“La Chiesa non è Google Traduttore”, i limiti di Liturgiam Autenticam. Intervista ad Andrea Grillo

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Allinterno della Chiesa Cattolica c’è un dibattito, tra gli addetti ai lavori, sulla liturgia. Un tema importante per la Chiesa del post-Concilio Vaticano II. Anche in questi ultimi anni il dibattito è continuato. Uno dei punti di confronto è il documento “Liturgiam authenticam”. Ne parliamo, in questa intervista, con il teologo Andrea Grillo, docente di Liturgia al Sant’Anselmo di Roma.

 

Professore, c’è un dibattito nella Chiesa di Roma, che sembra riguardare più gli “addetti ai lavori”, ma in realtà è di interesse per tutto il popolo di Dio. Stiamo parlando della traduzione in liturgia. Come si sa con il Concilio Vaticano II è avvenuta la rivoluzione copernicana nella liturgia Cattolica.  Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II è stato Emanato un documento “Liturgiam authenticam” che pone dei criteri di traduzione dal latino alle diverse lingue. Sappiamo che l’attuale prefetto della Congregazione per il culto divino è l’ultra conservatore Cardinale Sarah, che sogna una “riforma della riforma” della liturgia cattolica. Quali sono i limiti, secondo lei, del documento “Liturgiam authenticam”?

 

La prima cosa da dire è che il documento del 2001 si inserisce in una lunga catena di testi, prodotti dal magistero centrale – papale e curiale – tra la fine degli anni 80 fino a tutto il primo decennio del nuovo secolo. Sono tutti documenti accomunati da una caratteristica: sono frutto della paura. Reagiscono alla fiducia e alla confidenza che il Concilio Vaticano II aveva introdotto nella Chiesa degli anni 60 e 70. superando il trauma antimoderno che aveva paralizzato la Chiesa per più di un secolo. Ora ci si muove di nuovo con la antica sfiducia e diffidenza. Si ripescano stili ottocenteschi. Nel nostro caso è la sfiducia e la diffidenza verso le lingue e le culture moderne. Ci si spoglia della autorità di tradurre e per tranquillizzarsi si impone un modo per tradurre dal latino che ha un esito che non è esagerato definire comico: se si seguono le regole stabilite a tavolino, il testo che ne risulta appare incomprensibile; se invece lo si vuole rendere comprensibile, si è costretti a violare le regole. E non se ne esce. Questa è l’esperienza di tutte le Conferenze episcopali negli ultimi 15 anni. Le vicende del Messale per gli anglofoni, dei vescovi tedeschi e di quelli francesi e italiani sono gli esempi più noti.

 

Come è possibile che una “Chiesa in uscita” sia preoccupata per la fedeltà testuale al latino?

 

La questione è che il latino diventa il simbolo di una tradizione intoccabile e mummificata. Ci si attacca al latino per non fare i conti con la realtà. Ma si deve riconoscere che il latino, che è la lingua in cui si è espressa la Chiesa per 1500 anni, non è né la lingua originaria della Chiesa né quella oggi in uso. La lingua latina non è più viva, perché non è più parlata dai bambini. Dante lo aveva capito 700 anni fa. Questo non giustifica la ignoranza del latino. Ma non giustifica neppure le illusioni reazionarie di chi vorrebbe“ricominciare dal latino”. Oggi si deve poter cominciare dal francese, dall’inglese, dall’italiano,,,

 

A livello liturgico, secondo lei, quali possono essere i miglioramenti per rendere la liturgia più legata all’inculturazione del Vangelo?

 

Proprio sul piano della “traduzione” dobbiamo riconoscere che le “lingue moderne” possono esprimere aspetti della tradizione che il greco e il latino non riuscivano ad esprimere. Ogni lingua ha i suoi pro e i suoi contro. Anche il latino e il greco hanno limiti che il francese o l’inglese possono superare. Ad ogni modo, la traduzione deve essere sempre fedele e rispettosa. Ma bisogna definire bene che cosa significa: la fedeltà e il rispetto verso un testo devono essere diretti verso due soggetti: chi lo ha scritto e chi lo legge. Per questo una traduzione buona non è mai soltanto letterale. Il linguaggio è sempre molto più complesso di una pure sequenza di parole. A tradurre parola per parola ci pensa già Google Traduttore: la Chiesa dovrebbe guardare più lontano, come ha sempre fatto.

Vi sono esempi in questo senso?

 

In realtà non bisogna inventarsi inculturazioni strane o straordinarie. L’ atto di culto è di per sé necessariamente inculturato. Questa è stata l’esperienza degli apostoli Pietro e di Paolo, di papa Gregorio Magno e del teologo S. Tommaso. Chi vuole bloccare la Chiesa su una traduzione letterale dal latino non conosce la storia bimillenaria e si lascia condizionare solo da un antimodernismo tanto viscerale quanto rozzo.

 

Sappiamo che con Benedetto XVI è stato promulgato il documento “Summorum pontificum” che liberalizzò la possibilità di celebrare con il rito tridentino. Non pensa che questo sia contraddittorio con lo spirito del Concilio? Cosa ne pensa Papa Francesco?

 

Lei mi chiede “che cosa pensa papa Francesco”? Io le rispondo semplicemente: Francesco pensa. Basta questo. Se pensi davvero alla questione, non puoi lasciare in piedi questo pasticcio teologico e pastorale, questo parallelismo di forme non coerenti e conflittuali. Come attuare questo cambiamento, con quali tempi e modalità, fa parte di scelte di opportunità che non dipendono solo dalla cosa, ma anche dal contesto. E anche questo il papa lo sa e lo pensa adeguatamente.

 

Queste posizioni tradizionalistiche quanto sono presenti nella Chiesa?

 

Sono presenti poco dal punto di vista dei numeri, molto dal punto di vista della presenza mediatica. Bisogna tuttavia distinguere bene tra nazioni e Chiesa diverse. Non tutti i paesi sono uguali e non tutte le Chiese sono sullo stesso piano. La questione dei tradizionalisti diventa ingestibile se si pensa di affrontarla con “norme generali”, che valgono per tutta la Chiesa. Solo la competenza dei singoli Vescovi, che conoscono le differenze locali, qui è capace di muoversi adeguatamente

 

Vuole aggiungere qualcosa?

 

Voglio raccontare una storia che può aiutare a comprendere la questione. L’ho sentita raccontare da Rita Levi Montalcini, in televisione. Inaugurano molti anni fa un grande software di traduzione, che sa tradurre tutto, da ogni lingua. Ma letteralmente. Un acuto provocatore va alla inaugurazione e mette in crisi il sistema. Chiede di tradurre in cinese il proverbio inglese “out of sight out of mind” (che in italiano corrisponde, non letteralmente, a “lontano dagli occhi lontano dal cuore”). Il computer traduce in caratteri cinesi. Poi lo stesso personaggio chiede di tradurre in italiano. E il risultato è INVISIBILE IMBECILLE. Se si perde il senso metaforico, si fraintende tutto. Noi sulla base di LA abbiamo rischiato di produrre continuamente traduzioni alla maniera di “invisibile imbecille”.

La liturgia usa al 90 % linguaggio metaforico. Pensare di tradurla con metodo letterale è puramente illusorio. Per paura si fanno disastri. Si demonizza la libertà e la creatività. Ma senza libertà le metafore non si capiscono. Sarebbe sufficiente leggere in LA quella regola che imporrebbe di rispettare le figure retoriche latine nella lingua di traduzione. Ma questo è proprio cio che non si può mai fare. Ogni lingua ha le sue figure particolari. Tradurre non è imporre le figure retoriche di una lingua all’altra, ma mediare tra una e l’altra. E per questo ci vuole libertà. Che non si può mai barattare con un piatto di lenticchie.