“Giustizia, giustizia perseguirai…” (Devarìm XVI, 20). Intervista ad Haim Baharier

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Foto da www.businesspeople.it

E’ da pochi giorni finita la festa ebraica dello Yom Kippur, il giorno dell’Espiazione, è la festività più sacra del calendario ebraico. La giornata è dedicata all’espiazione spirituale, e al proposito di iniziare l’anno nuovo con una coscienza limpida. Ed è in questo spirito che abbiamo pensato di intervistare Haim Baharier, grande esegeta della Torah ed esponente della Comunità Ebraica di Milano, sulla crisi che sta vivendo l’Occidente. Ci offre l’opportunità di conoscere uno sguardo ebraico (spirituale e culturale) sul mondo contemporaneo. Baharier è nato a Parigi da genitori ebrei di origine polacca, entrambi passati attraverso l’orrore di Auschwitz, Haim Baharier è stato allievo di Emmanuel Lévinas, uno dei maggiori fi losofi del Novecento, e di Léon Askenazi, il padre della rinascita del pensiero ebraico in Francia. Matematico e psicoanalista, ma anche consulente aziendale, tiene da molti anni esclusive e memorabili lezioni di ermeneutica ed esegesi biblica. Ha pubblicato diversi volumi, tra cui La Genesi spiegata da mia figlia (Edizioni Garzanti, Milano 2015).

Dottor Baharier, lei è ermeneuta (o esegeta) della Torah. Prima di arrivare ad essere un interprete autorevole della Bibbia la sua vita ha conosciuto svolte importanti. Quali sono state, in sintesi, le tappe significative della sua vita. Come è arrivato all’Esegesi Biblica, lei che è un matematico e psicanalista?

Forse non sono stato io ad andare verso l’Esegesi Biblica e il pensiero d’Israel, sono arrivati da me a Parigi quando avevo 4 anni personificati da un precettore che mi pareva Matusalemme, sonnacchioso e tormentato dalla psoriasi. Il primo incontro ravvicinato non è stato d’innamoramento. Ma succede proprio così, non ci pensi, ci pensi un po’, ci pensi un po’ di più e non ne puoi più fare a meno. La svolta decisiva è poi avvenuta con l’incontro con Léon Askenazi e Emmanuel Lévinas, fautori del rinnovo degli studi ebraici in Francia. Per me la filosofia, la matematica e il pensiero d’Israel sono un tutto articolato.

Nel suo libro autobiografico, La Valigia quasi vuota, parla, tra l’altro, di due persone importanti per la sua vita: suo padre e Monsieur Chouchani. Quest’ultimo è una figura misteriosa, un clochard, un uomo di cultura immensa, che è stato il maestro di Emanuel Lévinas. Lei lo ha definito come un “grande enigma” della cultura del ‘900. Chi era quest’uomo che ha attraversato la sua giovinezza? Qual è stato l’insegnamento di questo maestro?


Peccherei nei confronti di Monsieur Chouchani anche se solo tentassi di imprigionarlo in quaranta o in quattrocento mila righe. Questa frase è per tranquillizzare i fabbricanti di miti e leggende.

Ora diventiamo seri. Monsieur Chouchani è stato il clown messianico dell’immediato dopo Shoa.

Suonava l’intelligenza, la cultura e il sapere, da virtuoso. Così era impossibile non notarlo, non guardarlo. E che cosa vedevi? Un vero e proprio clochard, dico un esemplare perfetto del claudicante, l’Occidente del dopo Shoa che deve interrogarsi, ebrei compresi, sul mostro partorito dall’Occidente stesso, per poter riavviarsi.

Lei è figlio di un sopravvissuto al campo di sterminio nazista di Auschwitz. La Shoah è il buco nero della storia del Novecento. Elie Wiesel, che lei ha conosciuto, parlava di Auschwitz come il tempo del “silenzio di Dio”. Anche un altro intellettuale di origine ebraica, il filosofo tedesco Hans Jonas, afferma che Auschwitz mette in discussione il concetto di Dio. L‘assenza, la non-onnipotenza, l’esilio, il dolore di Dio sono stati spesso richiamati dalla teologia post-Auschwitz, primo tra tutti da Jonas, che riprende quindi il concetto di Tzimtzùm accogliendone lo sforzo di spiegare in maniera non punitiva, non di onnipotenza il silenzio di Dio di fronte alla sofferenza dell’innocente. Qual è la sua riflessione sulla Shoah?


Sono figlio di due sopravvissuti, non è una precisazione ma un dovere…

Elie Wiesel, un amico di famiglia, sapeva che l’espressione da lui coniata per Auschwitz, “il silenzio di Dio”, non mi convinceva. Il silenzio di Dio nella tradizione cabalista è un modo borghese di parlare dell’assenza di Dio. Secondo la loro lettura del testo della Genesi, il Creatore si è dato alla fuga, rifugiandosi nel suo Shàbbat, non avendo nemmeno ultimato il lavoro e lasciando sommarie istruzioni per l’uso e per il perfezionamento. Non dunque il silenzio di Dio, ma la sua assenza. La Shoa è stata resa possibile dal silenzio connivente e quindi dalla complicità di tutto l’Occidente.

Non se ne può più di sentire ancora oggi “non sapevamo”. A mio parere, ad Auschwitz il silenzio colpevole, assordante è stato quello degli uomini che ha soffocato la voce flebile del grande Assente.

Questo passaggio sulla Shoah ci porta dritti al tema della giustizia. Nella Torah è scritto: “giustizia, solo giustizia , perseguirai”. Questo imperativo biblico è uno
dei pilastri dell’ebraismo. Come si declina, dal punto di vista dell’ebraismo, oggi questa parola?


Incombe una precisazione, il testo dice “giustizia, giustizia perseguirai”. Questa ridondanza, secondo alcuni commentatori, inventa il coinvolgimento degli utenti della giustizia. E’doveroso assumere la responsabilità di ricercare ciò che è giusto nella giustizia. Un’altra lettura in questa ridondanza vede l’invito a fare uso di mezzi giusti nelle indagini di giustizia. Sono esigenze che la cronaca evidenzia quotidianamente.


L’Occidente del XXI secolo è attraversato da una profonda crisi antropologica. L’identità europea, in tempi di euroscetticismo, è diventata “liquida”. Quale può essere il contributo dell’Ebraismo alla crisi dell’uomo europeo?

Chiediamoci innanzitutto se l’ebraismo stesso è immune da questa crisi. Forse l’identità è come il progresso che si sviluppa principalmente nel conflitto. Si intende il conflitto con l’ambiente, il conflitto dell’individuo con la società, il conflitto tra le società, e non per ultimo il conflitto con se stessi. Forse l’identità si chiarisce ogni volta nella tregua che sancisce il cammino percorso. Il contributo dell’identità Israel, il nome che io darei all’identità ebraica che ha come paradigma il progresso, potrebbe essere esplicitato in questo modo.

C’è una parola, nei suoi libri, che mi ha
colpito: claudicanza (un concetto che lei accennava prima). Non va intesa come difetto fisico, diventa quasi una categoria filosofica per definire l’essere umano . Rimanda, cioè, ad un pensiero più profondo. E’ così? Quali implicazioni porta la “claudicanza”?

Sì è proprio così. La claudicanza è la presa di coscienza di un rimpicciolimento, ma non di una diminuzione. Rimpicciolito, piccolo, farò meno fatica a concepire il luogo dell’altro, la possibilità di un altro. Interessante il percorso biblico che origina il tutto nella relazione tra il primogenito e il secondogenito. Il primo deve imparare a accogliere il secondo senza traumi, il secondo dovrebbe fare da formatore al primo rassicurandolo: ti giuro non ti rubo nulla!

Gli Ebrei si autodefiniscono come “Popolo del Libro”. In tempi di fondamentalismo, l’ermeneutica può essere l’antidoto ad ogni tipo di radicalismo. Per l’ebreo la Bibbia è essenzialmente Mikra, ciò che scaturisce dalla lettura. Come va letta la Torah?

In realtà, il Libro non è ancora uscito dalla stampa!

La lettura della Bibbia è l’illustrazione di un divenire,

giorno dopo giorno, anno dopo anno bisogna leggere o meglio, studiare il testo e i commenti che si sono succeduti nei secoli e che fanno parte del libro. Siccome i commenti sono spesso contradditori, questa lettura costituisce il miglior apprendimento della pluralità.

Mi sia concesso di aggiungere la spiegazione di un apparente paradosso. La tradizione ribadisce spesso l’univocità del testo biblico. Sciogliamo la contraddizione spiegando che per la tradizione ermeneutica l’univocità è la possibilità di ricondurre ogni interpretazione ad un Maestro. Nel nome della dignità di ciascuna lettura non vi deve essere una comunicazione anonima.

Cosa può dire all’uomo secolarizzato La Torah?

Staremo a vedere, staremo ad ascoltare ciò che dirà la Torah all’uomo secolarizzato che la prenderà in mano per leggerla senza pregiudizi e senza rivendicazioni.

Tirando le somme: cosa vuol dire, in profondità, essere ebrei oggi?

Potremmo dire molto. Mi accontento di un sentire nuovo, sentirmi Israel, e cioè nello stesso tempo diasporico, cittadino del Paese dove risiedo, e pienamente Israeliano.Al di là di ogni considerazione meramente politica, ritengo che lo Stato di Israele è dov’è, dove deve essere, in rappresentanza di tutto l’Occidente. Va aiutato, sicuramente non sanzionato. Siamo tutti lì.

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