla vita di studio. Non c’è dubbio che la maggior parte della sua attenzione era rivolta all’analisi degli autori classici, nel tentativo di comprendere il vero spirito dell’antichità classica. Non era sua intenzione, tuttavia, trasformarsi in un “recluso”. Divenne candidato parlamentare nel villaggio di Poole, ottenendo l’elezione il 21 maggio 1695. Si distinse tra l’altro per un intervento in favore della legge per la regolamentazione delle controversie in caso di tradimento, in particolare per quella norma che doveva assicurare agli accusati di tradimento, o di mancata denuncia di un tradimento, l’assistenza di un avvocato. Nonostante appartenesse ai Whig, Shaftesbury fu sempre pronto a supportare le proposte della parte avversaria, se queste gli sembravano promuovere la libertà dei sudditi e l’indipendenza del parlamento. La salute debole lo costrinse a ritirarsi dal parlamento nel 1698. Soffriva d’asma, disturbo aggravato dall’atmosfera inquinata di Londra.

Shaftesbury si ritirò quindi nei Paesi Bassi, dove entrò in contatto con Jean LeclercPierre BayleBenjamin Furly (il mercante inglese quacchero, che aveva ospitato Locke durante la sua permanenza a Rotterdam) e probabilmente con Limborch e il resto del circolo letterario che una diecina di anni prima aveva avuto Locke come suo membro onorato. Probabilmente questo era un ambiente sociale ben più congeniale a Shaftesbury che non quello inglese. In questo periodo erano i Paesi Bassi la nazione dove si potevano tenere, con la maggior libertà e il minor rischio che non nel resto d’Europa, confronti sugli argomenti che più interessavano a Shaftesbury (filosofiapoliticamorale,religione). Sembra si debba riferire a questo periodo la pubblicazione clandestina, in patria, in un’edizione incompleta della Ricerca sulla virtù e il merito, ricavata da una bozza che Shaftesbury aveva schizzato all’età di vent’anni; pubblicazione dovuta a John Toland.

Dopo oltre un anno, Shaftesbury tornò infine in Inghilterra, e dopo poco succedette al padre come Conte. Partecipò attivamente, a fianco dei Whig, alle elezioni generali del bienno 1700-1791, e ancora, ma con minor successo, a quelle dell’autunno 1701. Si dice che in quest’ultima occasione Guglielmo III espresse il suo apprezzamento per i servizî di Shaftesbury, offrendogli la carica di segretario di Stato, che tuttavia Shaftesbury rifiutò, a causa del progressivo deteriorarsi delle condizioni di salute. Se il Re fosse vissuto più a lungo, probabilmente l’influenza di Shaftesbury a corte sarebbe stata maggiore. Dopo le prime due settimane di regno della regina Anna, Shaftesbury, privato del suo titolo di vice-ammiraglio di Dorset, tornò alla propria vita ritirata, anche se da alcune sue lettere si evince che mantenne un forte interesse per la politica.

Nell’agosto del 1703 si stabilì nuovamente nei Paesi Bassi, nel cui clima sembrava avere, al pari di Locke, grande fiducia. Tornò in Inghilterra nel 1704, fortemente provato nella salute. Nonostante il soggiorno all’estero gli avesse prodotto, sull’immediato, dei benefici, la malattia progredì inesorabilmente fino a diventare cronica. Shaftesbury ridusse quindi le sue attività a mantenere la corrispondenza e a scrivere, completando e rivedendo, i trattati in seguito raccolti nelle Caratteristiche di uomini, maniere, opinioni, tempi. Continuò tuttavia ad avere un grande interesse per la politica, sia interna che estera, in particolar modo per la guerra contro la Francia, guerra che sostenne in maniera entusiasta.

All’età di quasi quarant’anni si sposò, e anche in questo caso sembra che si decidesse al passo dietro le insistenti richieste dei suoi amici, principalmente per garantire un successore al suo titolo. Oggetto della sua scelta (o, meglio, della sua seconda scelta, in quanto un primo progetto di matrimonio era già fallito in breve tempo) fu Jane Ewer, la figlia di un gentiluomo di Hertfordshire. Il matrimonio ebbe luogo nell’autunno del 1709, e il 9 febbraio dell’anno successivo l’unico figlio di Shaftesbury nacque a Reigate, nelSurrey; è ai suoi manoscritti che dobbiamo molti dettagli sulla vita di Shaftesbury stesso. L’unione sembrò felice, anche se Shaftesbury si sentiva troppo coinvolto dalla sua vita matrimoniale.

Se si esclude, nel 1698 la prefazione a uno scritto di Whichcote (esponente della scuola di Cambridge), Shaftesbury non pubblicò nulla di proprio sino al 1708. A quel tempo iCamisardi francesi attiravano l’attenzione grazie alle loro folli stravaganze, rispetto alle quali erano stati proposte diverse misure repressive, ma Shaftesbury affermò che non c’era nulla di meglio per combattere il fanatismo, se non la presa in giro e il buon umore. A sostegno di questa sua visione, scrisse Lettera sull’entusiasmo, datata al settembre1707, che venne pubblicata in forma anonima l’anno seguente, provocando numerose risposte. Nel maggio del 1709 tornò sull’argomento dando alle stampe un’ulteriore lettera, titolata Sensus communis, e nello stesso anno pubblicò anche Il moralista, seguito l’anno successivo dal Soliloquio o consiglio a un autore. Pare che nessuno di questi titoli sia stato pubblicato col suo nome o con le sue iniziali. Nel 1711 comparvero i tre volumi delle Caratteristiche di uomini, maniere, opinioni, tempi, anch’esse in forma anonima e prive persino del nome dello stampatore. Questi volumi contenevano, oltre ai quattro trattati già citati, le inedite Riflessioni miscellanee e la Ricerca sulla virtù e il merito, che si segnalava esser già stata pubblicata in forma imperfetta, ora corretta e intera.

A causa dell’aggravarsi della malattia, Shaftesbury fu costretto alla ricerca di un clima più caldo; nel luglio del 1711 partì per l’Italia. A novembre si stabilì a Napoli, dove visse per più di un anno. La sua principale occupazione, in questo periodo, sembra sia consistita nella preparazione di una seconda edizione delle Caratteristiche, che fu pubblicata nel1713, poco dopo la morte. La copia, minuziosamente corretta di suo pugno, è attualmente conservata nel British Museum. Durante il soggiorno a Napoli fu impegnato anche nella stesura di brevi saggi (poi inclusi nelle Caratteristiche), e all’abbozzo di Plastica, o l’origine, il progresso e la potenza delle arti del disegno, che però era appena iniziato quando sopraggiunse la morte (venne pubblicato comunque nel 1914, col titolo Caratteristiche seconde o il linguaggio delle forme).

Gli eventi che precedettero il Trattato di Utrecht, che Shaftesbury vedeva come un segnale dell’abbandono dell’Inghilterra da parte dei suoi alleati, lo preoccupò particolarmente durante gli ultimi mesi di vita. Non visse comunque sino a vederne la ratifica (che avvenne il 31 maggio 1713), in quanto morì il mese precedente, il 4 febbraio 1713. Il suo corpo fu riportato in Inghilterra e sepolto nella residenza di famiglia nel Dorsetshire. Il suo unico figlio gli successe come IV Conte, mentre il suo pronipote, VII Conte, divenne un famoso filantropo.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo stralci dell’introduzione del curatore del volume David Bidussa

“Una nuova prospettiva”

Nel Settecento per dire «fanatismo» si diceva «entusiasmo». Il primo a distinguere tra le due parole è Voltaire nel suo Dizionario filosofico. Fanatismo, scrive, è una degenerazione della superstizione. Diverso l’entusiasmo, che «è il frutto della religiosità male intesa», in cui la ragione può essere sopraffatta. Non diversamente Hume: la superstizione è figlia della supremazia del clero, della paura e del panico; l’entusiasmo è quella condizione di spirito, altrettanto fondata sull’intolleranza, ma effetto della liberazione dell’individuo dai poteri forti, soprattutto dal clero. In questo senso, a differenza della superstizione, l’entusiasmo sarebbe amico della libertà civile. Entrambi si nutrono direttamente di ciò che all’inizio del Settecento aveva scritto Shaftesbury nella sua Letter concerning Enthusiasm, che in questa edizione abbiamo scelto di tradurre come Lettera sul fanatismo per il doppio significato che la parola «entusiasmo» contiene nell’opera: fanatismo, appunto, da un lato; resistenza a una condizione di sopruso dall’altro. Un tipo di resistenza che nasce da una visione della politica la cui finalità è quella di «salvare le anime» e il cui portatore si sente in «missione per conto di Dio, in nome di un bene da raggiungere». «Salvare anime – scrive Shaftesbury – è diventata ormai la passione eroica degli spiriti esaltati e, in qualche modo, la principale preoccupazione del magistrato e il vero e proprio fine del governo.» È questa la matrice degenerativa di qualsiasi forma di credo, in religione come in politica.

“Prima della violenza”

Shaftesbury ci spiega che la scelta intransigente che all’inizio del Settecento fonda le correnti del fanatismo religioso, non nasce né è la conseguenza di un pensiero religioso, ma è data dalla rivolta contro un sistema che si ritiene «falso», che promette un «bene falso» e contro il quale non può esserci né tregua né pietà. È la rivolta di coloro che si sentono depositari della verità, testimoni di Dio, e che perciò non pensano che il perdono né la comprensione siano una via di riconciliazione in grado di redimere e «salvare» i reprobi. Ma è anche una rivolta di coloro che scoprono la verità della parola di Dio come arma contro la corruzione, come via per la salvezza. Un modello di comportamento fondato sulla rinuncia e che legge la rinuncia come virtù La violenza non necessariamente è inclusa in questo paradigma. La premessa necessaria infatti più che nella violenza consiste nella natura intransigente e radicale della scelta nei confronti del modello di società (e dei suoi valori) da cui si dichiara di voler fuoriuscire. Su questa caratteristica dobbiamo fissare la nostra attenzione. Questa scelta non è solo contrassegnata dall’orgoglio (che certamente c’è ed è rilevante) ma comunica anche la domanda di dignità che chi si rivolta esprime nei confronti di una società che considera corrotta. L’intransigente presenta se stesso come appartenente a un mondo di liberati, soprattutto di non sottomessi. Questa scena e questa scelta non si sono verificate per la prima volta nelle periferie di Europa, in una delle tante banlieues della rabbia. Esprimono una storia e un sentimento che prima degli ultimi anni hanno avuto almeno altre due occasioni di manifestazione: all’inizio degli anni Ottanta e vent’anni dopo. Nel primo caso la meta era l’Afghanistan, vent’anni dopo l’Iraq. Oggi il fenomeno è numericamente più consistente ma non toglie che risponda anche a una crisi complessiva appunto di promesse non mantenute, al crollo del mito emancipativo in Occidente. Tuttavia questa scena si è svolta in un luogo già definito e compiuto molto tempo fa. Questa storia ci riguarda direttamente.

La scena è un palazzo vescovile; il tempo circa otto secoli fa; il luogo è Assisi. Un giovane benestante decide che la qualità di vita che la sua famiglia gli offre non è fatta per lui, non è quella che desidera. Non solo la rifiuta, ma la ritiene contraria ai principi cui attenersi. Il segno del tradimento. Perciò decide di assumerne un’altra. Per rendere radicale la sua scelta fa un gesto pubblico e plateale in modo da rendere impossibile la revoca. Non vuole essere né solitario né unico, tant’è che chiede che anche altri facciano lo stesso gesto e si uniscano a lui. L’entusiasmo, l’intransigenza, la radicalizzazione non sempre hanno parlato la lingua del darsi e dare morte. Non sempre hanno seguito la strada della violenza e del sangue, ma hanno sempre usato il vocabolario dell’irriducibilità della scelta e dell’impossibilità di mediazione. Tutto questo è la premessa che può tramutarsi nella cultura del dare e darsi morte oppure in quella del rifiuto radicale. Comunque sia, nel suo lessico non è prevista la possibilità di revoca e dunque di compromesso. Anche per questo, inaspettatamente, ma non impropriamente, la storia dell’entusiasmo e le parole di Shaftesbury ci riguardano e, soprattutto, più che a noi, parlano di noi. E delle nostre icone.

Shaftesbury, LETTERA SUL FANATISMO. Introduzione di David Bidussa, Edizioni Chiarelettere Milano 2016, 8 euro.