SILENZI DI STATO. Storie di trasparenza negata ai cittadini

COPSilenzi.inddVogliamo assumerci la piena responsabilità dei nostri errori e auspichiamo che voi li indichiate quando manchiamo noi di farlo. Senza dibattito, senza critica, nessuna amministrazione e nessun paese può avere successo come nessuna repubblica può sopravvivere.”

John Fitzgerald Kennedy

In caso di dubbio, la trasparenza deve sempre prevalere. L’amministrazione non dovrebbe mantenere informazioni riservate solo perché i funzionari pubblici potrebbero essere messi in imbarazzo dalla loro pubblicazione.”

Barack Obama

IL LIBRO

Dieci casi esemplari di trasparenza negata. Uno più stupefacente e vergognoso dell’altro… Un reportage che aiuta a capire quanto la battaglia per una trasparenza vera e non solo formale non sia stata ancora vinta. Anzi…” (Dalla prefazione di Gian Antonio Stella)

Quanto ha speso il sindaco in viaggi e con chi è andato a cena? Quanto è sicura la mia scuola? Quanto è inquinata l’aria del mio quartiere? Come sono fatte le graduatorie dei concorsi pubblici? L’amianto uccide ancora, ma dove? Quanti sono i “derivati” acquistati dal ministero e dalle amministrazioni?

Tutte informazioni non coperte dal segreto di Stato, ma il cui accesso, fino a oggi, è stato negato a cittadini, associazioni e giornalisti. A dispetto delle sbandierate riforme sulla trasparenza e delle promesse elettorali. Un atteggiamento che, oltre a essere ingiusto, è dannoso perché il prezzo che gli italiani pagano in vite umane e in reddito pro capite è altissimo.

Finalmente ora la situazione dovrebbe cambiare perché è stato varato anche da noi, dopo anni di pressioni e di lotte, il Freedom of Information Act (Foia), cioè una legge che consente libero accesso ai documenti pubblici. Un ritardo grave rispetto agli altri paesi europei, che ha alimentato la sfiducia nelle istituzioni ed è stato causa di inefficienze e corruzione. Certamente l’applicazione della legge non sarà facile anche perché, come dimostra questo libro, i cassetti dello Stato sono sempre stati tenuti rigorosamente chiusi.

Le battaglie qui raccontate non hanno tutte un lieto fine ma rappresentano il segnale che la democrazia può essere praticata a partire dal basso e che la palude burocratica può essere combattuta.

GLI AUTORI

Ernesto Belisario, avvocato, si occupa di diritto amministrativo, accesso all’informazione e diritto delle tecnologie, ed è autore dei libri “La nuova Pubblica Amministrazione digitale” e “Diritto tra le nuvole: profili giuridici del cloud computing”. È docente in numerosi corsi e master sui temi della digitalizzazione e della trasparenza e collabora con CheFuturo, IlFattoQuotidiano.it e Agendadigitale.eu.

Su Twitter è @diritto2punto0

Guido Romeo, giornalista, scrive di innovazione per “Il Sole 24 Ore” e “Vogue”, ed è stato caposervizio per il data-journalism e l’economia a “Wired”. È cofondatore di Diritto Di Sapere, la prima ong italiana dedicata all’espansione e alla difesa del diritto di accesso all’informazione.

Su Twitter è @guidoromeo

Entrambi gli autori hanno promosso la campagna Foia4Italy (www.foia4italy.it) per l’approvazione della legge sulla trasparenza e l’accesso all’informazione.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la Prefazione di Gian Antonio Stella

Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico. (Max Weber)

Tryckfrihetsförordningen è impronunciabile? Provate con «l’art. 2, commi da 36-terdecies a 36-duodevicies, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito…». Qual è la differenza? Chi parla lo svedese la parola Tryckfrihetsförordningen la capisce benissimo: è il diritto alla libertà di stampa e alla trasparenza. Chi parla l’italiano davanti ai nostri codicilli stramazza: quel linguaggio iniziatico è una barriera che impedisce l’accesso. Come diceva tre secoli fa Ludovico Muratori: «Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare». È passato un quarto di millennio da quando la Svezia approvò quelle norme che per prime diedero ai cittadini l’accesso ai documenti riguardanti la vita pubblica. Mancavano tre anni alla nascita di Napoleone, dieci alla Dichiarazione d’indipendenza americana, ventitré alla presa della Bastiglia e alla Rivoluzione francese. Eppure duecentocinquant’anni dopo, come dimostrano Ernesto Belisario e Guido Romeo in Silenzi di Stato, l’Italia fatica a adottare alcuni principi di trasparenza consolidati da decenni in tutti quei paesi che credono nelle ragioni di John F. Kennedy. E cioè che «come disse un saggio: “un errore non diventa madornale finché non rifiuti di correggerlo”» e che proprio la denuncia degli errori può aiutare chi comanda a governare meglio. «Senza dibattito, senza critica, nessuna amministrazione e nessun paese può avere successo come nessuna Repubblica può sopravvivere.» Ne abbiamo viste di tutti i colori in questi anni. Perfino dopo il decreto legislativo 33 del 2013 (il «decreto trasparenza» voluto da Mario Monti) che ordina alle amministrazioni di mettere a disposizione dei cittadini (salvo rare eccezioni) una quantità senza precedenti di documenti e informazioni in loro possesso nell’intento di favorire «un controllo diffuso da parte del cittadino sull’operato delle istituzioni e sull’utilizzo delle risorse pubbliche». Se «l’occhio del padrone ingrassa il cavallo», l’occhio del cittadino può sgrassare il bilancio più obeso. E scorgere storture, clientelismi, sprechi, privilegi, reati e malversazioni altrimenti invisibili. Abbiamo visto la Calabria negli anni del governatore Giuseppe Scopelliti pubblicare sul Bollettino ufficiale della Regione decine e decine di delibere di spesa con i nomi degli oscuri destinatari dei soldi per questo o quell’incarico coperti da ancora più oscuri omissis. Come nel caso della concessione del vitalizio, che solo successivamente sarebbe stato revocato, a Mimmo Crea, per anni consigliere e assessore regionale, condannato in via definitiva a sette anni di carcere per l’«onorata sanità». «Il dirigente delle risorse umane – diceva l’incredibile delibera – determina, per quanto in premessa evidenziato, che qui si intende integralmente riportato e accolto: di liquidare all’on. omissis l’assegno mensile dell’importo di euro 6647,67 al lordo delle ritenute di legge, a titolo di vitalizio maturato per il mandato di consigliere regionale.» Abbiamo letto, a dimostrazione di come il problema riguardi tutto il paese da Lampedusa a Vipiteno, interviste come quella del capogruppo regionale dell’unione per il trentino, Giorgio Lunelli, che per giustificare il rifiuto di rendere pubbliche le ricevute per le quali chiedeva i rimborsi disse: «Io sono per la massima trasparenza ma dobbiamo stare attenti all’eccesso di trasparenza, che può mettere in difficoltà chi svolge attività politica. Se io ho un incontro riservato e vado a pranzo con una persona può rappresentare un problema dover pubblicare la spesa con il nome della persona con cui sono andato a pranzo». Stupefacente. È l’esatto motivo per cui nei paesi seri è obbligatorio denunciare tutto ma proprio tutto. Scrive divertita Caterina Soffici in Italia yes Italia no, dove ci mette a confronto con l’Inghilterra: «Perfino Buckingham Palace è trasparente. La regina pubblica ogni anno un rapporto di oltre cento pagine con il rendiconto di tutte le spese della monarchia, comprese le più piccole, come la sostituzione di un vetro o di un water nella tenuta di Balmoral. Ci sono gli stipendi dello staff, i costi e i consumi volumetrici di gas, elettricità, combustibile per scaldare le residenze reali. Anche ogni volo o treno preso dalla regina, dal suo staff e dai membri della famiglia reale per viaggi dentro e fuori dall’isola è rendicontato nel dettaglio».i In certi casi, aggiunge, si rasenta il ridicolo come in «quello di tal Sir Campbell: ha registrato un pagamento di 15 sterline per un discorso tenuto il 18 agosto 2010 al Probus Club di Auchtermuchty. L’importo del gettone di presenza, si specifica, è stato donato in beneficenza». tutti candidi come angioletti? Il conto a Panama di David Cameron, per fare un esempio, dice che non è così. I furbi fanno i furbi anche là. Sanno però di rischiare molto di più. La trasparenza ha imposto allo stesso Cameron, infatti, di scrivere nella sua scheda di aver ricevuto in dono dal personal trainer Matt Roberts venticinque sedute di ginnastica che sarebbero costate 130 sterline l’una. Somma girata in beneficenza alla onlus suggerita dall’allenatore. Al di là dell’Atlantico funziona allo stesso modo. Dice tutto il caso dell’ex segretario al tesoro americano Henry Paulson, costretto nel 2009 a dimettersi per aver fatto delle telefonate (vietatissime perché lì il conflitto di interessi è una cosa seria) alla Goldman Sachs, l’azienda della quale in precedenza era stato il numero uno. Vi chiederete: e come fu scoperto? Sulla base del Freedom of Information Act, la legge sulla libertà d’informazione, il «New York times» aveva chiesto l’elenco di tutte le chiamate fatte dall’ufficio dell’allora potentissimo segretario. Le aveva esaminate una a una et voilà: smascherato. E qualcosa di simile era già successo ad Al Gore, beccato e messo alla gogna dagli avversari per aver negato di aver fatto dal suo ufficio un po’ di telefonate elettorali quando correva contro George W. Bush: non si fa. Questa è la trasparenza. Che non può essere concessa a capriccio, un po’ sì e un po’ no, in dosi omeopatiche. o c’è o non c’è. Da noi, invece, i trinariciuti guardiani della riservatezza sono andati avanti per anni a invocare la privacy. L’hanno invocata in Sicilia, quando opposizioni e giornali diedero battaglia per avere la lista dei 397 giovani assunti senza concorso in certe municipalizzate e società miste palermitane: «C’è la privacy, quei nomi non li possiamo dare» spiegava il vicesindaco Giampiero Cannella, braccio destro di Diego Cammarata. «Io li renderei pubblici, ma si rischia la gogna mediatica, un clima da unione Sovietica, mi sembra una violenza ingiusta verso chi era disoccupato e ora ha finalmente un posto di lavoro.» Il difensore civico Antonino tito, invitato a dire la sua, sospirò: «Non ho il potere di fare questa richiesta». Finché saltò fuori che tra i fortunati assunti, per pura coincidenza, c’erano anche i suoi figli Giuseppe e tania. Hanno invocato la privacy a tolentino, nelle Marche, dove i dirigenti della municipalizzata Assm Spa si sono sì rassegnati a mettere on line, come dice la legge, le loro retribuzioni, ma erano convinti che nessuno se ne sarebbe accorto. Così, quando una rivista locale distribuita ogni mese in ottomila famiglie, «Mpn» («Multiradio Press News»), ha osato pubblicare le cifre «per permettere anche a chi non ha tempo o dimestichezza coi mezzi informatici di leggere i dettagli delle varie spese», hanno fatto il finimondo. «La condotta da voi tenuta con la pubblicazione del periodico “Press News” – si leggeva in una lettera alla rivista che minacciava sfracelli – è assolutamente contraria alla normativa vigente in materia di protezione e riutilizzo dei dati personali e, più in generale, ai principi di diligenza e buona fede. La censura si basa sulla totale assenza di una preventiva richiesta scritta per il riutilizzo dei dati personali pubblicati nel sito web di Assm Spa e dell’estratto della delibera del consiglio di amministrazione.» Infatti, proseguivano gli avvocati, «l’obbligo previsto dalla normativa in materia di trasparenza on line della Pa di pubblicare dati in “formato aperto” non comporta che tali dati siano anche “dati aperti”, cioè liberamente utilizzabili da chiunque per qualunque scopo». Hanno invocato la privacy nel maggio del 2014 in Sardegna per non consegnare ad Anthony Muroni, il direttore de «L’unione Sarda» che lo chiedeva da settimane, l’elenco dei consiglieri regionali appena decaduti ma già in pensione. Elenco indispensabile dopo la scoperta che la presidente del consiglio uscente Claudia Lombardo, perso il seggio, era già in pensione a quarantun anni con 5100 euro netti al mese pur essendo più giovane di Nicole Kidman o Cameron Diaz. E l’hanno invocata nelle regioni autonome del Nord. Come in Friuli-Venezia Giulia dove la governatrice Debora Serracchiani sbalordì i partecipanti a un convegno raccontando di avere un «problemino» coi dirigenti dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari: «Ho chiesto: dato che la Regione è l’unico azionista dell’aeroporto, posso sapere che stipendi avete? Spiacenti, mi hanno risposto, c’è la privacy!». E anche dopo essersi rassegnati a mettere on line le buste dei sergenti, dei caporali e dei soldati semplici, i vertici aeroportuali si sono rifiutati di rivelare lo stipendio del più pagato di tutti, il direttore generale. Nota nella casella: «Compenso deliberato: dati non trasmessi». Perché? Perché trattandosi comunque di una Spa, pur avendo un unico azionista… l’Avvocatura dello Stato dice che anche gli stipendi più alti devono essere pubblici? Loro, i vertici, dissentono. Quanto al trentino-Alto Adige, le autorità locali hanno avuto per la trasparenza (non è mai stata data la lista neppure di chi ha la tessera gratis dell’autostrada del Brennero, totalmente pubblica) una vera allergia. ogni volta che scoppiava uno scandalo per le retribuzioni stratosferiche (si pensi che l’assessore provinciale alla Sanità sudtirolese, Richard theiner, nel 2008 prendeva 22.900 euro e cioè 6600 più di ursula Schmidt, ministro della Sanità in Germania) o per i trattamenti pensionistici, si alzavano barricate. Privacy! Privacy! un alibi penoso: il garante per la privacy ha infatti chiarito da anni che la legge 675/96 sulla tutela dei dati sensibili e in seguito il «codice privacy» non hanno «inciso in modo restrittivo sulla normativa posta a salvaguardia della trasparenza amministrativa». Pertanto «la disciplina sulla tutela dei dati personali non può essere in quanto tale invocata strumentalmente per negare l’accesso ai documenti». In testa ai guardiani della privacy sempre lui: Franz Pahl, un «duro e puro» autonomista, prima presidente del consiglio provinciale e poi dell’Associazione ex consiglieri del trentino-Alto Adige. Così roccioso nella difesa dei segreti e dei privilegi che quando i neopensionati che avevano esagerato furono chiamati a rendere, nel 2014, una parte dei mega anticipi sui vitalizi (calcolati come se tutti dovessero vivere ottantacinque anni!) rispose: «Non restituisco neanche un euro!». Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. Napoletan-tirolese. Per farla corta, a duecentocinquant’anni dalla prima legge mondiale sulla trasparenza, migliaia di burocrati italiani, arroccati nei palazzi del potere centrale e in quelli del potere periferico, sembrano in trincea con l’elmetto e la baionetta a difendere l’indifendibile: la segretezza dei dati. Scriveva Max Weber: «ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Di più: «Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico». È passato un secolo. Siamo sempre inchiodati lì. Ernesto Belisario e Guido Romeo, in questo libro, raccontano dieci casi esemplari di trasparenza negata. uno più stupefacente e vergognoso dell’altro. Dalle cortine fumogene sollevate sui soldi della politica a quelle che impediscono ai cittadini di saperne di più sugli edifici scolastici a rischio, sui centri di accoglienza per i profughi troppo spesso in mano a furbetti e delinquenti, sui siti che ancora traboccano di amianto assassino… un reportage che aiuta a capire quanto la battaglia per una trasparenza vera e non solo formale non sia stata ancora vinta. Anzi…

i Caterina Soffici, Italia yes Italia no: che cosa capisci del nostro paese quando vai a vivere a Londra, Feltrinelli, Milano 2014.

Ernesto Belisario e Guido Romeo, SILENZI DI STATO. Storie di trasparenza negata e di cittadini che non si arrendono, (Prefazione di Gian Antonio Stella), Ed.Chiarelettere, Milano 2016. Pagg. 192, 14 euro