Martiri per Cristo e amici dell’Islam. Presto beati i monaci di Tibhirine? Intervista a Padre Thomas Georgeon

Padre Thomas Georgeon

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996, sette dei nove monaci trappisti che formavano la comunità del monastero di Tibhirine, fondato nel 1938 vicino alla città di Médéa, 90 km a sud di Algeri, furono rapiti da un gruppo di terroristi. Il 21 maggio dello stesso anno, dopo inutili trattative, il sedicente “Gruppo Islamico Armato” ha annunciato la loro uccisione. Il 30 maggio furono ritrovate le loro teste, i corpi non furono mai ritrovati.

Di questi martiri è in corso la causa di beatificazione. A che punto è?

Ne parliamo, in questa intervista, con Padre Thomas Georgeon, Postulatore della Causa.

(AFP/Getty Images)

Padre Georgeon, nel 2013 è stato nominato postulatore per la causa di beatificazione dei monaci trappisti di Tibhirine, in Algeria, uccisi dalla violenza dell’islamismo radicale nella primavera del 1996. La causa riguarda anche altri 12 religiosi cattolici, che tra il 1994 e il 1996 sono rimasti vittime della violenza terroristica. Tra loro c’è anche Monsignor Clavérie, un esponente di spicco della  Chiesa d’Algeria. Lei, assieme ai vescovi di Algeria, nelle settimane scorse è stato ricevuto da  Papa Francesco. Come si sa, al Pontefice sta molto a cuore questa beatificazione. Alcune voci vaticane parlano di una svolta positiva del cammino di beatificazione. Questo vuol dire che presto saranno beatificati?

La Santa Sede segue questa causa da tempo e con cautela. Dobbiamo rispettare la procedura della Congregazione delle cause dei Santi, manca ancora un’ultima tappa che, speriamo, potrà condurre alla beatificazione a breve. È vero che la Congregazione, sin dall’inizio, è sempre stata generosa e solidale nel modo di trattare la causa e il postulatore, e ne sono molto grato. Papa Francesco ci ha ricevuti con grande attenzione e conosce bene la causa e le sfide che essa rappresenta. L’incontro è stato molto positivo; per me il punto più bello e significativo dell’incontro è stata la domanda del Papa circa il giovane musulmano ucciso assieme a Mons. Clavérie. Se fosse stato possibile, penso che Papa Francesco l’avrebbe aggiunto alla causa! E qui troviamo tutto il senso profondo e spirituale di questa causa: un martirio con i musulmani e non contro di loro. I 19 presunti martiri hanno scelto di rimanere fedeli a un popolo, a una terra, a una Chiesa che soffrivano. Però l’amico vero non se ne va quando l’altro soffre, ma gli sta vicino e vive la compassione.

Vorrei aggiungere che ci troviamo di fronte ad una Causa di santità collettiva o comunitaria, riscoperta oggi dalla Chiesa (fu una delle intuizioni forti di Chiara Lubich), e che fu spesso nella storia della Chiesa un aspetto essenziale del martirio. I nostri 19 martiri, se fossero beatificati, sarebbero una grande luce per la Chiesa, testimoni del dialogo più autentico tra cristiani e musulmani, testimoni della Luce dell’amore di Gesù.

È indubbio che questa beatificazione si colloca anche in una congiuntura complicata per l’Islam, e l’Algeria è terra d’Islam. C’è il rischio di ferire la sensibilità islamica? Insomma, com’è vista questa beatificazione, nell’ambiente dell’Islam d’Algeria?

Papa Francesco ci ha chiesto di essere molto delicati perché non si deve ferire, bisogna che l’evocazione di questa vicenda sia occasione per guardare verso il futuro. Ma, indubbiamente, c’è sempre il rischio di ferire la sensibilità. Perciò è necessario fare delle catechesi adatte sul senso cristiano del martirio. Catechesi per i cristiani ma anche per i musulmani algerini. Il martire è quello che dà la sua vita per gli altri, non quello che si fa esplodere in mezzo alla folla per uccidere. Il senso della parola “martirio” è “testimone”, in quel senso questi martiri sono stati testimoni di Cristo e dell’amicizia che può creare dei legami stretti con l’altro, anche se non condivide la stessa fede. Non è l’uomo che converte l’altro, solo Dio può farlo.

Nel contesto attuale dell’Algeria c’è un cammino di pacificazione chiaro e il desiderio del paese di sanare le ferite ancora aperte in tutte le comunità musulmane e cristiane (durante il decennio nero, dal 1990 al 1998, si parla di 200.000 vittime). Sembra proprio che un’eventuale beatificazione potrebbe essere il contributo della Chiesa a questo cammino. Ovviamente, bisogna spiegare bene cos’è una beatificazione, e che non si tratterà di fare vedere dei buoni cristiani uccisi da cattivi musulmani. Sembra che possa essere ben accolta da parte del governo l’eventualità di una beatificazione celebrata nel paese. Opposizione ce ne sarà sempre, magari pure nella Chiesa!

 

Torniamo a parlare dei sette monaci dell’Atlante, li ricordiamo con i loro nomi Christian, Luc, Christophe, Michel, Bruno, Celestin e Paul. Venivano da esperienze diverse, eppure nella semplicità della Trappa, una vita di contemplazione e di amicizia con il Signore, e nell’umiltà del loro lavoro sono stati un segno di speranza per quelle popolazione dell’Algeria profonda. Quale era la loro visione dell’Islam?

La loro visione dell’Islam non era unitaria! Christian, sia per la sua storia, sia per i suoi studi, era il più coinvolto nella dinamica del dialogo con l’Islam. Quando è stato eletto priore della comunità nel 1984 ha provato a spingere i suoi fratelli sul suo cammino, però non tutti ne condividevano la meta. Ci sono state delle tensioni. Alcuni fratelli non erano a Tibhirine per l’Islam ma più per radicalità di scelta, povertà, nascondimento … E tutti erano riservati nei confronti di una teologia del dialogo troppo concettuale. Hanno preferito scegliere la strada del dialogo della salvezza, del dialogo spirituale e del dialogo della vita. Il famoso “vivere insieme” che facciamo fatica a vivere oggi. L’Islam di cui parlava Christian era un Islam particolare, aperto al dialogo, quello dei sufi che venivano al monastero ma che non rappresenta l’Islam in generale, meno aperto e poco desideroso di legami con i cristiani.

Per Christophe, i suoi rapporti con i credenti dell’Islam avevano come scopo d’imparare da loro ciò che il Signore desiderava dirgli tramite questo contatto. Non credo che si ponesse come uno che vuole insegnare. Michel si nutriva degli incontri di preghiera con i sufi; il suo sguardo sull’Islam assomigliava ad un cammino condiviso verso Dio, in cui si aiuta a vicenda … Insomma, si può capire la loro visione se si parla di speranza. Speranza che ciascuno possa capire qual era il progetto di Dio su tutti gli uomini, e cioè portare alla comunione, la sua comunione, tra tutti gli uomini.

Parlando di loro non si può non parlare del Priore Christian de Clergé e del suo testamento scritto poco prima  di essere ucciso. Un documento straordinario. “Se mi capitasse un giorno di essere vittima del terrorismo, vorrei che si ricordasse che la mia vita era donata a Dio e a questo Paese”. Scriveva così Christian nel testamento. Una sintonia con la Chiesa delle periferie tanto cara a Papa Francesco. Una Chiesa che non fa proselitismo ma si pone in amicizia umana con i poveri d’Algeria. Ho colto bene la visione ecclesiologica di Christian?

Sì, la parola vera è “amicizia”, incontrare l’altro nella sua differenza per arricchirsi a vicenda. Andare verso Dio e andare verso l’altro è un tutt’uno e non posso fare altro, diceva P. Christian. La stessa gratuità è necessaria e non si può andare avanti senza spogliarsi e senza rischio. Una cosa che colpisce è il desiderio dei fratelli di non cadere in un comunitarismo che esclude l’altro. C’era per loro una coscienza di una presenza da vivere là dove Dio li aveva chiamati: il servizio della preghiera e dell’incontro, una visitazione d’amicizia. Niente di trascendentale … ma una casa nella casa dell’Islam. Una piccola stanza amica che si apre su ciò che unisce. Christian non credeva molto nel dialogo teologico, per lui il dialogo era anzitutto esistenziale, cioè la vita con i vicini e la gente del paese, tramite la condivisione delle attività quotidiane e l’accoglienza al monastero.

L’Algeria è sempre stata un “laboratorio” storico del dialogo tra Cristianesimo e Islam. Un dialogo che nel XX Secolo ha conosciuto grandi protagonisti: Luis Massignon, i Piccoli Fratelli di Charles de Foucault, il Cardinale Duval (grande amico di Papa Paolo VI), senza dimenticare i padri domenicani del Cairo e, più vicino a noi,  il Padre Gesuita Paolo Dall’Oglio. Cosa può portare, oggi, lo “Spirito di Tibhirine” al dialogo tra Islam e Cristianesimo?

Tibhirine è un silenzio diventato Parola. Bisognerebbe sapere cos’è realmente lo “spirito di Tibhirine”. Nessuno conosceva Tibhirine prima … dei poveri monaci che vivevano nelle montagne d’Algeria … poi, “quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti” come dice San Paolo. Ecco il primo segno … non dobbiamo avere paura della nostra fragilità, della nostra piccolezza, dobbiamo accettarla e viverne perché è là dove Dio si rivela a noi e ci rivela di fronte agli altri.

Mi sembra che lo spirito di Tibhirine sia una sorta d’incarico spirituale che tutti abbiamo ricevuto: cercare il volto di Dio nell’altro, anche se crede diversamente di me. Dare di nuovo senso alla differenza nel quotidiano delle nostre vite. Se ignoriamo l’altro, allora crescerà il comunitarismo, perché si penserà che l’altro è solo un pericolo e che è meglio rinchiudersi tra di noi, circondati da chi ci somiglia. Ma ecco che i fratelli di Tibhirine non si sono mai ripiegati su loro stessi, neanche nei momenti più pericolosi.

E, magari, un ultimo pensiero che ci lasciano: una vita senza Dio non ha senso.

 

Il monastero di Tibhirine era un “segno sulla montagna”. Il vostro Ordine pensa che sia maturo il tempo del ritorno nell’Atlante?

Purtroppo, il tempo non è ancora maturo. Per diversi motivi, primo fra tutti direi perché c’è un peso noto d’eredità che non è da poco. Ovviamente, da parte della gente dei dintorni come pure da parte della Chiesa d’Algeria, c’è un’attesa, un desiderio di vedere dei monaci tornare a Tibhirine. Il nostro Ordine ha provato a mandare una comunità in Algeria, io sono stato uno dei monaci che erano disposti a tornarvi. Dopo alcuni mesi, nel 1998, ho capito che era ancora troppo presto. Era necessario lasciare tempo al tempo. Alcuni fratelli sono rimasti, con grande coraggio, ad Algeri fino al 2001, poi il tentativo si è concluso per via dell’impossibilità di abitare nel monastero per motivi di sicurezza. Dal 2001 al 2016, grazie alla tenacità e all’immane lavoro di padre Jean-Marie Lassausse, il monastero è rimasto vivo, divenendo meta di pellegrinaggio per i cristiani e per i musulmani. Da un anno la comunità del Cremini Ne prova a vivere nel monastero per assicurare una continuità. La cosa è ardua e non si sa come andrà a finire. Ma il monastero rimane proprietà del nostro Ordine e … chissà, un giorno sarà possibile vedere dei monaci vivere di nuovo lassù.

Ultima domanda: Voi appartenete all’ordine di  Thomas Merton. Una figura straordinaria della spiritualità del XX secolo. Un uomo di contemplazione ma anche di profezia sulla storia dell’uomo. Allora le chiedo: perché la trappa può essere un segno di profezia sul mondo?

Segno di profezia, penso che lo siamo già anche senza volerlo! Siamo chiamati a vivere con autenticità sempre più grande la nostra vocazione e la nostra consacrazione, tenendo conto delle esigenze del presente, così da essere testimoni di preghiera assidua, di sobrietà, di unità nella carità. Ecco il riassunto delle parole di Papa Francesco al nostro Capitolo Generale del 23 settembre scorso. Tutti gli elementi della nostra vita devono convergere per creare uno spazio nel cuore del monastero, e nel cuore di ciascuno là dove Dio e Cristo possano essere scoperti come il vero centro della vita. Ciò richiede della gratuità che manca tanto nel nostro mondo. Però mostrare che l’unione con Dio conduce all’unificazione della vita in Dio è una vera missione nel mondo e nella Chiesa di oggi. Ecco perché le foresterie dei monasteri sono sempre più piene di gente che cerca come arrivare all’incontro con Cristo per dare un autentico significato alla vita. Il mondo di oggi, a volte, somiglia ad un deserto moderno, e noi proviamo a vivere una vita comunitaria di comunione dove, come per tutti gli uomini, c’è chi soffre e c’è chi lotta … Profezia di comunione!


Testamento spirituale di Padre Christian de Chergé

Frère Christian de Chergé, priore della comunità, 59 anni, monaco dal 1969, in Algeria dal 1971. La personalità forte, umanamente e spiritualmente, del gruppo. Figlio di generale, ha conosciuto l’Algeria durante tre anni della sua infanzia e ventisette mesi di servizio militare in piena guerra d’indipendenza. Dopo gli studi al seminario dei carmelitani a Parigi, diventa cappellano del Sacré-Cœur di Montmartre a Parigi. Ma entra ben presto al monastero di Aiguebelle per raggiungere Tibhirine nel 1971. È lui che fa passare l’abbazia allo statuto di priorato per orientare il monastero verso una presenza di “oranti in mezzo ad altri oranti”. Aveva una conoscenza profonda dell’Islam, come si può ben capire leggendo questo bellissimo testo, e una straordinaria capacità di esprimere la vita e la ricerca della comunità. Lo pubblichiamo per aiutare il lettore a comprendere lo straordinario spessore spirituale di Padre Christian.

Quando si profila un ad-Dio

 

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.

 

Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.

 

La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.

 

Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.

 

Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.

 

Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la “grazia del martirio”, il doverla a un algerino chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam.

 

So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’Islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.

 

L’Algeria e l’Islam, per me, sono un’altra cosa; sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.

 

Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità.

 

Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’Islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.

 

Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.

 

In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!

 

E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen!  Insc’Allah!

 

Algeri, 1º dicembre 1993 

Tibhirine, 1º gennaio 1994

 

Christian †

 

Dal sito : http://www.ora-et-labora.net/ecumenismotibhirine1994.html