“Il Sindacato ha le sue grandi stagioni quando è profezia”. Un testo di Papa Francesco

Papa Francesco

Pubblichiamo il testo integrale del discorso, tenuto questa mattina in

Vaticano, ai delegati della Cisl in occasione del loro Congresso Nazionale.

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

AI DELEGATI DELLA CONFEDERAZIONE ITALIANA SINDACATI LAVORATORI (CISL)

Aula Paolo VI

Mercoledì, 28 giugno 2017

 

Cari fratelli e sorelle,

vi do il benvenuto in occasione del vostro Congresso, e ringrazio la Segretaria Generale per la sua presentazione.

Avete scelto un motto molto bello per questo Congresso: “Per la persona, per il lavoro”. Persona e lavoro sono due parole che possono e devono stare insieme. Perché se pensiamo e diciamo il lavoro senza la persona, il lavoro finisce per diventare qualcosa di disumano, che dimenticando le persone dimentica e smarrisce sé stesso. Ma se pensiamo la persona senza lavoro, diciamo qualcosa di parziale, di incompleto, perché la persona si realizza in pienezza quando diventa lavoratore, lavoratrice; perché l’individuo si fa persona quando si apre agli altri, alla vita sociale, quando fiorisce nel lavoro. La persona fiorisce nel lavoro. Il lavoro è la forma più comune di cooperazione che l’umanità abbia generato nella sua storia. Ogni giorno milioni di persone cooperano semplicemente lavorando: educando i nostri bambini, azionando apparecchi meccanici, sbrigando pratiche in un ufficio… Il lavoro è una forma di amore civile: non è un amore romantico né sempre intenzionale, ma è un amore vero, autentico, che ci fa vivere e porta avanti il mondo.

Certo, la persona non è solo lavoro… Dobbiamo pensare anche alla sana cultura dell’ozio, di saper riposare. Questo non è pigrizia, è un bisogno umano. Quando domando a un uomo, a una donna che ha due, tre bambini: “Ma, mi dica, lei gioca con i suoi figli? Ha questo ‘ozio’?” – “Eh, sa, quando io vado al lavoro, loro ancora dormono, e quando torno, sono già a letto”. Questo è disumano. Per questo, insieme con il lavoro deve andare anche l’altra cultura. Perché la persona non è solo lavoro, perché non sempre lavoriamo, e non sempre dobbiamo lavorare. Da bambini non si lavora, e non si deve lavorare. Non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo da vecchi. Ci sono molte persone che ancora non lavorano, o che non lavorano più. Tutto questo è vero e conosciuto, ma va ricordato anche oggi, quando ci sono nel mondo ancora troppi bambini e ragazzi che lavorano e non studiano, mentre lo studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei ragazzi.

E quando non sempre e non a tutti è riconosciuto il diritto a una giusta pensione – giusta perché né troppo povera né troppo ricca: le “pensioni d’oro” sono un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni. O quando un lavoratore si ammala e viene scartato anche dal mondo del lavoro in nome dell’efficienza – e invece se una persona malata riesce, nei suoi limiti, ancora a lavorare, il lavoro svolge anche una funzione terapeutica: a volte si guarisce lavorando con gli altri, insieme agli altri, per gli altri.

E’ una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti. Quando i giovani sono fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo, innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità. È allora urgente un nuovo patto sociale umano, un nuovo patto sociale per il lavoro, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare. Il dono del lavoro è il primo dono dei padri e delle madri ai figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società. È la prima dote con cui li aiutiamo a spiccare il loro volo libero della vita adulta.

Vorrei sottolineare due sfide epocali che oggi il movimento sindacale deve affrontare e vincere se vuole continuare a svolgere il suo ruolo essenziale per il bene comune.

La prima è la profezia, e riguarda la natura stessa del sindacato, la sua vocazione più vera. Il sindacato è espressione del profilo profetico della società. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”. Come dimostra anche la grande tradizione della CISL, il movimento sindacale ha le sue grandi stagioni quando è profezia. Ma nelle nostre società capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia. Questa è la profezia.

Seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono delle sentinelle, che vigilano nel loro posto di vedetta. Anche il sindacato deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.

Il capitalismo del nostro tempo non comprende il valore del sindacato, perché ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa. Questo è uno dei peccati più grossi. Economia di mercato: no. Diciamo economia sociale di mercato, come ci ha insegnato San Giovanni Paolo II: economia sociale di mercato. L’economia ha dimenticato la natura sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei legami e dei patti. Ma forse la nostra società non capisce il sindacato anche perché non lo vede abbastanza lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro.

Pensiamo al 40% dei giovani da 25 anni in giù, che non hanno lavoro. Qui. In Italia. E voi dovete lottare lì! Sono periferie esistenziali. Non lo vede lottare tra gli immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Non lasciatevi bloccare da questo. So che vi state impegnando già da tempo nelle direzioni giuste, specialmente con i migranti, con i giovani e con le donne. E questo che dico potrebbe sembrare superato, ma nel mondo del lavoro la donna è ancora di seconda classe. Voi potreste dire: “No, ma c’è quell’imprenditrice, quell’altra…”. Sì, ma la donna guadagna di meno, è più facilmente sfruttata… Fate qualcosa. Vi incoraggio a continuare e, se possibile, a fare di più. Abitare le periferie può diventare una strategia di azione, una priorità del sindacato di oggi e di domani. Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in pietre angolari.

Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.

Vi ringrazio per questo incontro, vi benedico, benedico il vostro lavoro e auguro ogni bene per il vostro Congresso e il vostro lavoro quotidiano. E quando noi nella Chiesa facciamo una missione, in una parrocchia, per esempio, il vescovo dice: “Facciamo la missione perché tutta la parrocchia si converta, cioè faccia un passo in meglio”. Anche voi “convertitevi”: fate un passo in meglio nel vostro lavoro, che sia migliore. Grazie!

E adesso, vi chiedo di pregare per me, perché anch’io devo convertirmi, nel mio lavoro: ogni giorno devo fare meglio per aiutare e fare la mia vocazione. Pregate per me e vorrei darvi la benedizione del Signore.

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Doveva morire, Il caso Pantani. Un libro di Chiarelettere

Gli ultimi giorni di Marco Pantani

Le inchieste sulla morte

Le clamorose rivelazioni di Vallanzasca

La camorra e le scommesse clandestine

Le ombre, i misteri

La verità indicibile dietro un suicidio troppo imperfetto

 

Giovanni Falcone disse: “Prima ti delegittimano, poi ti isolano e poi ti ammazzano”.

Ecco, forse anche con Pantani è andata così.

Una morte da rockstar e il caso è chiuso. Ma qui non siamo a Los Angeles, siamo nel paese dei misteri irrisolti, dei depistaggi e delle doppie verità. State per leggere un giallo scritto da un criminologo che in un crescendo di suspense e rivelazioni entra nella scena di un suicidio troppo imperfetto per essere vero.

Una storia che deve essere raccontata anche dopo che l’iter processuale ha detto la sua ultima parola. Una storia che ci porta dritti nel territorio di una verità indicibile e clamorosa. Marco Pantani era un fuoriclasse troppo irregolare. La squalifica che lasciò sgomenta l’Italia intera era in realtà una gigantesca truffa ai suoi danni. In un giro di scommesse clandestine la criminalità

organizzata aveva puntato cifre folli sulla sconfitta del Pirata. Gli elementi rilevanti per un criminologo fanno ritenere del tutto improbabile l’ipotesi del suicidio. Allora il caso non può essere chiuso.

L’autore chiede l’intervento della Commissione parlamentare antimafia, forse è l’unica strada per stabilire una verità che rischia ancora di far saltare troppi intoccabili. L’ultima strada per rendere giustizia a un uomo fragile e a un grande campione.

L’AUTORE

Luca Steffenoni è un criminologo che lavora come consulente per diversi tribunali. Da anni segue i grandi gialli italiani unendo le sue competenze professionali all’attività di scrittore e narratore. È stato redattore della rivista “Delitti & Misteri” ed è autore di vari libri, tra i quali ricordiamo: “Presunto colpevole” (Chiarelettere 2009) e “I 50 delitti che hanno cambiato l’Italia” (Newton Compton 2016). Come criminologo è spesso ospite di trasmissioni televisive e radiofoniche.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto  del volume

QUESTO LIBRO

Sembra un segno del destino che l’ultima pagina di questo libro venga scritta nel giorno in cui il mondo del ciclismo si raduna ad Alghero per onorare la centesima edizione del Giro d’Italia. La corsa parte con mestizia, nel ricordo di Michele Scarponi, morto il 22 aprile in un drammatico impatto mentre si allenava sulle strade di casa. Mi piace immaginare un Pantani di mezza età capace di trovare le parole giuste per spiegare il senso di questo sport che sta diventando sempre più estremo e pericoloso. Forse polemizzerebbe da uno studio televisivo, probabilmente avrebbe attinto a quella tremenda immagine di «torrida tristezza» alla quale fa riferimento in una sua lettera. Chissà. È tempo di lasciare questo lavoro al giudizio dei lettori. Per un criminologo la storia del ciclista di Cesenatico è essenzialmente ricerca della verità sulla sua tragica fine. Se l’esperienza professionale può aiutare a capire cosa sia successo a Rimini quel 14 febbraio 2004, diventa difficile esimersi dall’esprimere una posizione personale sul «caso Pantani», provando a dare risposta ai tanti enigmi lasciati aperti.

 A Madonna di Campiglio, nel giugno del 1999, è stata commessa una frode sportiva ai danni di Marco Pantani a opera di esponenti dei clan camorristici interessati al ricco mercato delle scommesse clandestine?

La ricostruzione effettuata dai giudici del Tribunale di Forlì fornisce una risposta affermativa, pur vincolata al tempo trascorso da quel giorno e all’impossibilità di esplorare le connivenze, che tuttavia debbono esserci state, tra l’ambiente del ciclismo professionistico e la malavita organizzata.

Posata questa prima pietra sul terreno della verità, diventa fondamentale capire se Pantani, a più di quattro anni da quell’episodio e molto prima che emergessero i contorni di quella immensa truffa, potesse rappresentare un pericolo o un semplice fastidio per la camorra o per chi, all’interno del mondo sportivo, aveva permesso che tale truffa si realizzasse o l’aveva addirittura promossa e sostenuta. Qualcuno che avrebbe voluto zittire per sempre la voce di quel campione polemico e fin troppo tenace.

La risposta in questo caso è molto più difficile. Si tratta di un’ipotesi che forse non è mai stata scandagliata dagli inquirenti, nemmeno durante l’inchiesta del 2014, inevitabilmente influenzata dalla convinzione che dieci anni prima i colleghi della Procura di Rimini avessero agito nella maniera corretta e che quello avvenuto nella camera del residence Le Rose fosse un banale suicidio. L’opinione dell’autore è che su questo movente non sia possibile far luce mediante il percorso giudiziario tradizionale ma sia  necessario l’intervento della Commissione parlamentare antimafia, la sola in grado di collegare le tessere del grande puzzle delle attività criminali che si muovevano tra sport e scommesse clandestine a cavallo del nuovo millennio. Date le premesse, il tema centrale del caso Pantani diventa ovviamente capire se nella stanza D5 si sia consumato un omicidio o un suicidio. Ancora una volta realtà processuale e punto di vista di chi scrive divergono. Tutti i dati criminologicamente rilevanti concorrono a far ritenere altamente improbabile l’ipotesi di un suicidio. Rilievi autoptici e ambientali, posizione del corpo e presunte modalità di assunzione della dose mortale di cocaina erodono la versione ufficiale e rendono poco credibile la tesi che Marco Pantani abbia voluto togliersi la vita. L’anamnesi stessa, ovvero la storia personale del campione, unita a un’indagine sulla sua personalità e sugli accadimenti immediatamente precedenti a quel14 febbraio 2004, porta a escludere che si sia trattato di suicidio.

Eppure l’inchiesta del 2004 fotografa una realtà diversa. Possibile che sia stata fatta male, chiusa in modo frettoloso o addirittura in odore di complotto, come molti sospettano? Niente di tutto questo. Le indagini, compatibilmente con la cultura investigativa del periodo, sono state effettuate in maniera corretta.

Confondendo la realtà con la finzione cinematografica si è gridato allo scandalo per la carenza di un’approfondita indagine scientifica, per la mancata ricerca di tracce biologiche mediante Luminol, o per la carenza di catalogazione delle impronte digitali presenti sulle pareti e sugli oggetti.

Una stanza d’albergo è per sua natura piena di impronte e tracce, a che servirebbe esaminarle? Abbiamo idea di quante manipolazioni ha subito una bottiglia di acqua minerale, dalla fabbrica al trasporto, prima di arrivare sulla mensola della camera D5? Possiamo credere che un assassino professionista, perché di questo si tratterebbe, non utilizzi dei guanti e lasci impronte ovunque? La realtà è che l’indagine svoltasi nel 2004 fu eseguita correttamente. Sono le sue conclusioni a essere discutibili, perché inevitabilmente vincolate ai pochi elementi a suo tempo in mano agli inquirenti.

Per un meccanismo di banale economia giudiziaria, l’indagine sull’omicidio di Marco Pantani non c’è stata.

L’unica pista seguita dagli inquirenti nel 2004, e tenacemente difesa dieci anni dopo, è quella del suicidio.

Tra una tesi scientificamente improbabile come il suicidio e una che può sembrare del tutto fantasiosa come l’omicidio, il sistema giustizia tenderà sempre a preferire la prima.

Pantani forse doveva morire, perché rappresentava una spina nel fianco non solo per chi aveva commesso l’illecito di Madonna di Campiglio, ma anche per i tanti che con la camorra in quegli anni avevano fatto affari.

Proviamo a pensare cosa sarebbe accaduto se un ciclista del calibro di Pantani, a fine carriera, avesse seguito le orme di Danilo Di Luca, mettendo nero su bianco le ipocrisie del sistema antidoping, e denunciando gli interessi economici e gli affari che sovrastano il mondo del ciclismo professionistico. Forse il sistema stesso dietro uno degli sport più popolari sarebbe crollato. Dietrologia? Può darsi. Sarebbe stato comunque interessante se almeno in una delle due inchieste svoltesi a Rimini si fosse contemplata anche questa ipotesi. Purtroppo non è accaduto. Agli inquirenti, a pochi minuti dal ritrovamento del cadavere, è stata fornita una versione suggestiva, e in parte falsa, su chi fosse Pantani e sui presunti motivi di un suicidio. Forse l’immagine romantica e dannata del campione faceva comodo a tanti, sorvolava su chi, tra i personaggi a lui vicini, gli avesse fornito le prime piste di cocaina, e allontanava responsabilità e sensi di colpa di chi non aveva saputo o voluto sostenerlo in vita. Giovanni Falcone diceva: «Prima ti delegittimano, poi ti isolano e poi ti ammazzano». Ecco, forse è andata così.

 

Luca Steffenoni, Il caso Pantani.Doveva morire, ED. Chiarelettere, Milano 2017, Misteri italiani, pp. 160, prezzo: 12 euro

“Costruire, nel Pd, attorno al Pd e anche oltre il Pd l’unità dei riformisti”. Intervista a Giorgio Tonini

Giorgio Tonini (La Presse)

La politica italiana vive giorni di grande fibrillazione .Sullo sfondo c’è ancora la vicenda ConsipIntanto prosegue a sinistra il dibattito sulle nuove possibili alleanze di governo.

Di questo parliamo con il Senatore Giorgio Tonini, vice-presidente del gruppo PD al Senato e Presidente della Commissione Bilancio a Palazzo Madama.

Senatore Tonini, in questi ultimi 15 giorni la politica italiana ha vissuto un “immenso gioco dell’oca”. Mi riferisco certamente alla vicenda della legge elettorale e, legata a questa, alla “scoperta” (che assomiglia alla scoperta dell’acqua calda) da parte di Renzi delle coalizioni. Mi scuso per la durezza Senatore: ma è credibile un politico che si comporta così?

 

La politica italiana è entrata in una nuova fase di grave incertezza strategica il 4 dicembre scorso, quando l’esito negativo del referendum ha segnato il fallimento dell’ambizioso disegno riformatore che doveva dare all’Italia una solida democrazia maggioritaria. Il tanto vituperato «combinato disposto» di riforma del bicameralismo e legge elettorale maggioritaria a doppio turno avrebbe consentito di andare al voto, al termine di questa legislatura, poco importa se qualche mese prima o meno, consegnando nelle mani dei cittadini elettori il potere di decidere a quale partito assegnare la maggioranza dei seggi in Parlamento e la possibilità di governare in modo stabile per l’intera legislatura. Svanita, per l’ennesima volta, questa prospettiva, a causa certamente degli errori di Renzi e di tutti noi, ma anche dell’irresponsabilità di gran parte della classe dirigente, non solo politica, del paese, ci siamo ritrovati in pieno contesto neo-proporzionale: alla persistenza del bicameralismo paritario, si sono aggiunte, nel frattempo, due sentenze della Corte costituzionale che hanno drasticamente indebolito la possibilità di imprimere una curvatura maggioritaria alla legge elettorale. È in questo scenario che il segretario del Pd, che nel frattempo ha vinto nuovamente la sfida democratica per la guida del partito, ha cercato di corrispondere all’appello del presidente Mattarella di dare comunque al paese una legge elettorale omogenea alla Camera e al Senato e condivisa da un ampio schieramento di forze politiche, ben oltre i confini della maggioranza di governo.

 

Quindi, anche negli ultimi giorni, Renzi ha le idee chiare, secondo lei? A molti non parrebbe…

 

L’atto di responsabilità e generosità, da parte di Renzi e del Pd, di non lasciare nulla di intentato per corrispondere alle sollecitazioni del Capo dello Stato, è stato scambiato, non sempre in buona fede, per un’abiura del principio maggioritario e per un’opzione a favore di quello proporzionale. In ogni caso, ci ha pensato l’ennesimo voltafaccia del M5s a far fallire l’accordo sul sistema tedesco e a far tornare tutti alla casella di partenza di quello che lei ha giustamente definito un gioco dell’oca. La casella di partenza sono le leggi elettorali vigenti (l’Italicum alla Camera e il Porcellum al Senato), come modificate dalle due citate sentenze della Consulta. In entrambe ha resistito un barlume di maggioritario: alla Camera col premio di maggioranza attribuito alla lista che prenda più voti delle altre e superi la soglia del 40 per cento dei votanti; al Senato con una soglia di accesso al riparto dei seggi fissata all’8 per cento in ciascuna regione… È in questo contesto che si è tornati a parlare di coalizione, o meglio, almeno alla Camera, di una «lista coalizionale» di centrosinistra, imperniata sul Pd come soggetto federatore di uno schieramento più ampio. Ad essere sinceri, non mi pare una grande novità, tanto meno una svolta. È quello che il Pd ha sempre detto e pensato, almeno da quando Renzi è il segretario.

 

A molti è parso di vedere chiaramente nell’accordo sulla legge proporzionale la pazza voglia di dar vita, dopo il voto, ad una «Grande coalizione» con il Cav. Insomma siamo alle solite:  il tatticismo renziano ha sempre un unico obiettivo, quello di tornare a Palazzo Chigi. Non le sembra che sia giunto il momento di cambiare per davvero? 

 

Il Pd ha fatto proprio, fin dalla sua fondazione, dieci anni fa, il principio  sul quale si basano tutte le democrazie parlamentari europee: alla guida del governo è chiamato il leader del partito più votato, che dunque è al tempo stesso capo del partito e del governo. Solo in Italia questa norma è continuamente sottoposta a obiezioni e critiche che nel resto d’Europa sono incomprensibili. Merkel e May, Tsipras e Rajoy hanno una sola cosa in comune: tutti e quattro sono premier del loro paese, in quanto sono, e fino a quando resteranno, leader del partito più votato. A Londra come a Berlino, a Madrid come ad Atene, sarebbe semplicemente inimmaginabile, perché in definitiva antidemocratico, che il premier fosse il leader di un partito minore, o un esponente minore del partito principale, o addirittura una personalità non di partito. Perfino in Francia c’è questa fusione di leadership politica e istituzionale, a condizione che il presidente eletto conquisti anche una chiara maggioranza parlamentare. Aggiungo che in tutte le democrazie europee si forma il governo attorno al leader del partito più votato, perfino nel caso che questi non disponga della maggioranza assoluta dei seggi in parlamento, come è il caso, in questa fase, di tutti e quattro i leader-premier citati. Nessuna forza minore si sognerebbe infatti di condizionare il proprio appoggio al governo esprimendo un veto alla premiership nei confronti del leader del primo partito. Presentare quindi la sacrosanta ambizione del leader del Pd di tornare alla guida del governo del paese attraverso una vittoria elettorale, anziché come la fisiologia di una democrazia matura e compiuta, come una pretesa capricciosa, se non una deriva autoritaria, non è altro che una delle manifestazioni più vistose e preoccupanti dell’anomalia della democrazia italiana, un’anomalia che il paese sta pagando cara da ormai troppo tempo.

 

Pisapia, Prodi in questi giorni hanno lanciato segnali chiari. E Prodi si è messo a disposizione per tenere unito il Centrosinistra. Lo sosterrete senza riserve? Insomma sarete aperti alla mediazione? E quali punti strategici dovrebbe avere una buona mediazione? 

 

Il Pd è nato per unire il centrosinistra. Ma l’unità del centrosinistra è un obiettivo totalmente altro rispetto ai due miti politici della Prima Repubblica: l’unità delle sinistre e l’unità politica dei cattolici. La definizione del Pd che preferisco è quella che ne diede Romano Prodi: il Pd è la «Casa comune dei riformisti», quei riformisti che prima erano divisi lungo linee di frattura disegnate dalla guerra fredda e che solo dopo la caduta del Muro di Berlino è stato possibile riunire, prima nell’Ulivo e poi nel Pd. Questa è l’unità che dobbiamo costruire, nel Pd, attorno al Pd e anche oltre il Pd: l’unità dei riformisti per cambiare l’Italia, per renderla un paese moderno e aperto, competitivo e inclusivo. Come i governi del Pd hanno cercato e stanno cercando di fare in questa difficile legislatura. Non possiamo invece riproporre agli elettori, che sarebbero i primi a rifiutarla, una unione senz’anima, machiavellica, pensata e costruita solo per vincere, ma poi nei fatti incapace di governare, perché priva di un vero collante politico e programmatico. Il Pd è nato proprio per superare le coalizioni coatte, tenute insieme solo dal nemico comune e per dare una vocazione maggioritaria all’unità dei riformisti.

 

Domenica prossima ci saranno i ballottaggi. In alcune realtà il PD è allo sbando. Non sarebbe ora che Renzi sì prenda cura del partito? 

 

Sì, spero che la nuova segreteria riesca a fare di più e meglio di quanto non siamo riusciti a fare noi negli anni scorsi. Detto questo, il Pd è il partito che ha già vinto nel numero maggiore dei comuni dove si è votato l’altra domenica e dove non ha vinto è quasi ovunque al ballottaggio. Dunque non è affatto allo sbando. Come avrebbe detto Mark Twain, la notizia della morte del Pd è risultata largamente esagerata. Così come, sempre alla luce dei risultati delle amministrative, è apparsa largamente esagerata e quantomeno prematura l’attribuzione al M5s dell’aura dell’invincibilità.

 

Ultima domanda: Renzi sarebbe disposto anche per la prossima legislatura a lasciare il campo a Gentiloni in nome di un interesse superiore, l’unità del centrosinistra?

 

Pensare di costruire l’unità del centrosinistra contro il leader del Pd, indicato come candidato premier da una consultazione popolare che ha coinvolto quasi due milioni di persone, mi parrebbe una ben strana pretesa. Su questo Gentiloni per primo ha detto parole chiare. Se gli elettori daranno al Pd la forza per proporsi come asse portante del governo del paese nella prossima legislatura, a guidare il governo non potrà che essere chiamato il leader del Pd. Come avverrebbe in tutti gli altri paesi d’Europa.

La nuova “Rivoluzione Metalmeccanica”
Intervista a Giuseppe Sabella

Siamo nell’epoca dell’industria 4.0. Il termine Industria 4.0 (o Industry 4.0) “indica una tendenza dell’automazione industriale che integra alcune nuove tecnologie produttive per migliorare le condizioni di lavoro e aumentare la produttività e la qualità produttiva degli impianti” (da Wikipedia). Il nuovo contesto produttivo pone non pochi problemi al sindacato confederale. Come sta rispondendo a questa sfida? Ne parliamo con Giuseppe Sabella. Sabella è direttore di Think-inthink tank specializzato in lavoro e welfare nel cui comitato scientifico fanno o hanno fatto parte eminenti studiosi e esperti, quali in particolare Tiziano Treu, Giuliano Cazzola e Sergio Belardinelli. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Rivoluzione Metalmeccanica – dal caso Fiat al rinnovo unitario del contratto nazionale” (Guerini e Associati, 2017). Il libro è da pochi giorni nelle librerie.

 

Sabella nel suo libro “Rivoluzione Metalmeccanica – dal caso Fiat al rinnovo unitario del contratto nazionale” (Guerini e Associati, 2017), mette in evidenza il nuovo protagonismo dei Sindacati dei metalmeccanici (Fim-Fiom-Uilm). Intanto, prima di addentrarsi nel libro, parliamo per un attimo del Congresso, appena concluso, della Fim-Cisl. Quali sono state le novità strategiche?

Credo che il Congresso della Fim sia stato un evento importante. A parte la grande partecipazione di persone che dimostra che il sindacato – a differenza del partito – è un luogo ancora vivo e capace di aggregare, tutti coloro che hanno avuto modo di prendervi parte hanno potuto percepire nitidamente che la Fim è un’organizzazione che sta guidando la trasformazione del movimento sindacale: è chiaro che qui c’è la consapevolezza di cosa sia il lavoro oggi e di cosa richieda a chi lo rappresenta; per dirlo con parole care a Marco Bentivogli, di cosa sia il Lavoro 4.0: in particolare, contrattazione “sartoriale”, ovvero sempre più prossima all’impresa.

Veniamo al libro. Lei afferma che “i Meccanici stanno ridando la linea al movimento sindacale italiano”. Nella storia italiana, e non solo, non è sempre stato così?

Negli ultimi 20 anni sono state tante le tensioni e le rotture in seno al settore della metalmeccanica. È difficile dare la linea se non c’è unità. Ma la portata delle novità è stata tale – prima il caso Fiat e ora il rinnovo unitario – che oggi la metalmeccanica si pone come riferimento per il sistema delle relazioni industriali. Tuttavia, ogni settore ha la sua storia, la sua cultura, i suoi modelli: quindi, inutile pensare che tutti debbano fare come i meccanici.

Quale tipologia di sindacato si delinea in questa “Rivoluzione Metalmeccanica”?

Un sindacato capace di stare al fianco dell’impresa e di accompagnare la grande trasformazione. L’industria italiana ha risorse eccellenti, non si spiegherebbe altrimenti il successo del made in Italy nel mondo. Certo è che oggi più che mai queste risorse devono lavorare in modo compatto, armonico. In quest’ottica, in particolare nei luoghi di lavoro, il sindacato può essere un grande faro. Lo stesso rimando alla contrattazione aziendale non è soltanto importante per aspetti retributivi, ma anche per costruire il perimetro di regole più funzionale al luoghi di lavoro, all’impresa.

Quali sono i limiti di questa rivoluzione?

Benché in tutte le cose ci sia un limite, il rinnovo metalmeccanico – anche perché unitario – è una bella notizia per il lavoro nel nostro Paese. Certamente sarà la capacità di applicarne i dettami sul campo che farà la differenza. Lo spirito tuttavia è quello giusto, ci sono tutte le condizioni affinché questa grande intesa si possa rivelare un driver di cambiamento.

Come si sviluppa la dialettica, per usare una “categoria” filosofica, tra conflitto e partecipazione? Non mi sembra una questione secondaria anche per il contesto di “Industria 4.0”…

Sicuramente c’è una componente del movimento sindacale più partecipativa ed una che lo è meno. La partecipazione è la strada obbligata verso Industry 4.0, questo perché per vincere la sfida c’è bisogno di tutte le forze in gioco. “La persona al centro” ama ripetere Fabio Storchi – Presidente di Federmeccanica e, insieme a Marco Bentivogli, autore di una delle due postfazioni del libro di Sabella, ndr – ; se questo non è uno slogan, significa che è chiaro a tutti che il futuro dell’industria e delle nostre imprese dipende molto dalla risorsa più importante, dal singolo lavoratore.

Vi sono casi concreti di eccellenza nell’industria metalmeccanica che rispondono al nuovo contesto del 4.0?

Si, a partire da Fiat ora FCA: gli stabilimenti italiani sono l’avanguardia nel mondo. Ma direi anche Ducati, Lamborghini, Brembo, Finmeccanica… insomma, il comparto metalmeccanico non solo vale quasi il 10% del nostro pil – oltre che il 46% dell’intero settore industriale – ma traina anche l’intera manifattura e i suoi prodotti ad alto valore aggiunto fanno il giro del mondo. Sarei però cauto sul contesto 4.0: il sistema produttivo italiano ha molta strada da fare.

Non era scontato che, con la firma del CCNL del 26 novembre 2016, si arrivasse all’unità tra le sigle sindacali. Il caso Fiat era stato lacerante. Oggi parlano tutti la stessa lingua?

Sono costretti a parlarla, ne va della loro stessa sopravvivenza. Oggi chi chiede di essere rappresentato vuole solo una cosa: il lavoro. Basta vedere quanto è costato alla Fiom il caso Fiat, decine di migliaia di tessere: certamente qualcosa è imputabile anche al comportamento antisindacale dell’impresa – che per questo è stata richiamata in sede giudiziale – ma molti lavoratori non hanno condiviso la battaglia di Landini. Lui stesso, a dire il vero, ha pubblicamente riconosciuto di aver sbagliato qualcosa. E oggi Fiom sta lavorando per rientrare in Fiat.

Un tempo l’operaio metalmeccanico incarnava la “classe generale”, era la misura della giustizia sociale. Nella situazione di oggi cosa può rappresentare?

Considerando quanto il settore è stato colpito dalla crisi economica – 300.000 posti di lavoro andati persi – oggi il lavoratore metalmeccanico rappresenta un modello di appartenenza alla comunità: ha sofferto in silenzio e oggi è di nuovo protagonista. Qualcuno si è permesso nell’Aula del Parlamento di dire “non siamo mica metalmeccanici”: in realtà questo certifica una sola cosa, la distanza della politica dal paese reale. E, se pensiamo alla grande capacità di sintesi che arriva da questo rinnovo, questo afferma la grande possibilità di rinascita che la rappresentanza del lavoro oggi ha.

Quale Nuova politica per l’Italia ? Intervista a Marco Damilano

Marco Damilano (Contrasto)

Il Nuovo è stato la via italiana al governo e alla politica. Ora sembra smarrito, per incapacità di elaborazione, fragilità culturale, inconsistenza progettuale. Ma nessuna restaurazione del passato è possibile. E l’Italia ha bisogno di una nuova politica, per uscire da questo limbo senza riforme e senza partiti, senza destra e senza sinistra, senza vecchio e senza nuovo. Serve un Nuovo che sia ricostruzione, rigenerazione. Allora la domanda è: quale nuova politica? Ne parliamo con Marco Damilano, vicedirettore del settimanale L’Espresso, che ha dedicato all’argomento un libro, appena uscito in libreria, dal titolo “Processo al nuovo” (Editore Laterza, pagg. 149, € 14,00)

Marco Damilano, il tuo libro è un processo radicale alla categoria del “nuovo” nella politica italiana. Un concetto assai evanescente … è cosi?

«Certo, ma anche affascinante. Il nuovo in questi venti anni è stato qualcosa di più di una forma comunicativa: è stato una sostanza. Giulio Bollati in “L’italiano” ha scritto anni fa che il trasformismo di fine Ottocento è stato la via che l’Italia si è data per modernizzare il Paese, con tutte le storture che conosciamo. Direi che allo stesso modo in questi ultimi decenni il nuovo – i leader che si sono presentati con la caratteristica del nuovo – è stata la via che la politica si è data per mascherare la verità di un paese che ha attraversato una lunga stagione di declino. E in questo, alla fine, si è rivelato evanescente, inadeguato. E lo dico dal punto di vista di uno che alle innovazioni politiche e istituzionali ha creduto e continua a credere».

La tua analisi parte dalla fine degli anni ’70. L’emergere della figura di Bettino Craxi, con il progetto della “Grande Riforma Costituzionale”, l’idea, cioè, di cambiare il Paese attraverso le Riforme. Una idea anticipatrice del renzismo….? O, per meglio dire, quanto craxismo c’è nella politica italiana di oggi?

«Nel 1979 Craxi scrive sull’Avanti, il quotidiano socialista, un editoriale intitolato “Ottava legislatura”, in cui lancia l’idea della Grande Riforma delle istituzioni. Siamo poco dopo l’omicidio di Aldo Moro, il vero spartiacque della storia repubblicana italiana: con il suo assassinio si interrompe il processo di autoriforma dei partiti e il peso della crisi della politica, che è una crisi di rappresentanza della società, si sposta sulle istituzioni e sulla Costituzione. L’altra innovazione craxiana è il cambiamento del partito socialista: da partito delle correnti a partito del capo, a forte leadership personale. In questo c’è l’anticipazione di alcuni fenomeni dei decenni successivi: il berlusconismo, il renzismo. Anche se Craxi si muoveva ancora, almeno all’inizio, in una situazione in cui la politica era forte. E la parola riforma richiamava tra i cittadini l’idea di un cambiamento in meglio. Mentre negli anni più vicini a noi ha assunto un significato opposto: restringimento dei diritti, tagli dello Stato sociale. E questo capovolgimento semantico pone un problema in più ai riformisti di tutta Europa».

Gli anni ’80 sono gli anni del conflitto sulla modernizzazione della politica italiana tra De Mita e Craxi…Incominciava anche la crisi del PCI di Berlinguer. Chi  vinse la battaglia sul nuovo? De Mita parlava di superare le categorie “Destra” “Sinistra” .  Venne sconfitto, perché Troppo avanti De Mita? Oppure era inconsistente il progetto?

«Per De Mita il superamento delle categorie di destra e sinistra significa rilanciare la Dc in un sistema bipolare che già allora il segretario della Dc voleva costruire. La Dc non si era mai definita come partito conservatore o di centrodestra, per De MIta deve diventare il partito dell’innovazione, contrapposto al Pci che in questo schema diventa il partito della conservazione, e al Psi di Craxi con cui c’è la sfida per la modernizzazione. Com’è finita, lo sappiamo. Hanno perso tutti. Nessuno è riuscito davvero a cambiare il sistema politico italiano. E l’economia negli anni Ottanta si è sviluppata a prescindere dalla politica».

Gli anni si chiudono con Il CAF…La restaurazione pura……è così?

«Craxi finisce ingabbiato nell’alleanza con Andreotti e Forlani, le destre democristiane. E manca il grande appuntamento con la storia, la caduta del muro di Berlino e la trasformazione del Pci. Il suo tramonto comincia qui».

Arriviamo agli ’90. L’esplosione, dopo Tangentopoli, del “nuovo”. Fu il “vero” nuovo? Oppure si può dire che la Seconda Repubblica non è mai nata?

«Oggi possiamo dire che Mani Pulite fu una rivoluzione soltanto giudiziaria. Quelle inchieste travolsero i partiti perché la loro crisi si era già consumata, ma non furono in grado di costruire un autentico cambiamento politico, e d’altra parte questo compito non poteva essere affidato ai giudici e ai pm. Servivano comportamenti nuovi, come scrisse già in quegli anni lo storico Pietro Scoppola. E nuovi partiti, nuovi leader, che arrivarono, in effetti, ma con il volto del berlusconismo. Che è stato nuovo, nuovissimo nelle forme, ma non ha cambiato il Paese: il ventennio del Cavaliere in politica si è concluso con un bilancio avvilente».

L’Ulivo fu il grande sogno. IL PD è la realizzazione del sogno?Considero l’Ulivo di Romano Prodi alla metà degli anni Novanta il momento di massimo equilibrio tra innovazione e tradizione, con un leader che si proponeva come sintesi di culture diverse e non come padrone del suo campo. Un tentativo ambizioso di cambiare la politica italiana: la democrazia dell’alternanza, il potere di decisione affidato ai cittadini, nella scelta dei candidati con le primarie e dei governi con sistemi elettorali coerenti con questo obiettivo. Il Pd è nato troppo tardi e in una situazione completamente mutata: di crisi economica, di crisi politica e di crisi culturale. E il sogno è rimasto tale, fino a trasformarsi, come avviene in questi giorni, in un incubo: l’incubo del ritorno della Prima Repubblica senza i partiti della Prima che avevano comunque il loro ruolo».

Torniamo per un attimo agli anni 68-70. Moro parlava di “Tempi nuovi” , ben altro spessore rispetto alla vacuità di  oggi ….

«A differenza di quello che ha scritto una certa pubblicistica Moro non era pessimista, guardava alle novità con curiosità e con acume. Erano i tempi nuovi del grande cambiamento degli anni Sessanta-Settanta. La mia generazione ha vissuto uno sconvolgimento maggiore: la globalizzazione, la rete. Ma oggi questi cambiamenti fanno paura. Se si parla di caduta dei muri vengono in mente immigrazione selvaggia, dumping sociale e terrorismo globale, Trump ha vinto per questo motivo: sul clima ha contrapposto gli interessi degli operai americani a quello mondiale della tutela ambientale. Se si parla di internet non viene più in mente l’agorà democratica ma le fake news e la post-verità. Se si pensa all’Europa c’è la crisi dell’euro. E mancano politici come Aldo Moro in grado di pensieri lunghi: sono in gran parte schiacciati sul presente, sull’istante, sull’ultimo tweet.

Monti, Renzi e Grillo. Il nuovo diventato vecchio..Per Renzi poi l’eterogenesi dei fini gli ha giocato un brutto scherzo. Come si svilupperà il “renzismo” nei prossimi anni?

«IN questi giorni c’è una nuova trasformazione: da leader sindaco d’Italia, come immaginava il sistema fondato sull’Italicum, Renzi sta diventando il segretario di un partito che dovrà fare una coalizione con alleati scomodi, Forza Italia e Berlusconi. Da uomo della competizione a capo del Pd come “argine della tenuta democratica del Paese”, così lo ha definito nel discorso del Lingotto a Torino prima di essere rieletto segretario del Pd. L’argine è qualcosa di solido, ma anche di statico, immobile. Quello che si prepara a essere Renzi nei prossimi anni: l’amministratore di una importante rendita di posizione, non più il leader che si gioca tutto su una sfida e che se perde va a casa. Lui ha perso ma è rimasto al suo posto, per interpretare la stagione opposta a quella precedente. La stessa parabola sta seguendo il Movimento 5 Stelle: da partito di lotta si appresta a diventare una casa accogliente per un nuovo tipo di establishment. Lo vedremo nei prossimi mesi: cambiamenti di pelle, nuovi trasformismi».

Nella parte finale del libro scrivi:  “Dopo gli uomini del Nuovo –scrive Damilano, – per salvare e difendere le innovazioni serviranno gli uomini della transizione, gli eroi della ritirata, personaggi alla frontiera tra il vecchio e il nuovo, destinati all’incomprensione e non spaventati dall’impopolarità, disposti a rinunciare a qualcosa di se stessi e della loro narrazione. Uomini del ponte, alternativi alla richiesta di uomini forti che avanza in Occidente”. Pisapia?

«Non so se Pisapia riuscirà ad avere queste caratteristiche. Di certo la risposta non è la restaurazone dei vecchi partiti e delle vecchie culture (rifare la sinistra, rifare la Dc…), ma un’innovazione che non sia puramente di facciata. E di questi uomini e di queste donne ci sarà sempre più bisogno. Perché altrimenti il nuovo continuerà a consumare se stesso. Accelerando la crisi della politica».