“SENZA IL PD AVREMMO AVUTO UN’ITALIA DA INCUBO”. Intervista a Giorgio Tonini

Ieri, al teatro Eliseo a Roma, il Partito Democratico ha festeggiato il suo decimo anniversario. Un anniversario accompagnato da polemiche. Facciamo, nei limiti di una intervista, un bilancio di questa storia decennale. Una storia di passione riformista. Con alti e bassi. Lo facciamo con Giorgio Tonini, Senatore PD e Presidente della Commissione Bilancio del Senato.

 Senatore Tonini, siamo nel decennale del PD, che doveva essere una importante tappa, nell’ambito della  storia dei partiti politici italiani, ovvero la nascita di un grande partito riformista, capace di contenere in una sintesi alta le migliori culture  politiche progressiste italiane, si è rivelata un “sogno” incompiuto. La storia di questi dieci anni ne è, secondo alcuni, la riprova. Temo che abbia ragione Massimo Cacciari sull’impossibilità dell’amalgama tra gruppi dirigenti e quindi tra culture politiche. Con Renzi poi le cose si sono aggravate, tanto da portare alla  scissione.  Insomma non è un bel compleanno per il PD. Lei, invece,  pare  più ottimista sul destino del Pd. Per quali ragioni?

È vero, il decennale del Pd è stato l’occasione di un impressionante moltiplicarsi di annunci di sventura circa il destino di quello che al momento è comunque il primo partito italiano. Da destra a sinistra, passando per i grillini, sembra che si voglia una cosa sola: non solo la sconfitta, ma il fallimento del Pd. Che questo sia l’obiettivo, il sogno dei nostri avversari, è comprensibile. Anche se a me piacerebbe vivere in un paese nel quale la competizione politica, che è il sale della democrazia, fosse capace di non sconfinare nel desiderio insano di distruggere l’avversario. Meno comprensibile è che questa sia diventata la ragione di vita anche di una parte della sinistra italiana, a cominciare da quella che fino a pochi mesi fa era stata una componente importante dello stesso Pd. C’è nella sinistra, e nella sinistra italiana in particolare, una vena nichilista che ciclicamente riemerge e troppo spesso le fa preferire la distruzione alla costruzione. Questo sacro furore contro il Pd è del tutto fuori misura, fuori scala, rispetto anche ai limiti che la costruzione di quello che volevamo fosse non solo un nuovo partito, ma un partito nuovo, ha evidenziato e tuttora denuncia. Ne parleremo, in questa nostra chiacchierata. Ma intanto mi faccia dire che non so che fine avrebbe fatto l’Italia in questi anni se non avesse potuto contare sul Pd. Il Pd non doveva o non poteva nascere, secondo alcuni profeti di sventura. E invece è nato. Ha passato i suoi guai di gioventù, ma è cresciuto, ha raccolto dodici milioni di voti con Veltroni, sconfitto da Berlusconi, e undici con Renzi vincitore alle europee e sconfitto al referendum. Nel frattempo ha dato al Paese due presidenti della Repubblica della statura di Napolitano e Mattarella. E un governo, nel pieno della più difficile crisi economica dalla seconda guerra mondiale, che ha avviato un grande lavoro riformatore, che ha aggredito molti dei nodi strutturali irrisolti del Paese, guadagnandosi apprezzamento e considerazione in Europa e nel mondo. Si può dissentire e criticare, ma si deve almeno avere l’onestà intellettuale di rispettare una forza politica così. Forse il sogno originario del Pd non si è compiutamente realizzato. Ma senza il Pd avremmo avuto un’Italia da incubo.

Continuamo il nostro ragionamento, come direbbe De Mita, sul  partito. Con Veltroni, al di là delle qualità umane, e per alcuni versi, anche con Bersani, vi era la sensazione di un partito caldo. Un partito, mi passi la metafora evangelica, che si fa prossimo alla gente. Oggi il partito è tutto “piegato”, come ha scritto Bettini, sul “riformismo dall’alto”. Avrà fatto cose buone, ma il partito è apparso lontano dalla fatica quotidiana della gente. Un’altra scommessa persa?

Né Veltroni, né Bersani hanno guidato il Pd al governo. Il paragone con la stagione di Renzi è dunque improprio. Ma anche la categoria del “riformismo dall’alto” non mi pare la più appropriata per descrivere il rapporto tra il Pd è la società italiana in questi anni. Renzi è arrivato a Palazzo Chigi quasi trascinato da un’onda di popolarità che appariva incontrastabile. Un’onda poi certificata dal clamoroso 40 per cento di voti alle europee: primo partito d’Europa, perfino più della Cdu-Csu tedesca. Renzi ha governato per quasi tre anni con la preoccupazione, quasi l’ossessione della comunicazione col Paese. Eppure ad un certo punto l’incantesimo si è rotto. Forse le aspettative erano schizzate troppo in alto e di lì non potevano che cadere. Forse è stato decisivo il saldarsi delle opposizioni nel referendum costituzionale. Forse è stata sottovalutata l’esigenza di stabilire solidi legami con i corpi intermedi della società civile. Forse, e senza forse, il partito si è rivelato troppo fragile nel supportare l’azione di governo, anche perché era stato troppo a lungo trascurato. Si tratta di questioni non banali, da non trascurare, ma neppure da drammatizzare. Il Pd ha in se stesso tutte le risorse per tornare a stabilire un rapporto positivo con il Paese.

E sempre, per “finire” il “ragionamento”, sul partito: è indubbio che Veltroni aveva capacità di  ascolto anche ai mondi nuovi della cultura, dell’intelligenza, ecc., in Renzi il partito è vissuto strumentalmente come “mezzo”. Pochissime volte si è sentito il “noi”. Il risultato è un partito personalizzato. Adesso Renzi ha recuperato il noi ma la sensazione è che sia tardi. E senza il “noi”, la comunità, non si fa argine al populismo. E’ così Senatore?

Mah, l’idea di partito-comunità non mi ha mai persuaso completamente. I partiti sono anche comunità di persone che condividono valori, principi, obiettivi. Esattamente come sono luoghi di competizione per il potere, dunque di divisione, di conflitto, di lotta. L’importante è che ci sia un equilibrio tra queste due dimensioni. Per me i partiti sono innanzitutto istituzioni della società civile, indispensabili al funzionamento della democrazia, in particolare della democrazia parlamentare. Per questo devono essere pochi e grandi. O perlomeno ci devono essere, in un sistema democratico sano, due  grandi partiti in grado di farsi carico, in competizione e collaborazione tra loro, del governo del Paese. Anche svolgendo quella funzione vitale che è la selezione della classe dirigente e, in definitiva, della leadership. Da questo punto di vista quella del Pd è stata un’esperienza di successo, per quanto indebolita da una scissione che ha ignorato il valore della decisione costituente del partito: la scelta di dotarsi tutti insieme di un partito grande e plurale, nel quale linea politica e leadership sono decisi in modo aperto e democratico, per cui tutti possono vincere e tutti possono perdere, nella competizione per cariche e ruoli sempre contendibili. Non aver accettato di rinunciare ad un’impossibile golden share, da parte degli scissionisti, li ha portati ad uscire dal partito. Poi Renzi avrà i suoi limiti e avrà fatto i suoi errori. Ma non si abbandona un partito perché il leader pro tempore non ti piace. Lo si fa perché non si accetta la costituzione formale e materiale sulla quale esso si fonda. E questo è quel che è successo con una parte della componente ex-pci, quella dalemiana. Che aveva accettato il modello competitivo previsto dallo statuto formale del Pd, voluto da Veltroni, purché la costituzione materiale restasse fondata sul centralismo democratico di antica radice togliattiana. Quando Renzi ha fatto saltare questa “condizione”, che in effetti poteva giustificarsi solo in una fase fondativa, il compromesso è saltato e si è arrivati alla scissione. Che costerà molto al Pd, ma non al punto da far fallire un progetto che resta indispensabile all’Italia.

Gli “scissionisti” si stanno avvitando in un percorso massimalista. Dettato dal rancore. Però su un punto hanno ragione da vendere: quando chiedono al PD di essere più di sinistra. Indubbiamente il PD ha portato innovazione nella cultura politica italiana. E questo è stato un bene per la cultura di sinistra. Però spesso è apparso come un partito che ha sbiadito la sua radice. Insomma la tanto declamata “terza via” altro non era che una “prima via” (il mercato) un pochino più umana. Il bilancio è magro, Senatore Tonini…

La sinistra, diceva Norberto Bobbio, è lotta per l’uguaglianza. Lo è stata ieri, deve esserlo oggi e dovrà esserlo domani e sempre. Il problema è che il mondo cambia e con esso cambiano i termini di quella lotta. Dunque essere più di sinistra, come dice lei, non può significare essere più nostalgici di un mondo che non c’è più, perché è proprio chi pensa e “sente” così, che finisce, di fatto, per consegnare la sinistra alla storia, se non direttamente all’archeologia. Per me è più di sinistra chi si sforza di “capire il nuovo”, come ci ha insegnato Pierre Carniti, perché quella è la premessa indispensabile per “guidare il cambiamento” e non limitarsi a subirlo. Facciamo un esempio: qualcuno pensa che essere più di sinistra significhi opporsi alla globalizzazione e perfino all’Unione europea. Ma la globalizzazione, che certo ha contribuito a mettere in discussione conquiste sociali importanti nei paesi sviluppati, ha realizzato la più grande inclusione nello sviluppo della storia umana: una inclusione che ha interessato miliardi di persone. Dunque il problema, per chi intende lottare per l’uguaglianza, non può essere quello di opporsi alla globalizzazione, ma piuttosto quello di governarne gli effetti sulle nostre società. Proprio per questo sinistra ed europeismo sono oggi sinonimi. Naturalmente, non qualsiasi europeismo. Da questo punto di vista, il governo Renzi, lungi dallo sbiadire la sua radice di sinistra, è stato protagonista di una vera e propria svolta nella politica economica europea, imponendo una interpretazione dei trattati, a cominciare dal Fiscal Compact, che ponessero al centro  la crescita e l’occupazione.

Lei, che è di cultura degasperiana e morotea, glielo ha spiegato al suo segretario che la centralità del PD non esclude il farsi carico delle ragioni  dell’altro? Solo così si può costruire una coalizione. Ci riuscirà Renzi? E  questo cambio sarà necessario anche alla luce della nuova legge elettorale…

Un mio grande “predecessore” (intendo dire, come presidente della Commissione Bilancio del Senato…), Beniamino Andreatta, intervenendo nel dibattito sulla fiducia all’ultimo governo Andreotti, il 7 novembre 1991, in pieno disfacimento della prima Repubblica, osservava che «i problemi della finanza pubblica sono i problemi politici di un paese e le debolezze del sistema politico si traducono nei risultati contabili che oggi commentiamo un poco sbigottiti». E aggiungeva che dopo la fase virtuosa, quella del centrismo degasperiano e poi del centro-sinistra di Moro e Nenni, «dal 1972 ad oggi possiamo dire che c’è stata un’era della ingovernabilità, perché non c’è stata intesa, non c’è stata più coalizione». E allora, concludeva, «delle due l’una: o si riesce a ricostruire questo spirito di coalizione, o si creano strumenti (come la legge elettorale maggioritaria, ndr) perché si possa operare il divorzio tra le forze politiche e ci siano forze in grado di governare con maggioranze più ristrette». Renzi è un leader che si è formato nello schema della democrazia competitiva, quello che si era affermato nel paese all’inizio degli anni Novanta, soprattutto grazie alla spinta dei referendum Segni. Il paradosso è che oggi Renzi si trova a dover gestire gli effetti di un nuovo pronunciamento popolare, quello del referendum del 4 dicembre scorso, che ha ribaltato la situazione, di fatto chiudendo la stagione del maggioritario e rimettendo le forze politiche dinanzi alla necessità di riscoprire lo spirito di coalizione, la capacità di collaborare in parlamento tra forze anche molto diverse tra loro. Vedremo se sarà possibile, nella prossima legislatura. O se non dovremo riprendere la marcia verso un sistema politico di impianto maggioritario. Stavolta per la via del semipresidenzialismo alla francese. L’unico in Europa che consente, per dirla con Andreatta, «di governare con maggioranze più ristrette», cioè senza le larghe intese…

LA GUERRA DIMENTICATA DEL SUD SUDAN. Intervista a Padre Daniele Moschetti

Nel Sud Sudan una guerra dimenticata sta producendo una immane catastrofe umanitaria, sociale ed economica. Secondo Amnesty International, «nel Sud Sudan è in corso una delle più gravi crisi umanitarie degli ultimi tempi: sono quasi un milione gli sfollati nella regione di Equatoria, mentre continuano impunite le uccisioni di civili e le violenze su donne e bambine». Secondo l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, «il numero totale di persone fuggite dal Sud Sudan verso le regioni circostanti è ora di 1,6 milioni. Il nuovo tasso di persone in fuga è allarmante e rappresenta un peso impossibile da sostenere per una Regione che è considerevolmente più povera e le cui risorse si stanno rapidamente esaurendo. Nessuno, fra i Paesi circostanti, ne è immune. I rifugiati fuggono verso il Sudan, l’Etiopia, il Kenya, la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centrafricana. Quasi la metà delle persone in fuga è arrivata in Uganda, nelle regioni settentrionali del Paese la situazione ora è critica». Per parlare di questa autentica polveriera africana abbiamo intervistato Padre Daniele Moschetti, che è stato per sei superiore provinciale della Congregazione dei Comboniani in Sud Sudan. Padre Daniele è in questi giorni in Italia per presentare il suo libro Sud Sudan. Il lungo e sofferto cammino verso pace, giustizia e dignità, introdotto da papa Francesco e appena uscito per le edizioni Dissensi. Padre Moschetti ieri era a   Roma, in Vaticano, per consegnare al Papa alcune copie del libro da lui introdotto.

Padre Daniele, il suo libro  è una viva testimonianza dell’opera preziosa della sua Congregazione, quella dei Comboniani, in un giovane Stato africano: quello del Sud Sudan. La vostra presenza è assai antica. Può dirci perché per voi, per la vostra Congregazione, è importante la presenza in quel territorio?

Proprio in questi giorni si è celebrata la festa di San Daniele Comboni, il nostro fondatore che ha dato tutta la sua vita per il Sudan con lo slogan “Salvare l’Africa con l’Africa” fin dal 1800. La terra del Sudan per noi è una sorta di “Terra Santa”. Dopo l’espulsione del 1964 da parte del governo islamico del nord tutti i cristiani sono stati mandati fuori, anche gli anglicani. Per noi è una lotta continua perché quest’area dell’Africa è sempre stata una terra martoriata, un popolo crocifisso dal 1800 con la schiavitù e il colonialismo dopo e poi la predominanza islamica con quarant’anni di guerra e questi quattro anni di guerra civile.

Come nasce questo nuovo Stato Africano? Quali sono le ragioni?

Ora abbiamo la guerra civile interna, ma ci sono stati quarant’anni di guerra precedente. Dal 56 il Sudan è diventato indipendente dagli inglesi, quindi nel 55 già c’erano dei gruppi di leader che potevano già avere una propria autonomia, ma gli inglesi decisero di dare il Sudan al governo di Khartum e quindi si creò subito una spaccatura tra il nord e il sud. Il nord fondamentalmente musulmano (fondamentalista), mentre il sud che era cristiano. La seconda guerra invece è stata soprattutto per il petrolio perché il nord non voleva mollare.

Il Sud Sudan è una terra ricca di risorse: Petrolio,acqua e “terre vergini”. Queste sono le vere cause, insieme al confitto etnico, della guerra ?

E’ diventato adesso un conflitto etnico nel 2013, perché le truppe paramilitari Dinka uccisero migliaia di persone Nuer nella capitale Giuba. Subito ci fu una guerra tra di loro nell’esercito regolare. Tuttavia non è solo una questione tribale, ma ci sono molte risorse, che vogliono dire soldi e potere. Quindi spartisci le risorse e dietro la parvenza legale del governo ci sono molte multinazionali.

Sappiamo, dunque, che, come diceva prima, vi sono potenze straniere, ed anche multinazionali, che hanno forti interessi in quel Paese. Quali sono queste potenze e quali multinazionali hanno interessi nel Sud Sudan?

Ci sono multinazionali di vari paesi (tedesche, canadesi, cinesi, americane, francesi). Dal 2005 al 2011 il 9% della terra del Sudan era già stata data a molte multinazionali sovranazionali, è il fenomeno del land grabbing, cioè l’accaparramento delle terre perché erano terreni molto fertili mai utilizzati. Per esempio l’Arabia Saudita, che è un paese deserto, prende tantissima terra dall’Africa per poter coltivare grano sia per i consumi interni sia per vendere sul mercato internazionale. Loro si accaparrano le terre attraverso una dimensione illegale perché c’è la corruzione e tutto il resto. La Petronas, quella che sponsorizza la Mercedes in formula 1, è una multinazionale della Malesia che sta pompando petrolio in Sud Sudan.

La vendita delle armi in quel Paese prolifica. Tanto che il governo del Sud Sudan ha speso, nel 2014, la cifra folle di un miliardo di dollari in Armi. Praticamente il governo ha ipotecato i pozzi di petrolio per comprare armi. Una follia assoluta. L’embargo sulle armi viene totalmente disatteso. Chi sono i complici di questa follia?

C’è un report di Amnesty International, di due settimane fa, che prova un coinvolgimento dell’Ucraina, che nel 2014 ha venduto illegalmente tantissime armi, ma come loro c’è la Cina, gli americani, che formano anche militari. Il governo ha ipotecato tantissimi pozzi inesplorati alla Cina in modo tale che in futuro queste nazioni avranno questi pozzi.

Riuscite ancora, voi missionari, ad operare in Sud Sudan? Qual è la frontiera della vostra opera?

Diventa sempre più difficile perché abbiamo già perso due missioni, una fra i Nuer e una proprio a gennaio 2017 perché la gente fugge, ci sono circa due milioni di profughi fuori. Inoltre ci sono altri tre milioni di persone che sono sfollate all’interno del paese e che hanno perso tutto; circa 300.000 nei campi interni del Sud Sudan. È veramente una situazione molto triste e povera. È uno dei paesi più poveri al mondo per quanto ricco di potenzialità, di risorse. Noi cerchiamo di operare per quello che possiamo, stiamo con la gente, siamo fuggiti anche con la gente, così come molti altri religiosi di tante altre congregazioni.Anche diverse Ong sono fuggite dal Paese..La gente oggi crede nelle Chiese perché i ribelli di un tempo sono diventati dittatori e quindi automaticamente credono nella chiesa, perciò è importante stare con loro, per dare speranza. Una cosa molto bella è che comunque sono loro che ci danno una testimonianza di fede e di futuro perché è un paese giovane, il 70% sono sotto i trent’anni.

In Sud Sudan si è manifestato, purtroppo, il fallimento dell’Onu. Cosa è mancato?

Ci sono tredicimila soldati dell’Onu divisi in vari battaglioni di varie nazionalità che rispondono al loro generale, però quello che è successo negli ultimi tre anni ci ha veramente deluso e soprattutto sorpreso perché quando ci sono stati gli attacchi del governo, ed anche dei ribelli, nelle varie città sono entrati nei campi e i soldati non hanno reagito, hanno lasciato fare e hanno ucciso centinaia di persone nei campi direttamente delle Nazioni Unite. Questo è ancora più grave. C’è ancora molto da fare, hanno perso molta credibilità.

I cristiani, o ancora meglio, le Chiese cosa stanno facendo per la Pace? Sappiamo che Papa Francesco segue molto da vicino la situazione, infatti era previsto un viaggio apostolico poi saltato per ragioni di sicurezza.

Papa Francesco voleva venire in Sud Sudan in questo mese di ottobre, invitato dalle chiese, non solo quella cattolica ma anche le chiese protestanti, anglicane, presbiteriana. Sarebbe andato con Justin Welby, il primate della chiesa anglicana; una visita storica perché non è mai successo, andavano per la gente, per dare speranza. Le chiese stanno lavorando insieme per la pace perché, come ho detto prima, è l’unica istituzione credibile in questo momento. Noi come religiosi cattolici avevamo aperto un centro per la pace non solo per programmi di pace, ma soprattutto per la guarigione dei traumi, perché si sono viste delle atrocità pazzesche. Migliaia di donne stuprate, bambini bruciati vivi, si è vista una disumanità totale. Continuiamo a fare programmi però se non c’è una stabilità diventa difficile. Vogliamo fare causa comune nei momenti difficili della gente.

Unità nella diversità, senza se e senza ma. Lettera aperta di Pierre Carniti a CGIL, CISL e UIL

Pierre Carniti (Foto LaPresse)

Ieri, nel pomeriggio, Pierre Carniti ha scritto una lettera aperta alle tre grandi Confederazioni sindacali italiane: Cgil,Cisl e Uil. Per gentile concessione, della  testata online letruria.it, pubblichiamo il tesato della lettera.

 

Cari amici e compagni,

la recente sortita di Di Maio, con la inconcepibile minaccia rivolta soprattutto al sindacalismo confederale, minaccia che comprende il proposito di riformarlo autoritariamente se mai lui dovesse arrivare a Palazzo Chigi, è sicuramente indicativa dei limiti del dirigente “pentastellato”. Sia della sua cultura costituzionale, come della sua consapevolezza circa il ruolo essenziale dell’autonomia dei gruppi intermedi nell’assicurare l’indispensabile vitalità democratica, nelle società complesse e fortemente strutturate. L’improvvida uscita del giovane parlamentare, della nebulosa grillina, potrebbe indurre i più sprovveduti a credere che la dialettica sociale possa essere neutralizzata “statalizzando” la società. Tuttavia, non c’è dubbio che la sconsiderata sortita di Di Maio può, al tempo stesso, essere interpretata come una spia anche del declino della popolarità del sindacato. Condizione che induce alcuni politici e politicanti ad uniformarsi a quello che viene considerato il “senso comune”. Anche se, come spiegava bene Manzoni, è generalmente diverso, e non di rado opposto, al “buon senso”. Insomma, Di Maio è stato l’ultimo in ordine di tempo a dire sciocchezze sul sindacato. Ma non è nemmeno l’unico. Basterà ricordare che non moltissimo tempo fa un noto politico, investito da preminente responsabilità istituzionale, non aveva esitato ad affermare che il tempo dedicato al confronto con il sindacato era da considerare, nei fatti, “tempo sprecato”.

In ogni caso, più che occuparci delle intimidazioni del candidato premier grillino con la sua pretesa di reclamare una “oscura autoriforma” del sindacato o, in assenza, di una riforma decisa dispoticamente dal governo, proposito che, fortunatamente non sembra costituire un reale pericolo imminente, vale la pena di interrogarci sulle difficoltà che hanno progressivamente indebolito ed indeboliscono il consenso su cui può contare il sindacato.

La prima cosa da dire è che sicuramente non hanno giovato alla sua credibilità ed al suo prestigio i deplorevoli episodi di devianza etica di singoli dirigenti e militanti. Anche perché non sempre sono stati contrastati con la tempestività e la determinazione che sarebbe stata invece necessaria. Il che ha ovviamente favorito l’ampliamento del fronte di quanti chiedono all’organizzazione dei lavoratori, come prova suprema di responsabilità, semplicemente di scomparire. Opinione incoraggiata da titubanze ed incertezze che, di fronte a riprovevoli episodi, che si sono purtroppo verificati, andavano invece scongiurate con la tempestività, la trasparenza e la determinazione necessaria. Quanto meno per impedire strumentalizzazioni e, soprattutto, che venisse gettata un’ombra sulla moralità e reputazione dell’intero sindacato. Il rammarico quindi è che ciò non si sia verificato con la decisione auspicabile. Che non sempre si è invece vista. Quanto meno nei termini e nelle forme necessarie ed attese. Tuttavia, per quanto questi episodi di devianza siano stati indiscutibilmente dannosi, non si può oscurare il fatto che i veri fattori di criticità e di debolezza del movimento sindacale vanno ricercati altrove. Soprattutto nelle questioni irrisolte di carattere strutturale. Che coinvolgono sia problemi oggettivi, che limiti soggettivi. Cause che sono alla base della tendenza diffusa a snervare progressivamente la reputazione ed il ruolo del sindacato.

Per quanto riguarda i problemi oggettivi l’elenco delle questioni è noto. A cominciare dalla svalutazione del lavoro. Sia sul piano dell’affievolimento dei diritti, che del trattamento economico. Strettamente intrecciata è la questione cruciale del lavoro. Del lavoro che cambia e del lavoro che manca. Membri del governo e della maggioranza non lesinano, comprensibilmente, sforzi per valorizzare l’occasionale diminuzione di qualche decimale di punto del tasso di disoccupazione. Variazioni, che però non producono cambiamenti sostanziali dei reali termini del problema. Del resto basta osservare il “tasso di occupazione” per capire come stanno veramente le cose. Da noi sono occupate poco più di sei persone su dieci. Il dato peggiore dell’Unione europea. Ad eccezione della Grecia. Abbiamo inoltre un forte squilibrio di genere (71,7 gli uomini occupati, 51,6 le donne). Grande anche il divario territoriale tra Centro-Nord e Sud (69,4 contro 47 per cento). Dati che dovrebbero indurre a riflettere sulla congruità ed appropriatezza delle misure adottate per migliorare la situazione occupazionale. Come si sa, prevalentemente incentrate in interventi dal lato dell’offerta, incentivi, bonus ecc. Con il risultato di aumentare in parte la precarietà e comunque con esiti inversamente proporzionali alle cospicue risorse mobilitate. Non è perciò arbitrario ritenere che insistendo su queste politiche la soluzione del problema del lavoro resti un miraggio. Con tutte le gravi conseguenze personali, familiari e sociali che questa crisi si porta dietro.

Ci sono poi le questioni della tutela del lavoro e della protezione sociale. Al riguardo non si dovrebbe mai dimenticare che una fondamentale ragione d’essere del sindacalismo (specie confederale) sta nel conseguimento di modelli e regole “universalistiche”. In particolare, con riferimento alla previdenza, all’assistenza. alla salute, all’istruzione, ecc. In proposito, si deve rilevare che diversi indicatori segnalano come silenziosamente (nel senso che non se ne ritrova   traccia nel dibattito pubblico) si sta invece andando nella direzione opposta. Per fare un solo esempio. L’Istat ci informa che il 23,3 per cento della spesa sanitaria è ormai a carico delle famiglie. Risultato: secondo una stima, non contestata da nessuno, 12 milioni di italiani (soprattutto nelle fasce sociali più fragili e deboli) non si curano più. Perchè tra ticket e superticket, analisi a pagamento (se si vogliono effettuare gli esami in tempo utile) non sono in condizione di fare fronte alle spese relative.  Sicché un diritto fondamentale, come quello alla salute, tende a dipendere sempre più dal possesso, o meno, di una carta di credito. Colpisce il fatto che per giustificare tale involuzione si usi una formula esoterica. Gli “esperti e gli addetti ai lavori” parlano infatti di “universalismo selettivo”. Se la cavano quindi con un ossimoro. Che tradotto nel linguaggio popolare significa semplicemente “per un discreto numero, ma comunque non per tutti”. Il senso politico che se ne deve trarre è che la “libertà”, se deve essere difesa come requisito universale, richiede equità e giustizia sociale. Quando questi requisiti difettano, o diventano evanescenti, non si può parlare di vera libertà. Per la buona ragione che non è la condizione di tutti.

C’è poi il dramma di quanti, pur avendo un lavoro, non riescono ad arrivare alla fine del mese. I dati del rapporto Istat “Noi Italia” ci dicono che il nostro Pil pro-capite, misurato in standard di potere d’acquisto (depurato, per rendere possibile il confronto, dai differenti livelli dei prezzi nei vari paesi), risulta inferiore del 4,5 per cento rispetto a quello medio dell’Unione Europea. Significativamente più basso di quello di Germania e Francia (rispettivamente del 23,6 e 9,2). Naturalmente, come per tutte le statistiche, anche questa si basa sulla “media di Trilussa”. Il che ci aiuta comunque a capire perché le diseguaglianze dilagano, e 7 milioni di persone sono in condizione di povertà relativa, mentre 4 milioni e mezzo sono in condizione di povertà assoluta. Cioè senza casa, senza tetto, senza tutto.

Non minore rilievo ha infine il problema delle pensioni. Che non a caso domina, a proposito ed a sproposito, sui media e nel dibattito pubblico. Con allarmi e disinformazioni che tolgono il sonno a milioni di lavoratori, a quanti sperano di diventarlo, ed alle relative famiglie. Sul tema prevale una voluta confusione. Si cammina infatti in una nebbia fitta nella quale si sentono in lontananza interventi allarmistici che, non di rado, sfociano in forme di terrorismo verbale. C’è quindi la urgente necessità di mettere una questione così delicata con i piedi per terra e cercare, per quanto faticoso, di farla uscire dal pantano. Muovendo da questo intento la prima cosa da fare consiste nell’impedire alla politica dal continuare a pasticciare in materia previdenziale. I disastri che ha combinato nel corso degli anni sono più che sufficienti per reclamare una decisione in tal senso. Per non farla lunga basterà ricordare: la concessione, quando la “bonomiana” era la più potente lobby parlamentare, della pensione ai coltivatori diretti, senza pagamento di contributi. Oppure il privilegio riconosciuto (nel 1973 dal governo Rumor) ai dipendenti pubblici inquadrati nell’Inpdap (Ente di previdenza per i dipendenti della P.A.)  delle baby pensioni. Trattamento usufruibile da tutti i lavoratori statali che avessero maturato un periodo di lavoro di almeno 15 anni sei mesi e un giorno. Ancora meno per le donne con figli. L’esito, come forse non era difficile prevedere (malgrado all’epoca la finanza pubblica fosse certamente in condizione migliore di quanto non sia ora), è stato che, nel giro di non molti anni, i conti dell’Inpdap sono finiti in dissesto. A quel punto la “soluzione” escogitata fu quella di trasferire e far assorbire dall’Inps l’Ente previdenziale dei dipendenti pubblici. Scaricando così sul bilancio dell’Inps, assieme all’obbligo di onorare il pagamento delle baby pensioni, anche i debiti accumulati. Il precedente aveva fatto scuola. Infatti, si è fatto ricorso all’Inps per fare fronte al sostanziale fallimento dell’Ente previdenziale dei dirigenti d’azienda. Poi per quello dei trasporti. Infine per quello delle telecomunicazioni. Anche tante altre questioni, nel corso degli anni, sono state affrontate con la stessa disinvoltura. Al punto che si è ormai determinato un inestricabile intreccio tra assistenza e previdenza. Tant’è vero che le pensioni vengono normalmente considerate dai commentatori come un unico capitolo della spesa pubblica. Assumendolo come parametro della loro  sostenibilità. In sostanza, la specificità della previdenza nel dibattito pubblico è sostanzialmente scomparsa. Ha contribuito ad alimentare questa confusione il fatto che a seguito delle cervellotiche scelte compiute dalla politica, l’Inps si è progressivamente trasformato in “un’ Idra”, in una “conglomerata”, in un “combinat”, nel quale è stato scaricato “anche se non tutto”, “un po’ di tutto”. Comprese un buon numero di incombenze, che con la corresponsione delle pensioni non c’entrano assolutamente nulla. Per rimediare a questo pasticcio la strada maestra non può che essere quella di dividere l’Inps. Istituendo due Enti distinti. Uno con il compito di occuparsi di Welfare pubblico e l’altro incaricato esclusivamente di gestire la previdenza. Senza questa misura tanto drastica, quanto razionale, è praticamente impossibile togliere il tema delle pensioni dal magma nel quale, ogni giorno che passa, rischia di affondare. Oltre tutto realizzando due organismi separati e distinti: uno per assicurare una efficace assistenza e protezione sociale, l’altro per gestire esclusivamente pensioni e garantire il loro equilibrio economico-finanziario, ci metteremmo in linea con il resto dell’Europa. Soprattutto si incomincerebbe a dare ai cittadini di questo paese, sempre più inquieti e preoccupati, la concreta prospettiva che venga ricostruita la speranza che torni ad essere possibile il passaggio dalla vita attiva ad una vecchiaia ancora ragionevolmente serena. Guardando i termini attuali della situazione si è indotti a ritenere che “non c’è tempo da perdere”. Anche perché diversamente, si deve mettere in conto che, se dovesse continuare l’attuale andazzo, “sarà il tempo a perdere noi”.

Quelle richiamate non sono ovviamente tutte le situazioni negative che gravano sull’incerta condizione attuale del lavoro, che richiedono di essere riformate. Tra l’altro vi si dovrebbe aggiungere la necessità di una ripartizione del lavoro. Passaggio obbligato, se l’obiettivo del pieno impiego deve essere preso sul serio. Oppure l’esigenza di intervenire sul cuneo fiscale che oggi pesa in maniera squilibrata sul lavoro dipendente rispetto agli altri redditi. O ancora sulla urgenza di migliorare le competenze, e quindi la produttività, con investimenti, non puramente simbolici, sul “capitale umano” e quindi sulla formazione continua. Dove siamo in grave ritardo rispetto al resto dell’Europa. Tuttavia ciò che serve non è un elenco dettagliato, analitico, delle questioni che pesano negativamente sulla condizione del lavoro e reclamano una soluzione.  Serve in particolare la capacità di selezionare e decidere le priorità. Per riuscirci dobbiamo fare i conti con i “limiti soggettivi”, che attualmente affliggono il ruolo sindacale. A cominciare dallo sbrindellamento della contrattazione e della rappresentanza del lavoro. Alcuni indicatori non possono che suscitare allarme e preoccupazione. Basti pensare che i contratti nazionali, o pseudo tali, hanno ormai superato l’incredibile cifra di 800 e  che le strutture organizzative vere, fasulle, false, contraffatte, danno vita ad un sottobosco nel quale si trova di tutto: formazioni composte da quattro amici del bar, oppure da “parentes et clientes”. In non pochi casi, esclusivamente finalizzate a beneficiare questo o quel personaggetto. Quindi il dato che colpisce è che siamo ormai in presenza di una frammentazione, di una proliferazione del tutto inimmaginabile fino a pochi decenni fa. Un paio di esempi possono valere di più di mille parole. Il primo. Come si ricorderà, non è passato molto tempo dalla protesta dei tassisti. Che per le modalità con cui si è svolta, più che uno sciopero, assomigliava piuttosto ad una incontrollata ribellione. Ebbene, con l’intento di riportare la situazione alla “normalità”, il Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture ha convocato una riunione, alla quale hanno liberamente partecipato tutte le organizzazioni conosciute e sconosciute. Risultato: intorno al tavolo del confronto, in rappresentanza dei 50.000 tassisti di tutta Italia, si sono ritrovate ben 21 diverse sigle. Se passiamo dal lavoro autonomo, concessionario però di un servizio pubblico, a quello più classicamente dipendente, colpisce il caso dell’Atac (l’azienda di trasporto pubblico) di Roma. Dove in rappresentanza dei 12 mila dipendenti ci sono ben 15 organizzazioni sindacali. Anche senza voler stabilire un arbitrario rapporto di causa ed effetto, si è indotti a pensare che sullo sfascio dell’azienda, che è ormai sotto gli occhi di tutti, a crescere sono soltanto le rendite di posizione.

Questa situazione non è stata e non è priva di conseguenze. Perciò, se, come sarebbe utile, Cgil, Cisl ed Uil intendono invertire la pericolosa frammentazione in atto, debbono fare scelte chiare ed assumere comportamenti coerenti. Ad iniziare da sé stesse. Per dirla in termini chiari la propensione alla dispersione ed alla frammentazione si combatte, innanzi tutto, con l’esempio di un impegno unitario. Condotta che in alcune circostanze si è anche fortunatamente realizzata. Ma che non può essere certo interpretata come un vincolo, bensì come un discrimine di valore strategico  al quale sia legata la gestione delle scelte sindacali. Infatti, sul bisogno di unità, nella pratica quotidiana dominano piuttosto le esigenze di identità. E, nella sostanza, un atteggiamento inevitabilmente orientato alla concorrenza ed alla competizione. La giustificazione degli “addetti ai lavori” per questo stato di cose è nota e, secondo alcuni, anche ragionevole. In sostanza viene invocato il motivo che le differenze di orientamento, di cultura, di tradizioni, nei fatti, producono inevitabilmente anche strategie politiche diverse. A ben vedere si tratta però di una spiegazione che non spiega nulla. Intanto per la buona ragione che le differenze sulle politiche ci sono sempre state e ci saranno sempre. Non solo tra diverse organizzazioni, ma anche all’interno di ciascuna organizzazione. E quando non si manifestano è un cattivo segno. Perché vuol dire che la dialettica interna è anestetizzata dal conformismo e dall’opportunismo. In ogni caso, si possono anche capire tutti i dubbi e le perplessità, ma viene un momento e questo momento per il sindacalismo confederale è sicuramente venuto, che dubbi e perplessità rischiano di non essere altro che un alibi per sfuggire alle proprie responsabilità. Il lavoro da sviluppare è, dunque, quello di cogliere l’unità nella diversità e di trasformare il superamento delle diversità in una ragione di irrobustimento dell’unità. Condizione indispensabile per realizzare, come richiesto dalle sfide da affrontare, un impegno solidale, condiviso, efficace. Va detto che in proposito non è possibile alcuna indulgenza, nessuna condiscendenza. Perché, mentre per la soluzione dei problemi che riguardano la condizione del lavoro si devono fare i conti con l’opposizione, la resistenza delle controparti e degli avversari, in questo campo tutto dipende esclusivamente dalla volontà e dalla coerenza soggettiva del movimento sindacale confederale.

Sappiamo che le cose sono cambiate e non saranno mai più le stesse di un tempo. Perché la storia accelera e scopriamo non solo di essere in affanno e spesso in ritardo. Tuttavia, non possiamo essere condiscendenti con noi stessi. Perché quanti, come chi scrive, sono convinti che il sindacato abbia ancora una funzione essenziale da esercitare, per realizzare più equità sociale, migliori condizioni di lavoro e di vita, garantire un importante pilastro della democrazia, devono fare quanto dipende da loro per cercare, con un impegno collettivo, di risalire la china. Non possono quindi esimersi dal compiere i passi necessari, a cominciare dalle indispensabili pre-condizioni, per ridare al mondo del lavoro un progetto ed una speranza credibili. Inutile sottolineare che la strada è tutta in salita e che il cammino è alquanto impervio. Perché le difficoltà da affrontare sono serie ed impegnative. Ma al   tempo stesso si deve essere consapevoli che c’è una sola difficoltà davvero insuperabile: è la rassegnazione. Per scongiurare questo pericolo, faccio mia l’affermazione dell’ex presidente del Consiglio europeo, già primo ministro belga, Herman Van Rompuy, che in un recente intervento a Roma,  ha detto: “Io resto un uomo della speranza”

Fiducioso quindi che verranno compiute le scelte necessarie, assieme alla conferma della permanente vicinanza e solidarietà di vecchio militante, invio fraterni saluti.

 

Pierre Carniti

Roma, 9 ottobre, 2017

LA SFIDA A SINISTRA NELLA POLITICA ITALIANA . INTERVISTA A FABIO MARTINI

Fabio Martini (AUGUSTO CASASOLI/A3/CONTRASTO)

Come si svilupperà la sfida politica nella sinistra? Quali saranno le possibili novità?   Ne parliamo, in questa intervista, con il cronista politico della Stampa Fabio Martini.

Siamo all’ultimo giro di questa complicata legislatura. Dopo l’approvazione della legge di stabilità inizierà il “rettilineo” che ci porterà, in primavera, alle elezioni. Eppure ci sarebbe ancora lo spazio e il tempo per dare un senso compiuto alla legislatura. Mi riferisco, certamente. allo ius soli e alla legge elettorale . Incominciamo dallo ius soli. Secondo te è possibile che Gentiloni, anche per il pressing della CEI, ponga la fiducia? Insomma nel Pd passerà la linea Boschi o quella di Del Rio?

Per far passare la legge, basterebbe cercare un compromesso, che salvaguardando il principio ispiratore, superi qualche automatismo. Ma quel compromesso ragionevole nessuno lo cerca. E infatti nel Pd dicono: cerchiamo fino all’ultimo i voti, ma nessuno si batte per un punto di incontro. I principali attori della scena hanno tutti interesse allo statu quo, per cui quasi certamente la legge non passerà. Il Pd, che rivendica la riforma ma ne teme l’impopolarità, può dare la colpa ad Alfano e alla destra; i centristi possono fregiarsi di non averla fatta passare. L’unico che vorrebbe farla approvare, raggiungendo un punto di equilibrio, è il presidente del Consiglio, che infatti è l’unico che non ha dato tutto per perso. Ma il decreto legge su questioni così controverse non è immaginabile.

Parliamo della legge elettorale . Anche questo è uno snodo decisivo per il futuro della prossima legislatura . Però, anche qui, non è molto chiara la prospettiva. Ma Renzi ci crede veramente? Eppoi se davvero dovesse andare in porto quali sarebbero le “coalizioni” a sinistra, visto che il centrodestra appare più compatto? Insomma sono più i dubbi che le certezze. Qual è la tua opinione?

Dopo il lancio del “Rosatellum”, i principali partiti hanno iniziato a fare le loro simulazioni, negli ultimi giorni nel Pd qualcuno sussurra che Renzi si sarebbe convinto che il ridotto numero di collegi previsto dal nuovo testo, avvantaggerebbe il Pd. La partita non è ancora conclusa, ma se Forza Italia la ostacolerà, non se ne farà nulla.

Guardiamo all’interno degli schieramenti. Incominciamo dal leader “riluttante”, Pisapia. Quello che appare è che sia un poco infastidito dal pressing dalemiano- bersaniano. E avrà pure un allontanato la sua tenda dal PD. Però, al contrario di D’Alema, non percepisce Renzi come nemico. Insomma cosa si aspetta dal PD?

All’ex sindaco di Milano non piace lo stile della leadership di Renzi, ma per una prospettiva di governo, ritiene indispensabile un futuro accordo di governo col Pd, con Paolo Gentiloni a palazzo Chigi. L’Mdp di Bersani e D’Alema punta alla sconfitta politica di Renzi. Quasi certamente finirà che le due aree a sinistra del Pd si separeranno. E in questa scomposizione non si possono escludere sorprese, con l’apparizione di personaggi destinati a sparigliare tutto.

Parliamo di Mdp. Gli scissionisti del PD, pur tra sfumature diverse, sono ancora alla ricerca di un ubi consistam . Ovvero vogliono creare un nuovo centrosinistra di governo. L’impressione è che si stanno avvitando su se stessi. Per cui per loro il rischio è che che siano sempre più percepiti solo come anti PD. Tu non vedi questo avvitamento?

L’impressione dell’avvitamento su se stessi corrisponde ad un fatto oggettivo. Per gli scissionisti l’imperativo categorico è cancellare la leadership Renzi. Il resto viene dopo. Ogni loro mossa è subordinata a questo obiettivo. Ecco perché paiono ruotare attorno allo stesso perno.

Massimo D’Alema sta vivendo una fase inedita per uno con la sua storia . Una sorta, come qualcuno polemicamente lo ha definito, di “gruppettaro”. Una strana eterogenesi dei fini per l’uomo più di apparato della politica italiana. Verrebbe da ricordargli il monito di Lenin sull’estremismo…Come ti spieghi questa fase dalemiana, una fase assolutamente da non banalizzare solo come anti renzismo. C’è qualcosa di più profondo?

Sì, la domanda coglie molto bene la mutazione, quasi genetica, di uno dei leader politici più influenti degli ultimi 25 anni, uno dei 28 italiani che ha fatto il presidente del Consiglio nel secondo dopoguerra. Per tutta una vita D’Alema ha incarnato la concezione leninista-gramsciana-togliattiana per cui prima di tutto viene il Partito. Per cui il noi viene sempre prima dell’io. Per cui è meglio sbagliare col Partito che aver ragione da soli. Incoraggiando la scissione dal “Partito” per ragioni prevalentemente di incompatibilità personale con Renzi, D’Alema ha archiviato la propria storia comunista e appare come uno dei tanti leader, che sembrano mossi più da motivazioni individuali che da spinte “generali”. Magari non è così. Ma l’impressione è quella.

Il PD pare vivere una congiuntura di non tensione. Ma dietro l’angolo ci sono le le elezioni siciliane. E lì il tappo salta. che faranno Franceschini e Orlando?

Vedremo. Ci sono le liste elettorali da fare e i non-renziani del Pd contratteranno una tregua con Renzi, in cambio di qualche seggio in più.  Se avranno coraggio, porranno il problema del leader da indicare per palazzo Chigi, cioè Gentiloni. Altrimenti se ne riparlerà dopo le elezioni. Se il Pd conquisterà più del 25 per cento, Renzi resterà segretario, ma se i democratici alle Politiche prenderanno un voto in meno del Pd di Bersani nel 2013, allora la poltrona di Renzi potrebbe saltare.

Veniamo al centrodestra. Berlusconi dice: Io sono il PPE in Itala. Però ha capito che senza l’alleanza con Salvini non vince . Intanto apre al rosatellum. Insomma anche qui siamo nella precarietà politica. E’ così?

Berlusconi è più avanti di Renzi nella costruzione di una coalizione. Ma fino a quando non si sa come si vota, sono tutte illazioni.

Ultima domanda: Quale sarà il futuro di Gentiloni? Io non credo la   “panchina ” anzi…

Paolo Gentiloni non muoverà una foglia per passare dalla “panchina” al ruolo di centravanti. E’ leale con Renzi che lo ha scelto e sa che, brigando per sé, diventerebbe uno dei tanti trasformisti della storia della Repubblica. Attenderà di essere “chiamato” come salvatore della Patria. La partita si giocherà prima delle elezioni, Renzi non lo indicherà spontaneamente come candidato a palazzo Chigi, ma la “forza delle cose” potrebbe riservare qualche sorpresa.

Piccole patrie e grandi patrie.
Una riflessione di Pierluigi Castagnetti

 


Pubblichiamo una breve riflessione sul referendum in Catalogna di Pierluigi Castagnetti (Ex Segretario Nazionale), uno dei Padri dell’europeismo contemporaneo.

Piazza Catalunya, Barcellona (Gettyimages)

Sulla vicenda catalana si possono, e forse si debbono, fare tante considerazioni. A partire dalla demenziale gestione da parte del governo Rajoy: non si manda la Guardia Civil a Barcellona autorizzandola all’uso della forza per impedire un referendum comunque illegittimo, che poi si svolge ugualmente. Ma, soprattutto, non si arriva a qst limite senza prima aver fatto effettivamente ricorso ai tradizionali mezzi della politica: dialogo, trattative, concessioni, mediazioni. È dai tempi del riconoscimento della nazionalità ai Paesi Baschi che si sapeva che prima o poi si sarebbe dovuti giungere allo stesso risultato con la Catalogna, con la costituzione finale di una Confederazione Spagnola. Operazione che andava pensata e preparata con intelligenza, pazienza e percorsi costituzionali adeguati. Adesso lo si dovrà fare in condizioni politiche e sociali decisamente compromesse.
Ma il punto che mi angoscia è un altro, e riguarda il possibile effetto-contagio nelle altre catalogne presenti in Europa.  
Al netto delle condizioni storiche, geografiche, linguistiche, religiose che a volte, senza giustificarla, possono spiegare una certa tensione indipendentistica, si sta irrobustendo nel dibattito politico europeo una certa propensione antisolidaristica che non può che generare spinte disgregatrici. Quando si dice “noi versiamo più tasse di quanto non ci ritorni in investimenti statali” o, se si tratta dell’Ue, “noi siamo contributori netti, nel senso che versiamo di più di quanto ci rientri” si innesca il virus che prima o poi porta alla disgregazione. È pacifico che all’interno di un paese se le attività produttive sono dislocate prevalentemente in un’area, quell’area verserà più tasse allo Stato il quale le distribuirà in modo proporzionato alle diverse esigenze di ogni territorio, così come chi è più ricco pagherà più tasse anche a vantaggio di chi ha minori disponibilità. È il principio di solidarietà che regge l’unità degli Stati, e anche l’unità dell’Europa politica formata da tanti Stati.
Se la politica guida le pretese antisolidaristiche dei singoli e dei territori contraddice semplicemente la sua funzione. A che serve, a quel punto? Si illude di coltivare in tal modo il massimo del consenso senza capire che invece coltiva la contestazione in radice della sua utilità.