“L’Italia ha ancora bisogno del riformismo di Renzi”. Intervista a Giorgio Tonini

Foto Roberto Monaldo / LaPresse20-11-2015 RomaPoliticaSenato - Legge StabilitàNella foto Giorgio ToniniPhoto Roberto Monaldo / LaPresse20-11-2015 Rome (Italy)Senate - Stability lawIn the photo Giorgio Tonini

Foto (Roberto Monaldo/LaPresse)

Sono giorni di grande fibrillazione per il PD. Dopo la sconfitta del 4 dicembre, la nascita del governo di “responsabilità” presieduto da Gentiloni , il Partito democratico si avvia verso una stagione congressuale assai complicata.  Oggi dal palco della convention “Italia prima di tutto” Roberto Speranza, uno dei leader della minoranza bersaniana, ha lanciato la sua candidatura, alternativa a quella di Renzi, alla segreteria del PD. Domani, sempre a Roma, si svolgerà l’Assemblea Nazionale del PD. In quell’occasione Matteo Renzi farà la sua proposta per lo svolgimento del Congresso. Di tutto questo parliamo, in questa intervista, con il senatore Giorgio Tonini, Presidente della Commissione Bilancio del Senato ed esponente della maggioranza renziana.

Senatore Tonini, partiamo ancora dal Referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Qual è stato l’errore fatale, oltre alla personalizzazione, che ha commesso Matteo Renzi? 

A me pare che il risultato del Referendum abbia messo in evidenza due limiti della nostra strategia politica. Per un verso, l’isolamento: eravamo partiti, dopo la rielezione di Napolitano, con uno schieramento politico-parlamentare che superava il 70 per cento, al punto che, durante il governo Letta, ci si era posti il problema di come tenere comunque il Referendum confermativo, anche nell’ipotesi, data quasi per certa, di superare il quorum dei due terzi, previsto dall’articolo 138. Quell’ipotesi è tuttavia tramontata molto rapidamente. Già nel periodo lettiano, abbiamo assistito all’immediato formarsi di un fronte contro la riforma, costituito dalla sinistra a sinistra del Pd e dal Movimento Cinquestelle, con l’appoggio dell’area intellettuale guidata da Rodotà e Zagrebelsky e da quella sociale che si andava organizzando attorno alla Cgil e in particolare alla Fiom di Landini. Ma nel giro di pochi mesi, abbiamo dovuto assistere anche al rapido riposizionamento della Lega e poi dello stesso Berlusconi, uscito dalla maggioranza di governo dopo il voto del 27 novembre 2013 sulla sua decadenza da senatore, per effetto della condanna definitiva per frode fiscale. Con un’abile manovra parlamentare, Letta era riuscito ad evitare la crisi del suo governo, grazie alla scissione di Alfano e alla nascita di Ncd, ma non quella della larga maggioranza per le riforme, che di fatto, alla fine del 2013, erano tornate nell’affollato archivio dei progetti impossibili. Fu Matteo Renzi, che nel frattempo aveva conquistato la leadership del Pd con le primarie dell’8 dicembre, che provò e in effetti riuscì a ricomporre la frattura con Berlusconi, grazie al Patto del Nazareno, stipulato il 18 gennaio 2014. Ma anche quel patto venne disdettato da Berlusconi, dopo l’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, il 3 febbraio 2015. Dico “dopo” e non “a causa” dell’elezione di Mattarella, perché ho sempre pensato che quello sia stato in larga misura un “casus belli”, utilizzato da Berlusconi per sottrarsi a un abbraccio, quello con Renzi, che stava diventando elettoralmente e politicamente soffocante. La morale di questa storia è a mio avviso chiara: in Italia è difficile, per non dire impossibile, fare riforme a larga maggioranza, perché le riforme richiedono tempi lunghi, mentre le larghe intese, nel nostro paese, a causa della debolezza dei partiti, hanno sempre e inevitabilmente vita breve. Francamente non saprei cosa rimproverare a Renzi su questo versante. Anche lui si è dimostrato abile nella tattica parlamentare e infatti la riforma è arrivata in porto con una larga maggioranza assoluta, anche se lontana dai due terzi. Ma poi, al referendum, ci siamo ritrovati soli, come la Francia di Napoleone contro la Santa Alleanza. Abbiamo aggregato attorno a noi più di 13 milioni di voti, gli stessi che aveva raccolto Veltroni nel 2008: tanti, tantissimi, ma del tutto insufficienti per vincere. 

Parlava di due limiti della strategia riformista di Renzi e del Pd. Qual è stato il secondo?

L’ennesima riproposizione del “riformismo dall’alto”, del riformismo “senza popolo”. Mi spiego meglio. Il risultato del Referendum, letto in chiave solo politica, ci consegna un’immagine apparentemente semplice, quasi scontata: un Pd rimasto solo coi suoi piccoli alleati di governo, che si ferma ad un perfino lusinghiero 40 per cento, contro tutti gli altri, che alla fine  mettono insieme “solo” il 60. Ma se guardiamo la composizione sociale, demografica e geografica del voto, quell’immagine si complica e di molto, perché il Sì prevale nelle aree forti del paese, quelle che guardano al futuro con un certo grado di fiducia e di speranza, mentre il No dilaga in quelle più deboli e sofferenti, tra le quali dominano la paura e la rabbia. Non credo che in questa frattura il contenuto della riforma abbia pesato, se non in minima parte: difficile credere che la differenza tra l’affermazione del Sì a Milano e il trionfo del No in Sicilia e Sardegna sia stata prodotta da come era scritto il nuovo articolo 70, dalla composizione del nuovo Senato, o dal “combinato disposto” con l’Italicum. La spiegazione di tale divario non può che essere molto più radicale e per noi ancor più dolorosa: se la parte più debole e dolente del paese ha votato No, è perché ha voluto bocciare il governo e la sua politica di riforme, istituzionali ma anche economiche e sociali. Ciò significa che il nostro riformismo non è riuscito a conquistare la fiducia del popolo e in particolare della parte di esso che, dal nostro punto di vista, più avrebbe dovuto beneficiare delle riforme: i giovani precari, i disoccupati, i meno garantiti in generale. E invece, abbiamo dovuto assistere al paradosso dei mandarini del Senato o del Cnel, “salvati” dai disoccupati del Sulcis. Come i Borboni difesi dai contadini di Sapri, che massacrarono i trecento, giovani e forti, reclutati da Carlo Pisacane. L’alleanza tra le plebi disperate e i conservatori, contro i riformisti, è un classico della storia d’Italia. Renzi ha sempre detto, giustamente, che la comunicazione è l’essenza della politica, che una buona politica non comunicata bene, semplicemente non è politica. E che contrapporre riforme e consenso è un non senso. Eravamo dunque consapevoli e avvertiti del rischio che correvamo, del riproporsi della frattura manzoniana tra buon senso e senso comune. Ma non siamo riusciti ad evitarlo. Da qui dobbiamo ripartire: dalla ricostruzione di un’alleanza riformista tra merito e bisogni, tra la maggioranza dei milanesi che ha condiviso la riforma, insieme ai nostri “cervelli in fuga” all’estero, e quella dei siciliani che, insieme alla generazione perduta dei 25-40enni condannati a una vita da precari, ha usato il No per esprimere la sua protesta e la sua rabbia. 

Giuseppe De Rita, tempo fa, parlava della visione morotea e andreottiana della politica. quella morotea era la politica come visione, quella andreottiana era la politica della somiglianza agli elettori. Su quale delle due si è mosso Renzi?

In effetti De Rita, in un’intervista molto interessante rilasciata qualche mese fa alla rivista “Pandora”, ha ricordato il dibattito che si aprì negli anni ’70, all’interno della Democrazia Cristiana, tra la visione “riformista” di Moro, secondo la quale la politica deve orientare i processi sociali, accompagnarli verso un fine, dare loro un orientamento, una direzione, e quella “realista” di Andreotti, per il quale compito della politica non è quello di orientare la società, ma solo di rassomigliarle, perché solo rassomigliandole si prendono i voti. Renzi, per carattere e per modo di fare politica, non è un “moroteo”, semmai un “fanfaniano”, non privo di tratti “andreottiani”, a cominciare dalla netta preferenza per il governo rispetto al partito. Ma se vogliamo utilizzare lo schema di De Rita, la battaglia di Renzi e del Pd per le riforme si è certamente ispirata alla ambiziosa e impegnativa visione di Moro ed è andata ad impattare contro l’eterno muro di gomma della cultura dell’adattamento, per decenni impersonata in Italia da Giulio Andreotti.

La valanga di No che ha sommerso la Riforma Boschi, come si sa, è stata, per molteplici fattori, un No a Matteo Renzi. La sensazione, che si percepisce nel Paese, è che Renzi e il “renzismo” siano da archiviare.  E’ sbagliata, secondo lei, questa affermazione?

Matteo Renzi è un grande combattente. La sconfitta lo ha certamente indebolito, ma la notizia della sua morte politica, avrebbe detto Mark Twain, “è fortemente esagerata”. Quanto al “renzismo”, non saprei dire esattamente cosa sia, se non la (ennesima) declinazione originale, proposta da un leader riformista, del riformismo stesso. L’Italia non ha mai conosciuto, in 70 anni di storia repubblicana, un ciclo riformista degno di questo nome. Ha conosciuto solo brevi stagioni riformiste: gli anni di De Gasperi e Vanoni, il primo centro-sinistra, alcuni aspetti della stagione della solidarietà nazionale o del governo Craxi, il primo governo Prodi e certamente il governo Renzi. Tutti tentativi bruscamente e talvolta brutalmente interrotti. Di solito dal comparire sulla scena della Santa Alleanza tra massimalisti e conservatori. Le conseguenze di questa triste anomalia italiana sono sotto gli occhi di tutti: siamo il paese col più alto debito pubblico, la crescita più bassa e la diseguaglianza più accentuata. Ma i nemici del riformismo non hanno una proposta per il paese, hanno solo il peso della loro forza, di solito messa al servizio della pura conservazione dell’esistente. Quando nei prossimi mesi questo vuoto di proposta emergerà in tutta la sua chiarezza, per le ragioni dei riformisti si aprirà una nuova finestra di opportunità. E Renzi ha ottime possibilità di essere ancora lui il leader riformista del quale il paese ha bisogno. A condizione, naturalmente, che sappia imparare e maturare dalla sconfitta.

Antonio Polito, sul “Corriere della Sera”, ha scritto che il Referendum ha segnato la fine della II Repubblica (quella basata sul maggioritario, sul leaderismo, sulla ipercomunicazione televisiva) e qualcuno palesa il ritorno alla I repubblica, ovviamente senza i giganti che l’hanno fondata. Come se ne esce Senatore?

La tesi di Polito è suggestiva, ma non del tutto convincente. Peraltro contraddice la previsione, da lui e da altri formulata durante la campagna referendaria, che poco o nulla sarebbe cambiato con la vittoria del No. La democrazia è in affanno in tutto il mondo, ma resta, oggi come ai tempi di Churchill, “il peggiore dei regimi, esclusi tutti gli altri”. E la democrazia, per funzionare, ha bisogno di alcune, semplici condizioni: stabilità di governo, pochi e grandi partiti, competizione per la leadership, contropoteri indipendenti, società pluralista. Si può dire, certamente, che la cosiddetta II Repubblica abbia fallito l’obiettivo di darci una “democrazia compiuta”. Ma non si può dire che non ci resta che rassegnarci a quella che, sempre Moro, chiamava la “democrazia difficile”. Certo, il fallimento della II Repubblica e quello del tentativo di uscirne in avanti, con la creazione del Pd, partito a vocazione maggioritaria, e una riforma che rimodellasse il sistema politico in questa direzione, ripropongono una stagione di governi deboli, di frammentazione della rappresentanza e di complessiva instabilità e precarietà. Ma questa prospettiva è l’esatto contrario di quel ciclo riformista che l’Italia non ha mai conosciuto e del quale avrebbe un disperato bisogno. Proprio per questo il No è una non risposta, che lascia intatti i problemi storici del paese. E la necessità di affrontarli.

Riuscirà il PD a tenere fermo il principio maggioritario? E se dovesse prevalere in Parlamento una legge proporzionale le ragioni profonde e organizzative del PD cambierebbero?

Per completare la transizione dalla democrazia proporzionale a quella maggioritaria era indispensabile la riforma del bicameralismo. Con due Camere entrambe dotate del potere di fiducia e un sistema politico multipolare, tenere fermo il principio maggioritario è molto difficile. Bisognerà cercare almeno di limitare il danno. Una via potrebbe essere il ripristino del Mattarellum: una via che la Corte costituzionale non ha voluto seguire, quando ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge Calderoli, preferendo correggerla in senso proporzionale. Vedremo se la sentenza sull’Italicum andrà nella stessa direzione. Certo è che se il “combinato disposto” tra bocciatura della riforma costituzionale e controriforma elettorale ci riconsegnerà nelle mani della politica proporzionalistica, sarà difficile fermare un movimento dal basso di segno presidenzialista. Non sottovaluterei il movimento in atto di protesta contro “l’ennesimo governo non deciso dagli elettori”. È vero che si tratta di una sgrammaticatura costituzionale, tanto più grottesca in quanto alimentata da forze che si sono opposte ad una riforma che aveva come principale obiettivo proprio la legittimazione popolare dei governi, attraverso la elezione, con un sistema maggioritario, di una sola Camera politica. Ma quando milioni di italiani si renderanno conto del paradosso e dell’inganno, la spinta popolare contro il parlamento e verso il presidenzialismo potrebbe farsi inarrestabile. La destra politica potrebbe in tal modo ritrovare una sua bandiera e un’occasione di riscossa. Questa è la vera “mucca nel corridoio” che Bersani farebbe bene a vedere. Altro che deriva autoritaria del “combinato disposto” tra riforma Boschi e Italicum…

Parliamo del governo. Governo di responsabilità per fare fronte alle emergenze (Europa, economia, terremoto. ecc). Non era il caso di cambiare la compagine governativa? La gente avrebbe compreso di più…

Inutile nascondersi dietro un dito: con la sconfitta della riforma, la legislatura è politicamente finita. Come ha giustamente affermato il presidente Mattarella, si tratta di portarla a conclusione in modo ordinato, salvando dalle macerie della riforma abbattuta dal Referendum, almeno una legge elettorale condivisa, possibilmente funzionale a garantire il massimo di stabilità possibile. Per fare questo lavoro c’è bisogno di qualche mese e dunque di un governo nella pienezza delle sue funzioni. Il Pd aveva proposto un governo istituzionale sostenuto da tutti i gruppi parlamentari. Le opposizioni hanno bocciato questa ipotesi dischiarandosi non disponibili. Non è restata dunque altra via possibile, che quella di un governo che garantisse al tempo stesso la discontinuità politica, espressa al massimo livello dal passo indietro di Renzi, e la continuità amministrativa, con la conferma della maggior parte dei ministri, tanto più opportuna nella prospettiva di una durata circoscritta a qualche mese. Il Pd si è fatto carico di questa responsabilità, assai probabilmente impopolare. Chiedere di andare subito al voto e al contempo lamentare la mancata svolta nella compagine governativa, come hanno fatto molte forze di opposizione, è talmente contraddittorio da risultare ridicolo.

Come si concilia la “responsabilità”  governativa con l’esigenza della rivincita di Renzi?

Il problema non è la rivincita di Renzi, ma la delegittimazione di questo Parlamento. Non possiamo barricarci nel bunker. Se non vogliamo essere travolti, non dobbiamo avere né mostrare paura del voto. Lo spazio della “responsabilità” sta nell’aver accolto l’invito del Presidente della Repubblica a formare un nuovo governo, nella pienezza delle sue funzioni, per il tempo necessario ad approvare una riforma elettorale coerente con i dettami della Consulta. Se si pensasse di andare oltre, almeno in questo contesto politico, significherebbe capovolgere la responsabilità nel suo contrario.

Intanto all’orizzonte si profila un referendum abrogativo proposto dalla  Cgil sul Jobs Act. L’infelice battuta del ministro Poletti non aiuta certo il PD. Quali iniziative pensate di mettere in campo per superare l’ostacolo? Sarà possibile trovare una soluzione ragionevole?

Se dopo la riforma costituzionale dovesse essere abbattuto a furor di popolo anche il Jobs Act, vorrebbe dire che l’Italia non solo è la grande malata d’Europa, ma a differenza della Germania dei primi anni duemila, è un malato che rifiuta di curarsi. Riforma previdenziale, riforma costituzionale e riforma del mercato del lavoro hanno rappresentato in questi anni le credenziali con le quali l’Italia si è ripresentata sulla scena europea e internazionale ed ha conquistato una rinnovata credibilità. Senza quelle riforme e quella credibilità, Mario Draghi non avrebbe potuto varare il programma di politica monetaria espansiva che ha sostenuto quel po’ di crescita e di ripresa occupazionale che abbiamo avuto in questi ultimi anni e la crisi dell’Euro sarebbe diventata ingovernabile. Senza quelle riforme e quella credibilità, l’Italia non avrebbe potuto presentarsi come alfiere di una possibile “terza via”, tra la versione più radicale dell’austerità, propugnata dai falchi della Bundesbank, e la sterilità autolesionistica della protesta populista, inutilmente applaudita ad Atene come a Madrid. La credibilità dell’Italia e della sua terza via è stata già pesantemente indebolita dall’esito del Referendum e dalle conseguenti dimissioni di Renzi. Manca solo la bocciatura popolare del Jobs Act per completare il capolavoro. Questo non significa che il Jobs Act vada considerato immodificabile. Un tagliando per verificare cosa abbia funzionato e cosa invece vada messo a punto, è non solo possibile, ma anche opportuno. Soprattutto, andrebbe attuata la parte, in gran parte finora rimasta sulla carta, che riguarda le politiche attive del lavoro, a cominciare dai centri per l’impiego e dai contratti di ricollocamento. Ma il Referendum proposto dalla Cgil sembra ignorare tutto questo e ispirarsi alla linea massimalista di Bertinotti di estensione generalizzata dell’articolo 18, culminata nel Referendum malamente perduto nel 2003. La Cgil deve decidere se seguire questa strada, contraddittoria con la sua grande storia, o se invece dare seguito alle positive pagine scritte con l’accordo sulle pensioni, recepito dalla legge di Bilancio, e con il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, che è parso annunciare una nuova stagione, unitaria sul piano sindacale e innovativa nelle relazioni industriali italiane.

Oggi la minoranza bersaniana ha lanciato la candidatura di Roberto Speranza alla segreteria, e domani, a Roma, si svolgerà l’Assemblea Nazionale deciderà sul prossimo Congresso. Un congresso che Renzi vuole che sia rapido. Non trova che sia un altro clamoroso errore questo di Renzi? Il partito è a pezzi Senatore…

Forse non è a pezzi, ma certamente il Pd, l’unico vero partito italiano, è in affanno. Un Congresso vero è dunque necessario e urgente. Per ridare al partito una linea politica, una leadership legittimata e anche una forma organizzativa pensata e strutturata in modo innovativo. In questo caso, fare bene e fare presto sono due facce della stessa medaglia. Prendere tempo non significherebbe infatti approfondire la riflessione, ma abbandonarsi al gioco suicida delle correnti. E far mancare al paese l’ultimo appiglio a cui aggrapparsi per non finire nella riedizione della I Repubblica. E come è noto quando una pagina grande e tragica si ripete, di solito assume le sembianze della farsa. Stavolta sarebbe anche una farsa con ben poco da ridere.

“La speranza è un sogno fatto da svegli”. Un testo di Pierre Carniti in occasione dei suoi 80 anni.


pierre-carnitiPubblichiamo il testo dell’intervento di Pierre Carniti all’Auditorium Antonianum, lo storico leader della Cisl negli anni ’70 e ’80 ed uno dei grandi padri del movimento sindacale italiano, , durante la Festa, a Roma, che la CISL ha voluto organizzare per festeggiare i suoi 80 anni.

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Ospiti, tra gli altri, sono stati il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’ex premier Romano Prodi, Raffaele Morese, ex Segretario Generale aggiunto della Cisl e Annamaria Furlan, Segretaria Generale della Cisl. L’ incontro
è stato anche l’occasione per presentare il volume “Pensiero, azione, autonomia” (Edizioni Lavoro), una raccolta di saggi e testimonianze sull’azione sindacale di Pierre Carniti.

Consentitemi una brevissima premessa. Quando pochi giorni fa Raffaele Morese mi ha comunicato che gli serviva il testo scritto del mio intervento per oggi, richiesta del tutto inconsueta, per un momento mi è balenato il sospetto che la formula canonica utilizzata secoli fa dal censore ecclesiastico per le pubblicazioni a stampa ammesse “Nihil obstat quominus imprimatur” (nulla osta a che sia stampato) fosse stata fatta propria da un oscuro censore laico per gli interventi orali: “nulla osta che sia pronunciato”. Mi sono però subito reso conto che la spiegazione era assai più semplice. Persino banale. Poiché questa riunione ha una durata limitata, gli organizzatori volevano essere certi che non avrei sforato il tempo che mi è stato assegnato.

Venendo al dunque, voglio innanzi tutto ringraziare i tanti che, al di là dei miei indiscutibili limiti, hanno voluto benevolmente manifestarmi, in tutti gli ultimi anni ed anche in occasione di questo incontro, perduranti legami di simpatia ed amicizia. Tuttavia, come dice il proverbio latino: “amicus Plato, sed magis amica veritas”, non posso esimermi dal confermare i “dubbi”, le “perplessità” espresse a Raffaele Morese e Mario Colombo, quando mi hanno informato del loro progetto. Le ragioni delle mie obiezioni erano e restano semplici. Come sappiamo tutti nella pubblicistica dedicata esistono due tipi di scritti. Il primo “in memoria di” per celebrare personaggi defunti più o meno celebri, il secondo in “onore di”, di norma riservati a professori universitari che hanno concluso meritevolmente la loro attività accademica. A parte ogni altra considerazione, voglio sperare che sia prematuro inserirmi nella prima tipologia. Mentre per la seconda è del tutto evidente che non ne ho i requisiti.

Conoscendo le mie obiezioni il bravissimo Paolo Feltrin, con un espediente narrativo, ha trasformato il “suo” scritto in una “mia” auto-commemorazione. Per farla brave, voglio però dire che questo modesto contenzioso, non intacca certo i rapporti di forte amicizia. Del resto la vera amicizia non presuppone affatto la condivisione acritica di tutti i giudizi, di tutte le rispettive opinioni. Resta il fatto che pure questo piccolo diverbio costituisce una conferma della mia diffidenza verso la vulgata popolare, secondo la quale la vecchiaia porta saggezza. Personalmente, resto invece convinto che non è vero che quanto più si invecchia tanto più si diventa saggi. Semplicemente si è meno ascoltati. Del resto lo si osserva anche nel rapporto tra le generazioni. Non fosse altro perché assai spesso i vecchi si ripetono ed i giovani non ascoltano. Risultato: la noia è reciproca.

Venendo al tema che è stato proposto per questo nostro incontro cioè il “lavoro per tutti”, vale a dire l’obiettivo della piena occupazione, dico subito che malgrado al futuro si dovrebbe sempre guardare con ottimismo, per quanto riguarda il lavoro l’Italia sembra sfuggire a questa regola. Il “lavoro per tutti” non c’è ed, allo stato, non esistono realistiche prospettive che la situazione possa cambiare significativamente. Quanto meno nel breve, medio periodo. Intanto perché la crescita annua dello zero virgola (o anche dell’uno per cento) non può risolvere il problema. In quanto non è in grado nemmeno di compensare i posti di lavoro che si perdono per l’effetto del sempre maggiore impiego dell’informatica, della robotica, dell’automazione. Non solo nel settore manifatturiero, ma anche in quello dei servizi. A questa situazione non si riesce certo a porre rimedio con interventi, tanto enfatizzati quanto ininfluenti, della normativa relativa al mercato del lavoro. In quanto, per ben che vada, al massimo sono dei semplici placebo. Aggiungo che ci sono tre cose alle quali non ho mai creduto nella mia vita: gli oroscopi, i pronostici e le interpretazioni statistiche. A quest’ultimo proposito il leader conservatore inglese Benjamin Disraeli sosteneva che ci sono tre tipi di menzogne che non era disposto a sopportare: le bugie, le bugie gravi e le interpretazioni statistiche. Difficile dargli torto, se solo pensiamo al vociante dibattito mediatico che ha accompagnato la pubblicazione mensile e trimestrale dei dati Istat su occupazione e disoccupazione.

In ogni caso, il punto da tenere ben presente è che la disoccupazione dilagante con cui siamo alle prese è la somma di diversi fattori. In primo luogo, una globalizzazione finanziaria sregolata che, pur avendo consentito anche qualche risultato positivo, ad esempio per alcune centinaia di milioni di persone (soprattutto in India ed in Cina) di uscire da una condizione di povertà assoluta, ha tuttavia contemporaneamente prodotto ed assecondato un parallelo aumento di diseguaglianze intollerabili. Sia a livello mondiale, sia soprattutto nei paesi occidentali (in Italia in particolare). Il tutto caratterizzato da una contestuale svalutazione dei diritti e del costo del lavoro, assunti nella maggior parte dei casi, come il terreno fondamentale, se non esclusivo, della competizione commerciale. Inoltre, sul piano economico hanno pesato tanto le politiche deflazionistiche, quanto i limiti di investimenti pubblici e privati sempre più asfittici. Per fare buon peso, negli ultimi anni si è teorizzato e praticato la disintermediazione dei gruppi intermedi. Si è insomma sostenuto che, nella attuale fase economica e sociale, si poteva ormai fare a meno della mediazione delle grandi organizzazioni del lavoro e della contrattazione. il risultato è sotto i nostri occhi. Credo però sia giusto fare anche notare, sperando che non si tratti di fuochi di paglia, qualche positivo segnale di inversione di tendenza negli orientamenti culturali e pratici delle controparti, sia private che pubbliche. Considero un indizio di questo ravvedimento culturale la recente firma del contratto per un milione e seicentomila metalmeccanici e per tre milioni e trecentomila statali.

Tuttavia, per quelle che ho sommariamente richiamato e per tante altre ragioni che potrebbero essere aggiunte, il lavoro, la disoccupazione siano da assumere come il problema cruciale economico e sociale del nostro tempo. Non solo per i milioni di persone coinvolte, ma per quasi tutte le famiglie. Perché più o meno in ogni famiglia c’è uno o più componenti che temono di perdere il lavoro, o lo hanno perso e non riescono più a trovarlo. A cui si somma la condizione sempre più disperante per il futuro dei figli. Costantemente in balia di una dilagante disoccupazione giovanile, che ha superato ogni soglia di tollerabilità. Intendiamoci. Essere disoccupati oggi, malgrado la povertà assoluta tenda continuamente ad aumentare, non significa necessariamente non fare nulla, o morire di fame. Come capitava alla generazione dei nostri padri e dei nostri nonni. Ma significa sempre essere esclusi. Perché. anche se molte cose relative al lavoro sono cambiate, basti pensare: all’organizzazione del lavoro, alla cultura del lavoro, al rapporto tra le persone ed il lavoro. Tuttavia, malgrado le continue trasformazioni, il lavoro resta un fattore decisivo di appartenenza, di identità individuale, familiare, sociale. Infatti in questa società sempre più individualista, disincantata ed indifferente, continuiamo ad essere anche in rapporto a ciò che facciamo. Al punto che la prima domanda che le persone si scambiano per riconoscersi è: “che fai?”. A conferma di quanto il lavoro continui ad essere un elemento imprescindibile di identificazione, di riconoscimento personale, familiare, sociale. Quindi non ci si può, e non ci si dovrebbe rassegnare al dramma di milioni di persone che ne sono deprivate.

Poiché, allo stato, ci troviamo alle prese con una situazione intollerabile cosa si può fare per eliminare, o quanto meno ridurre significativamente, questa grave tracimazione di sofferenza umana? A questo fine, ci sono compiti che spettano ovviamente alla politica. In primo luogo l’adozione di appropriaste misure economiche. A cominciare da investimenti pubblici destinati alla tutela della salute per tutti, alla scuola, ad un più efficiente funzionamento degli strumenti per l’avvio al lavoro, compresa la formazione continua, alla messa in sicurezza del territorio e delle persone. Tutte misure che, assieme ad altre, possono contribuire alla ripresa economica e dunque anche all’aumento dell’occupazione. Si tratta di interventi sicuramente importanti, ma che non bastano se si intende davvero assumere l’obiettivo del “lavoro per tutti”. Bisogna infatti fare i conti con il punto decisivo non offuscabile con discorsi blablatici. E il punto è che, allo stato, non c’e abbastanza lavoro per tutti. Per tutti coloro che vorrebbero lavorare. Perciò l’unico modo per affrontare concretamente il problema è quello di ridurre gli orari e ripartire diversamente il lavoro disponibile. I modi per conseguire questo risultato sono teoricamente innumerevoli. Ma essendo rispettoso dell’autonomia sindacale, non mi permetto di entrare nel merito. Nemmeno con semplici suggerimenti. Intendendo con questa condotta mantenermi fedele ad un comportamento al quale, negli ultimi trent’anni, ho sempre cercato di ispirarmi. Non a caso che, pur essendomi sempre interessato delle questioni generali relative al lavoro (“semel” sindacalista, “semper” sindacalista) mi sono contemporaneamente astenuto dall’esprimere qualsiasi giudizio tanto sulla appropriatezza, o sulla congruità delle piattaforme elaborate, come sugli accordi stipulati,

Non è un caso, del resto, che pur essendo stato proclamato dal congresso confederale dell’85 membro a vita del consiglio generale (come qualcuno tra i più anziani probabilmente ricorderà), non abbia mai partecipato ad alcuna riunione di questo importante organismo di indirizzo strategico. La ragione che mi ha condizionato è molto semplice. Non so se sia ancora in vigore, o se sia stata riformata, oppure se nel frattempo sia caduta in disuso, ma c’era una norma nel diritto canonico la quale prescriveva che quando un parroco lasciava una parrocchia non poteva più ritornare. Neanche per confessare. Norma che credo farebbe bene se fosse estesa anche alle grandi organizzazioni collettive, sociali e politiche. In ogni caso. Intanto, almeno per quel che mi riguarda, ho ritenuto comunque opportuno di uniformarmi.

Per concludere, consentitemi qualche rapida considerazione. Gli ultimi due decenni per i diritti ed il trattamento del lavoro e per le organizzazioni di rappresentanza del lavoro è stato un lunghissimo, interminabile periodo di nuvole basse. Per tornare a vedere il sole occorre innanzi tutto impegnarsi con efficacia e determinazione ad unificare il mondo del lavoro. Normativamente tra pubblico e privato e per includere i milioni di persone ricattate con l’imposizione di contratti atipici che sono, di fatto, esclusi dalla contrattazione e dal riconoscimento di diritti essenziali. Compreso il riconoscimento della dignità del lavoro. Naturalmente la prima condizione per ricomporre il mondo del lavoro è che, a sua volta, il sindacalismo confederale non si presenti frantumato. In sostanza si dimostri capace di combattere la tendenza a trasformare divergenze occasionali, per quanto forti, o supposte tali, in contrapposizioni permanenti. Che determinano solo impotenza e paralisi. Si può senz’altro convenire che nel compito che sta di fronte al sindacalismo confederale non c’è niente di facile, ma ci si deve tutti convincere che non c’è neanche niente di impossibile. Il segreto consiste nel non trasformare mai i motivi di preoccupazione in ragioni di pessimismo.

Finisco con due versi noti a molti, di John Donne (famoso poeta inglese del ‘500) il quale descrive con espressioni commosse, che non andrebbero ignorate, il valore dei rapporti tra individuo ed individuo. Sostenendo che ciascuno vale solo in quanto parte del tutto. Dice infatti Donne: “Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo di continente, una parte del tutto. …… E dunque non chiedere mai per chi suona la campana. Suona per te.”

Ai versi di Donne voglio aggiungere due righe di commento contenute nel bel libro (“Il futuro è nel nostro passato”) in cui, proseguendo sulle orme degli “Adagia” di Erasmo, la nostra amica Fiorella Casucci Camerini interpreta frammenti di saggezza greca e latina per auspicare un nuovo umanesimo. Queste le sue parole: “E oggi in questi nuovi tempi di individualismo sfrenato, di odio, di violenza, del sonno della ragione, in cui il suono della campana per ciascuno di noi è sommerso da un frastuono assordante, è essenziale recuperare il senso di solidarietà, di fraternità e di unione, pena la dissoluzione della comunità”.

Per scongiurare i rischi gravi del tempo che ci è dato di vivere è quindi necessario ricostruire con tenacia, determinazione, impegno costante la speranza in un possibile futuro migliore. Cominciando con il dare riposte concrete alla questione decisiva del “lavoro per tutti”. Senza farci intimorire, bloccare, fuorviare, dalle critiche, dalle obiezioni delle élite del potere economico finanziario. Che, negli ultimi anni. ha costretto la comunità a sopportare durissimi costi umani e sociali.

Credo che si possa finalmente invertire la tendenza. Ma occorre svegliarci. Sia perché non c’è più tempo da perdere. Ma soprattutto perché, come diceva Aristotile, “La speranza è un sogno fatto da svegli”

Intervento al Convegno CISL – ASTROLABIO SOCIALE su “Il lavoro che sarà, per tutti” del 06/12/2016

La “preda” del potere. Il “Corriere della Sera” nella storia italiana in un libro di “Chiarelettere”

“Il ‘Corriere’ è una delle pochissime istituzioni di garanzia di questo paese… La libertà d’informazione è vista con insofferenza crescente.” Ferruccio de Bortoli14 giugno 2003, in occasione delle sue dimissioni da direttore del “Corriere della Sera

IL LIBRO
Una storia e una testimonianza. Di chi si è battuto per quarant’anni in difesa dell’indipendenza del giornale più famoso d’Italia, il giornale della borghesia illuminata, il giornale di Luigi Albertini e Luigi Einaudi, un giornale che veramente libero non è mai stato perché sempre al centro di appetiti economici e politici. Raffaele Fiengo, giornalista del “Corriere” dagli anni Sessanta, di formazione liberal, ci offre la sua versione dei fatti attraverso le lotte che ha condotto con tenacia sempre dalla parte dei giornalisti per affermare i principi di una stampa libera. Una lotta dura, dai tempi eroici della direzione di Piero Ottone alla strisciante occupazione della P2 sotto Franco Di Bella fino ai disegni egemonici di Craxi e poi le indebite pressioni dei governi Berlusconi. Oggi gli attori sono cambiati ma con le interferenze del marketing e della nuova pubblicità, e l’invasione dei social network, il mestiere del giornalista è ancora più contrastato, anche al “Corriere”, da sempre “istituzione di garanzia” in un’Italia esposta a continue onde emotive e a tensioni di ogni tipo. Se cade il “Corriere” cade la democrazia. E questo libro lo dimostra. Come scrive Alexander Stille nell’introduzione, “considerate le varie lotte avvenute per il controllo del ‘Corriere’, è un miracolo che da lì sia uscito tanto buon giornalismo, tanta informazione corretta, e ciò grazie agli sforzi di tanti giornalisti interessati soprattutto a fare bene il proprio lavoro”.
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Prossimamente approfondiremo meglio la vicenda “Corriere” con un’intervista all’autore.

L’AUTORE
Raffaele Fiengo è nato a Cambridge (Stati Uniti) nel 1940. Dal 1968 ha lavorato al “Corriere della Sera” trovandosi più volte in contrasto con la direzione. Per vent’anni è stato rappresentante sindacale. Nel 1973 fonda la società dei redattori del “Corriere della Sera” e nel 1974 è autore, con la direzione di Piero Ottone, dello “Statuto del giornalista”. Chiamato dai suoi antagonisti “il soviet di via Solferino”, in realtà non si è mai considerato comunista e si è sempre battuto per l’indipendenza del giornale e dei giornalisti. Nel 2004 è tra i fondatori di “Libertà di stampa, diritto di informazione” (Lsdi), centro di ricerca sulle trasformazioni del giornalismo. Nel 2012 promuove, presso la Federazione nazionale della stampa italiana, l’Iniziativa per l’adozione in Italia di un Freedom of Information Act. Dall’anno accademico 2000-2001 è docente di Linguaggio giornalistico all’Università di Padova.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’introduzione di Alexander Stille.

Il «Corriere» e la lotta politica in Italia
Il primo quotidiano nazionale, il grande giornale della cosiddetta «borghesia illuminata», il «Corriere della Sera», è stato il teatro centrale della lotta per il potere in Italia per quasi tutta la storia del paese. Il suo appoggio alla causa dell’intervento nella Prima guerra mondiale – ospitando tra l’altro le arringhe di Gabriele D’Annunzio («Viva Trento e Trieste, viva la guerra!») – è stato un fattore importante nella decisione di prendere parte al conflitto. L’opposizione del giornale e del suo leggendario direttore Luigi Albertini al fascismo rappresentò uno degli ultimi seri ostacoli al consolidamento del potere di Benito Mussolini. Così i proprietari – i membri della famiglia Crespi – nel 1925, per non rischiare rappresaglie pericolose da parte del regime, dovettero rimuovere Albertini.
È stato così anche durante i quarant’anni della carriera di Raffaele Fiengo che va dalla fine degli anni Sessanta fino a poco tempo fa, negli anni Duemila. Redattore e soprattutto capo, per molti anni, del sindacato dei giornalisti del «Corriere», Fiengo è stato un osservatore privilegiato e un protagonista di molte lotte.
I proprietari amano fare dichiarazioni circa la loro fedeltà ai principi della libera stampa, come questa del 1972: «Gli editori […], consapevoli che il giornale è un servizio pubblico, riaffermano il loro assoluto rispetto dei principi di libertà e indipendenza dei giornalisti dell’azienda». Ma la realtà è parecchio più complessa. L’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, proprietario de «Il Messaggero» di Roma e de «Il Mattino» di Napoli, ha detto: «Caro mio, se vuoi fare il grande imprenditore in Italia devi avere per forza un piede nei media, meglio due piedi». Per aiutare l’imprenditore, il giornale dev’essere usato come strumento di potere attraverso gli articoli che pubblica, quelli che non pubblica e per il modo in cui essi vengono impaginati. Al momento della bomba a piazza Fontana – l’inizio del periodo del terrorismo in Italia e della «strategia della tensione» – il «Corriere» avallò la tesi della strage degli anarchici. Ecco il mostro fu il titolo del «Corriere d’Informazione», confratello della sera del «Corriere», che riportava una foto del ballerino anarchico Pietro Valpreda, subito arrestato ma successivamente scagionato. Allo stesso tempo il «Corriere» non pubblica la notizia su un negoziante di Padova che aveva identificato le borse usate per l’attentato in cui erano morte diciassette persone, una prova che conduceva l’indagine verso la «pista nera», che si sarebbe rivelata quella giusta.
Nel luglio del 1970 il treno da Palermo a Torino uscì violentemente dal suo binario nella zona di Gioia Tauro, in Calabria, uccidendo sei persone e ferendone un centinaio. La versione ufficiale in un primo momento fu che si trattava di un incidente. Ma il cronista che seguiva la storia per il «Corriere», Mario Righetti, aveva saputo da una sua fonte che c’erano segni evidenti di un atto di sabotaggio. E lo scrisse nell’articolo che fu pubblicato nella prima edizione del giornale ma che scomparve nell’edizione definitiva, che titolava: A Reggio Calabria fonti ufficiali escludono l’ipotesi di un atto doloso.
«La mattina [dopo] – scrive Fiengo – Righetti è chiamato dal caporedattore, che allora era Franco Di Bella, e messo in ferie.» Di Bella è una delle bestie nere di Fiengo. Fu il direttore del giornale durante il periodo della P2, la loggia massonica di cui era membro, insieme ai proprietari del gruppo Rizzoli e ad alcuni giornalisti. Nel caso del treno di Gioia Tauro e di piazza Fontana, però, le censure del «Corriere» non furono conseguenza di un intervento della P2, ma di pressioni governative. Secondo Fiengo, il ministro dell’Interno intervenne personalmente per bloccare l’articolo sull’attentato di Gioia Tauro e un magistrato minacciò Righetti di denunciarlo per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’opinione pubblica» qualora avesse ancora scritto sull’argomento. La lotta di potere non era però sempre a senso unico. Dopo la «rivoluzione dei garofani» in Portogallo nel 1975, durante la quale i tipografi comunisti occuparono il giornale socialista «Republica», un gruppo di redattori comunisti del «Corriere» cambiò il titolo dell’articolo sull’argomento da I comunisti occupano il giornale socialista in Tensione a Lisbona tra Pc e socialisti. Fiengo fu comunque considerato il leader della sinistra all’interno del giornale per almeno vent’anni. Con autoironia Fiengo racconta come veniva visto in via Solferino durante la direzione di Giovanni Spadolini, futuro leader del Partito repubblicano e di un governo di centrodestra. «Spadolini guardava con qualche apprensione il mio berretto nero alla Lenin sul quale per scherzo un giorno il mio compagno di stanza, Guido Azzolini, aveva cucito una stella rossa di stoffa. “Vedi, Fiengo – mi diceva dolcemente Spadolini, – tu sei l’ultimo rivolo della contestazione, una miscela rara, ma assai esplosiva perché contemporaneamente sei liberal, anzi radicale, e comunista.” Certamente su suo suggerimento il condirettore Michele Mottola, che di rado pronunciava una parola, limitandosi di solito a gesti e farfugliamenti, mi consigliava di tagliarmi i capelli lunghi.» Poi nel 1972 Giulia Maria Crespi assunse un ruolo più attivo come azionista principale del giornale, licenziò Spadolini e al suo posto mise Piero Ottone che, pur non essendo comunista, era decisamente più aperto alla sinistra. La «sterzata» di Ottone portò all’uscita da via Solferino di Indro Montanelli insieme a una sessantina di giornalisti – una vera e propria secessione di una parte del «Corriere» che avrebbe fondato «il Giornale». Il «Corriere» di Ottone pubblicò, per esempio, le famose Lettere luterane e Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, testi chiave della sinistra italiana degli anni Settanta. Ma, come rivela Fiengo, il loro non fu un rapporto facile. Anche se Ottone veniva etichettato come direttore di sinistra, Pasolini, in una lettera privata, lo coprì di insulti. E in un’altra lettera scrisse:

Caro ineffabile Ottone,
sarebbe ora ti vergognassi per quello che «fai» scrivere ai tuoi disonesti redattori sul Vietnam! È un atto vergognoso che solo i servi e quelli che come te non possiedono alcuna dignità morale hanno l’impudenza di compiere.

Il famoso scritto di Pasolini Io so sui presunti crimini impuniti del governo italiano rimase per quaranta giorni nel cassetto di Ottone, impegnato nella ricerca di un pezzo di uguale peso da contrapporgli.
Ma già durante il periodo dei Crespi e di Ottone le debolezze economiche della proprietà aprirono le porte all’influenza esterna. Per far fronte ai bisogni economici del quotidiano, i proprietari stipularono un accordo con la Montedison (vicino alla Democrazia cristiana e quindi al governo). Solo anni dopo Fiengo scoprì l’esistenza di un accordo segreto che permetteva a Montedison di approvare la scelta del caporedattore per l’economia.

La crisi più acuta
La battaglia principale sostenuta da Fiengo fu durante la crisi della P2. Nel 1974 il gruppo Rizzoli acquistò il «Corriere della Sera» e fece una serie di investimenti pesanti nel giornale e nell’editoria, aumentando pericolosamente i suoi debiti. All’insaputa dei lettori e della redazione, le difficoltà del gruppo lo spinsero sempre di più tra le braccia di Roberto Calvi e del Banco Ambrosiano, che diventò il vero proprietario del quotidiano. Anche Calvi, il cosiddetto «banchiere di Dio», vicino al Vaticano ma anche alla mafia, aveva grossi problemi finanziari e dipendeva sempre di più dall’appoggio occulto della loggia massonica Propaganda 2 e dal suo Maestro Venerabile, Licio Gelli, un ex fascista fervente. Mentre molti dei circa mille membri entrarono a far parte della loggia semplicemente per interesse di carriera, il Maestro Venerabile aveva un chiaro piano politico (il Piano di rinascita democratica) per creare in Italia un regime presidenziale orientato a destra. Riuscì a tirare dentro la sua loggia segreta centinaia di uomini tra i più potenti del paese, compresi 195 membri delle forze armate (12 generali dei carabinieri, 5 della guardia di finanza, 22 dell’esercito, 4 dell’aeronautica e 8 ammiragli della marina), 44 membri del parlamento, giudici, banchieri, e tra gli editori: Angelo Rizzoli, Bruno Tassan Din, direttore generale del gruppo Rizzoli, e Franco Di Bella, direttore del «Corriere della Sera». Così l’influenza della P2 sul giornale crebbe gradualmente, come dimostrano la sostituzione del corrispondente in Argentina (dove Gelli aveva forti legami con il regime militare), quella di Ottone con Franco Di Bella, l’uscita di vari giornalisti (come Giampaolo Pansa) considerati di sinistra, e la pubblicazione di diversi articoli strani, chiaramente confezionati ad arte per piacere alla P2: l’intervista allo stesso Licio Gelli, fatta da un giornalista, Maurizio Costanzo, anch’esso membro della loggia. E la collaborazione regolare con il «Corriere» di Silvio Berlusconi, altro membro della P2.Fiengo in quegli anni portò avanti una battaglia feroce per preservare l’indipendenza dei giornalisti e della testata, e, successivamente, incaricato dall’ufficio di presidenza della Commissione parlamentare sulla P2, si adoperò per far luce su quel losco periodo della storia italiana.
Considerate le varie lotte di potere avvenute per il controllo di via Solferino, è un miracolo che da lì sia uscito tanto buon giornalismo, tanta informazione corretta, e ciò grazie agli sforzi di tanti giornalisti interessati soprattutto a fare bene il proprio lavoro.

Raffaele Fiengo, Il cuore del potere. Il “Corriere della Sera” nel racconto di un suo storico giornalista (Introduzione di Alexander Stille), Ed. Chiarelettere, Milano 2016, pagg. 416 , € 19

C’era una volta la Sinistra Sociale. Intervista a Giorgio Merlo

carlo-donat-cattin-1In tempi di crisi della sinistra, non c’è solo la sconfitta del referendum, che è una crisi di progettualità culturale e politica. In altre parole è una crisi di senso per la Sinistra. Il libro, pubblicato dalla Studium, che qui presentiamo, La Sinistra Sociale. Storia, testimonianze, eredità, si inserisce in questa congiuntura. Ora lo sguardo del libro è uno sguardo lungo, lo sguardo della memoria e della storia dei protagonisti che hanno militato nella sinistra sociale della DC. Quali valori la ispiravano? Ha ancora un senso oggi una sinistra sociale? Proviamo a trovare delle risposte in questa intervista con Giorgio Merlo. Merlo è stato un allievo politico di Carlo Donat Cattin. Ex Deputato PD, in quel partito è vicino alle posizioni di Gianni Cuperlo.

Giorgio Merlo, il vostro libro (lo hai scritto insieme a Gianfranco Morgando) ha un merito di gettare,  finalmente, una luce sull’esperienza politica della corrente di  sinistra sociale della Dc: Forze Nuove e del suo leader Carlo Donat Cattin. Come si spiega questo oblio? Quali pregiudizi stanno alla base di questo?

9788838244032_0_190_0_80In effetti l’esperienza e il magistero politico di Carlo Donat-Cattin e della intera sinistra sociale della Dc sono stati clamorosamente e misteriosamente archiviati. Mi colpisce come autorevoli giornalisti e commentatori politici ancora oggi quando fanno l’elenco dei principali leader della Democrazia Cristiana dimenticano puntualmente Donat-Cattin. Che e’ stato, come molti sanno, uno degli esponenti piu’ autorevoli e piu’ rappresentativi dell’intera storia democratico cristiana. E questo libro, se ha un merito, e’ quello di rileggere una storia che e’ stata decisiva ed essenziale non solo per la Dc ma per l’intero movimento cattolico italiano.

Parliamo di Forze Nuove.  È stata una vera e propria scuola di politica all’interno della Dc. Quali erano i punti fermi di Forze Nuove dal punto di vista dei valori e del programma? In che misura è stata importante per la Dc? 
Forze Nuove, e prima ancora Forze sociali e Rinnovamento, hanno segnato in profondità la storia della Dc e della intera politica italiana. Forze Nuove rappresentava un pezzo autentico di societa’. Societa’ reale e non societa’ virtuale. Del resto, la Dc era un partito interclassista e la rappresentanza concreta, e trasparente, di interessi della società ne rappresentava il suo tratto caratteristico. Forze Nuove era la voce degli operai, dei ceti popolari e del sindacalismo di matrice cristiana nel partito. E la figura di Donat-Cattin ne rappresentava la voce più autorevole e più qualificata. Una presenza, quella di Forze Nuove, che Aldo Moto riteneva essenziale per lo stesso profilo popolare ed interclassista della Dc. Altroche’ corrente di potere. Forze Nuove e’ sempre stata una corrente di idee e una componente che rappresentava autenticamente un pezzo di società.

Nel tuo libro citi Sandro Fontana, storico e Grande dirigente della corrente, che parla di differenza “antropologica” di Forze nuove rispetto alle altre correnti di Sinistra della Dc. Il termine è assai forte, in cosa consisterebbe?
Sandro Fontana, oltreché fine intellettuale e grande storico, e’ stato anche un autorevole e qualificato dirigente politico. Memorabili le sue pagine sul profilo politico, culturale, sociale e anche etico della sinistra sociale della Dc. La diversità “antropologica” era un termine volutamente forte, nonché provocatorio, per sottolineare le ragioni esclusive e specifiche della corrente di Forze Nuove. Del resto, Forze Nuove nella Dc non ha mai avuto un peso di potere significativo. Nei congressi contava a malapena il 5-7 per cento della intera rappresentanza del partito. E questo tanto a livello nazionale quanto a livello locale. Ma esercitava un peso politico di grande importanza. E questo era dovuto quasi esclusivamente alla produzione politica, alla elaborazione culturale e alla qualità della sua classe dirigente. La diversità antropologica richiamata da Sandro Fontana era un po’ questa. Una diversità che la faceva essere una “corrente” profondamente diversa dalle altre componenti e dalle altre correnti democristiane.

Come spieghi l’anticomunismo di Donat Cattin? La competizione con il PCI di allora era  molto forte, eppure per una visione di sinistra sociale sarebbe stata  una base per una possibile collaborazione? Invece arrivo’ il “preambolo”….
L’anticomunismo di Donat-Cattin fu forte, netto, spietato ma sempre trasparente e chiaro. E non fu mai un anticomunismo ideologico o pregiudiziale, ma sempre e solo un anticomunismo politico. Basato sui fatti e sulle politiche concrete. Nella bella testimonianza rilasciata da Diego Novelli nel mio libro, storico sindaco comunista di Torino e amico di Donat-Cattin, scrive che “Donat e’ sempre stato un anticomunista che, pero’, ha sempre difeso i ceti popolari”. Ecco, miglior definizione non c’e’ per descrivere Donat-Cattin. E questa sua posizione lo rende effettivamente un personaggio quasi unico nel panorama politico italiano per molti anni. Un personaggio, cioè’, che non rientra nel cliché classico del democristiano. A volte contestato nel partito perché’ “troppo di sinistra” e contestato violentemente anche dal Pci dell’epoca perché’ concorrenziale e competitivo nella difesa dei ceti popolari ed operai. E anche questa, comunque, e’ stata la grandezza e la complessità’ della figura politica di Carlo Donat-Cattin.

Il rapporto tra Moro e Donat Cattin è stato molto stretto. Pensi che Donat Cattin si sentisse l’interprete più” ortodosso” della Terza Fase morotea (tanto da fondare una rivista “Terza Fase”). Insomma per lui cos’era la terza fase?.
Il rapporto tra Donat-Cattin e Aldo Moro e’ sempre stato molto stretto e profondo. C’era grande stima e grande rispetto tra i due. E Donat-Cattin ha sempre avuto in Moro un punto di riferimento politico di primaria importanza. In tutte le principali fasi politiche vissute da questi grandi statisti Donat-Cattin ha sempre visto in Moro la bussola politica per eccellenza. Certo, poi e’ arrivato il “preambolo” dopo la stagione della solidarieta’ nazionale. Apparentemente una contraddizione per un uomo come Donat-Cattin. Ma cosi’ non e’. Donat-Cattin, come ricordavo poc’anzi, non e’ mai stato animato da un anticomunismo ideologico. Non a caso, nel documento che ispirava il “preambolo” scritto di pugno proprio da Donat-Cattin, si parlava della impossibilita’ di una alleanza con il Pci. Ma, e qui sta il segreto e la ragione di quella grande operazione politica, si diceva “allo stato dei fatti”. Cioè’ tenendo conto delle ragioni politiche di quel momento e di quella particolare fase storica. Non a caso, proprio dopo la stagione del preambolo, Donat-Cattin da’ vita alla bella rivista “Terza Fase”. Che voleva, anche nel nome, non disperdere la grande lezione politica, culturale ed umana di Aldo Moro.

Gli anni 80,  in particolare la seconda metà, sono gli anni della egemonia socialista (il famoso CAF) e sono anche gli anni dell’inizio della fine della prima Repubblica. Donat Cattin aveva sentore della crisi della Repubblica (ovvero della questione morale)? 
Donat-Cattin muore nel marzo del 1991, l’anno prima dello scoppio di tangentopoli. Ma nei suoi scritti su Terza Fase, nei convegni di Saint-Vincent, nei suoi innumerevoli interventi alla Direzione nazionale e nei Consigli nazionali della Dc, non mancava di ricordare il profondo decadimento morale ed etico della politica italiana. La profonda ed intollerabile presenza dei partiti in tutti i gangli della società’ italiana e una classe dirigente sempre piu’ onnivora erano argomenti sempre al centro delle sue profonde riflessioni politiche. Intuiva, quindi, le avvisaglie di un uragano che prima o poi poteva scoppiare. Certo, la sua esperienza terrena e’ finita prima di questo terremoto ma il leader politico di razza aveva capito che, forse, eravamo alla vigilia di profondi cambiamenti.

Un’altra lezione di Donat Cattin è stata la grande attenzione al movimento sindacale. È ancora attuale? 

Il sindacato, le sue battaglie, il suo ruolo, la sua presenza sono sempre stati al centro della sua agenda politica. E, ieri come oggi, la difesa dei corpi intermedi non e’ una battaglia di retroguardia o meramente nostalgica. E’ la grammatica di una concezione democratica della società’. E io aggiungo anche di una concezione cristiana della società’. Laica, mai integralista o clericale della società’ stessa. Certo, difendere e valorizzare il ruolo del sindacato non passa di moda. Ieri come oggi. E questo per il semplice motivo che questa concezione che difende il pluralismo e la democrazia dei corpi intermedi affonda le sue radici nei valori e nei principi scolpiti nella Costituzione, frutto anche della cultura cattolica democratica e cattolico sociale. Anche per questo la “lezione” di Carlo Donat-Cattin e della sinistra sociale della Dc non può essere archiviata o banalmente storicizzata.

Tu militi nel PD, un partito che sta attraversando una crisi profonda (la sconfitta referendaria pesantissima). Cosa può insegnare la figura di Donat Cattin e la storia di Forze Nuove ai dirigenti del PD?
Lo dico con molta franchezza e sincerità’. Nel mio impegno, oggi come ieri, il magistero di Donat-Cattin continua ad essere la mia bussola di riferimento. Dalla concezione del partito alla cultura delle alleanze, dalla qualità’ della classe dirigente alla necessita’ di una continua elaborazione culturale, dalla centralità’ della questione sociale alla difesa dei ceti popolari. Rispetto al “nulla” della politica contemporanea, per dirla con Mino Martinazzoli, il pensiero, l’azione e il magistero di uomini come Donat-Cattin continuano ad essere punti di riferimento insostituibili per chi crede, ancora oggi, in una presenza laica del cattolicesimo democratico nella politica italiana.

Per dove passa il futuro del cristianesimo? Un testo di Leonardo Boff

Leonardo BoffPapa Francesco ha un merito innegabile: ha sollevato la Chiesa cattolica che era in uno stato di profonda demoralizzazione a causa dei crimini di pedofilia che hanno interessato centinaia di persone del clero. Inoltre ha smascherato i crimini della Banca Vaticana, che coinvolgevano Monsignori e gente della finanza italiana.

Ma soprattutto ha dato un’altra immagine alla Chiesa, non più quella di una fortezza chiusa contro i “pericoli” della modernità, ma quella di un ospedale da campo che serve a tutti coloro che hanno bisogno o sono alla ricerca di un senso della vita. Questo Papa ha coniato la frase “una Chiesa in uscita” verso gli altri e non verso se stessa, auto referenziata.
I dati rivelano che oggi il cristianesimo è una religione del Terzo e Quarto Mondo. Il 25% dei cattolici vive in Europa, il 52% in America e gli altri nel resto del mondo. Ciò significa che, finito il ciclo occidentale, il cristianesimo dovrà vivere la sua fase mondiale con una presenza più densa in alcune parti del mondo, oggi considerate periferiche.

Potrà avere un significato universale sotto due condizioni.

La prima, se tutte le chiese si comprenderanno come il movimento di Gesù, si riconosceranno l’un l’altra come portatrici del suo messaggio senza che nessuna di esse abbia l’intenzione di rivendicarne l’esclusiva, ma in dialogo con le altre religioni del mondo, valorizzandole come percorsi spirituali abitati e promosso dallo Spirito. Solo allora ci sarà la pace religiosa, una delle condizioni importanti per la pace politica. Tutte le chiese e le religioni devono essere al servizio della vita e della giustizia per i poveri e per il Grande Povero che è il Pianeta Terra, contro il quale il processo industriale muove una vera e propria guerra.

La seconda condizione è che il cristianesimo relativizzi le sue istituzioni di carattere occidentale e abbia il coraggio di reinventarsi a partire dalla vita e dalla pratica del Gesù storico con il suo messaggio di un regno di giustizia e di amore universale, in completa apertura al trascendente. Mantenere l’attuale modo di essere può condannare il cristianesimo a diventare una setta religiosa.

Secondo la migliore esegesi contemporanea, il piano originale di Gesù è riassunto nel Padre nostro. In esso si affermano le due “fami” dell’essere umano: la fame di Dio e la fame di pane. Il nostro Padre sottolinea lo slancio verso l’alto. Solo unendo il nostro Padre con il nostro pane quotidiano si può dire Amen e sentirsi nella tradizione del Gesù storico. Lui ha lanciato un sogno, il Regno di Dio, la cui essenza si trova nei due poli, nel Padre nostro e nel pane nostro di ogni giorno vissuti nello spirito delle beatitudini.

Ciò implica per il cristianesimo l’audacia di disoccidentalizzarsi, abbandonare lo spirito maschilista e patriarcale, e organizzare reti di comunità che si accolgano reciprocamente e siano incarnate nelle culture locali e insieme formino il grande sentiero spirituale cristiano, che si unisca agli altri percorsi spirituali e religiosi dell’umanità.

Realizzati questi presupposti, oggi si presentano oggi alle chiese e al cristianesimo quattro sfide fondamentali.

La prima è quella di salvaguardare la casa comune e il sistema di vita minacciato dalla crisi ecologica diffusa e dal riscaldamento globale. Non è impossibile una catastrofe ecologica e sociale che potrà decimare la vita di gran parte dell’umanità. La domanda non è più che cosa sarà il cristianesimo nel futuro, ma come proteggere il futuro della vita e la biocapacità della Madre Terra. Lei non ha bisogno di noi. Noi abbiamo bisogno di lei.

La seconda sfida è come mantenere l’umanità unita. I livelli di accumulazione della ricchezza materiale in poche mani (1% controlla la maggior parte della ricchezza del mondo) possono dividere l’umanità in due parti: coloro che godono di tutti i vantaggi della scienza e della tecnologia e coloro che devono affrontare l’esclusione, senza nessuna speranza di vita o anche essere considerati subumani. È importante dire che abbiamo solo una Casa Comune e che tutti siamo fratelli e sorelle, figli e figlie di Dio.

La terza sfida è la promozione della cultura della pace. Le guerre, il fondamentalismo politico e l’intolleranza , difronte alle differenze culturali e religiose, possono portare a livelli di violenza di alta potenza distruttiva. Eventualmente possono degenerare in guerre mortali con armi chimiche, biologiche e nucleari.

La quarta sfida si riferisce all’America Latina: l’incarnazione nelle culture indigene e afro-americani. Dopo avere quasi sterminato le grandi culture originali e schiavizzato milioni di africani, è necessario lavorare per aiutarli a riformarsi biologicamente e a salvare la loro saggezza ancestrale e vedere riconosciute le loro religioni come forme di comunicazione con Dio. Per la fede cristiana la sfida è di incoraggiarli a fare la sintesi in modo da dar luogo ad un cristianesimo originale, sincretico, africano-indiano-latino-brasiliano.
La missione delle chiese, delle religioni e dei percorsi spirituali è quello di alimentare la fiamma interiore della presenza del Sacro e del Divino (espresso in migliaia di nomi), nel cuore di ogni persona.

Il cristianesimo, nella fase planetaria e unificata della Terra, forse diventerà una vasta rete di comunità, incarnate nelle diverse culture, testimonianti la gioia del Vangelo che promuove in questo mondo una vita giusta e fraterna, in particolare per i più emarginati, che si completerà al termine della storia.
Oggi, tocca a noi vivere la convivialità tra tutti e tutte, simbolo anticipatorio di un’umanità riconciliata che celebra i buoni frutti della Madre Terra. Non era questa la metafora di Gesù, quando parlava del regno della vita, della giustizia e dell’amore?

• Leonardo Boff ha scritto Ecclesiogenesi. Le comunità di base reinventano la Chiesa. Borla, Roma 1978.
• (Traduzione di S. Toppi e M. Gavito)
• Dal sito: https://leonardoboff.wordpress.com/2016/12/02/per-dove-passa-il-futuro-del-cristianesimo/