Il conflitto in Yemen e le forniture militari italiane ai sauditi. Intervista a Mimmo Cortese

L’inchiesta del New York Times sulle bombe italiane utilizzate dall’aeronautica militare saudita nel conflitto in Yemen ha riacceso l’attenzione e il dibattito sulle esportazioni di armamenti. Sollecitata dal prestigioso quotidiano d’oltreoceano, la Farnesina ha diffuso un comunicato e diversi commentatori hanno cercato di giustificare le forniture di sistemi militari alle forze armate della monarchia saudita. Nei giorni scorsi, a fronte della gravissima situazione umanitaria nello Yemen per il perdurare del conflitto, la Norvegia ha annunciato la sospensione delle esportazioni di armamenti oltre che ai sauditi anche agli Emirati Arabi Uniti. Il Parlamento europeo si è già ripetutamente espresso chiedendo di imporre un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita. Intanto, per garantirsi autonomia nel munizionamento militare, l’Arabia Saudita ha fatto sorgere una fabbrica alle porte di Riad. Facciamo il punto della situazione con Mimmo Cortese, membro del Consiglio scientifico dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (OPAL) di Brescia.

L’inchiesta del New York Times sulle bombe prodotte in Sardegna dalla RWM Italia ed utilizzate dall’aviazione saudita nei bombardamenti anche sulle zone civili in Yemen ha riportato all’attenzione pubblica il conflitto che si sta consumando nello Yemen. Dopo oltre mille giorni di conflitto, qual è la situazione in Yemen? 

La situazione è terribile. Un paese già molto povero è stato devastato dalla guerra e dalle sue conseguenze più nefaste come le malattie e l’indigenza. Le Nazioni Unite l’hanno definita “la più grande crisi umanitaria al mondo“. Non è possibile avere dati precisi, ma i morti civili stimati dalle agenzie internazionali vanno dai 20mila ai 40mila, con 7 milioni di persone ridotte alla fame. Secondo il capo degli Affari umanitari dell’Onu, Mark Lowcock, ci troviamo davanti alla “più grande carestia che il mondo abbia mai visto da molti decenni, con milioni di vittime”. Inoltre, 800mila persone sono state colpite dall’epidemia di colera, la più grave oggi nel mondo, che ha già causato già più di 2mila morti. E mentre continuano abusi e bombardamenti indiscriminati stiamo anche assistendo al ritorno della difterite, una malattia che si ripresenta quando vengono meno i servizi sanitari e idrici di base. L’inviato speciale del Segretario Generale dell’ONU ha inequivocabilmente affermato che “non esiste una soluzione militare al conflitto“ e ha ribadito che “solo un processo di pace inclusivo che includa tutte le parti nello Yemen può portare una soluzione pacifica, fattibile e sostenibile per il popolo dello Yemen”.

 

In questo quadro così drammatico ha suscitato non poche critiche la risposta del governo italiano al reportage del New York Times. In un comunicato, la Farnesina afferma che “l’Italia osserva in maniera scrupolosa il diritto nazionale ed internazionale in materia di esportazioni di armamenti” che “l’Arabia Saudita non è soggetta ad alcuna forma di embargo, sanzione o altra misura restrittiva internazionale o europea”. Voi insieme alla Rete italiana per il Disarmo e diverse altre associazioni già da tempo criticate queste posizioni, perché? 

Riteniamo sia un’affermazione grave poiché manifesta non solo un’inammissibile ignoranza ma soprattutto perché rappresenta un’evidente intenzione di ridurre la portata della norma da parte del Ministero degli Esteri. La legge 185/90, che regolamenta l’export di armamenti, non vieta solamente le forniture a Paesi sottoposti a misure di embargo, ma anche “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa”. Come ha ben documentato, Giorgio Beretta, uno dei nostri principali analisti, le forniture di armamenti ai sauditi violano anche un’importante norma comunitaria, la Posizione Comune europea sulle esportazioni militari. La Farnesina e il governo italiano, inoltre, hanno del tutto ignorato tre risoluzioni adottate ad ampia maggioranza dal Parlamento Europeo che hanno chiesto all’Alta rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri, Federica Mogherini, di avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’Ue di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita. Risoluzioni, va detto, cui l’Alta Rappresentante finora non ha dato alcun seguito.

 

Nei giorni scorsi, sul sito “Affari Internazionali” è apparso un articolo di Michele Nones, consulente del Ministro della difesa Pinotti, in cui si afferma che sia “fuorviante” sostenere che “l’Arabia Saudita andrebbe considerata come coinvolta in un conflitto perché interviene insieme ad altri paesi a sostegno del governo dello Yemen”. E lo collega alla lotta al terrorismo internazionale. Come valuta questa posizione?

Innanzitutto va detto che l’intervento militare della coalizione a guida saudita non è mai stato legittimato dal Consiglio di sicurezza delle Nazione Unite. La Risoluzione 2216 del 14 aprile 2015, infatti, prende solo atto della richiesta del presidente yemenita ai Paesi del Golfo e della Lega Araba di intervenire con tutti i mezzi, compreso quello militare, per – si noti bene – “proteggere lo Yemen e la sua popolazione”. L’intervento militare che ne è seguito ha invece visto pesanti bombardamenti da parte della coalizione saudita anche sulle zone abitate da civili. Bombardanti effettuati anche con bombe fornite dall’Italia e che il rapporto degli esperti dell’Onu ha dichiarato che “possono costituire crimini di guerra”. Riguardo al contrasto al terrorismo internazionale va segnalato che nello Yemen sia Al Qaeda che l’Isis-Daesh si sono rafforzati ed hanno guadagnato posizioni proprio a seguito del protrarsi del conflitto. L’affermazione del professor Nones ritengo sia incommentabile, soprattutto di fronte alla tragedia che stanno vivendo milioni di persone in Yemen. Anche per questo abbiamo chiesto alla Ministra Pinotti di chiarire se quelle dichiarazioni rappresentano il suo pensiero.

Il professor Nones inoltre parla, in riferimento alla guerra in Yemen e alla lotta al terrorismo, di “inevitabili vittime civili”. Un’aberrazione in senso generale che diventa però assolutamente inaccettabile di fronte alla catastrofe umanitaria di cui stiamo parlando. Stabilire che decine di migliaia di persone debbano morire, indiscriminatamente, per una scelta politica avallata da un governo di una nazione come l’Italia che, sollevatasi dalla tragedia del fascismo e della Seconda guerra mondiale, ha scritto, nell’articolo 11 della Costituzione, che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” rappresenta un chiaro stravolgimento del nostro dettato costituzionale.

 

Intanto ci sono nuove notizie. Nei giorni scorsi il Ministero degli esteri della Norvegia ha comunicato di aver sospeso le licenze all’export di armi e munizioni agli Emirati Arabi Uniti per i rischi associati all’impegno militare degli Emirati in Yemen. Il recente rapporto del vostro Osservatorio riporta, invece, che l’Italia non solo ha incrementato l’esportazione di armamenti all’Arabia Saudita, ma che continua a rifornire di munizionamento anche gli Emirati Arabi Uniti.

 La Norvegia ha da tempo vietato le esportazioni di sistemi militari all’Arabia Saudita, così come hanno fatto altri paesi dell’Unione come Germania, Svezia e Paesi Bassi. Questa nuova decisione è stata presa anche sulla spinta di diverse campagne di pressione da parte di associazioni norvegesi ed europee per la tutela dei diritti umani. Il nostro paese, invece, continua ad esportare bombe non solo agli Emirati ma anche ai sauditi: la licenza per la fornitura all’Arabia Saudita di 19.675 bombe del tipo MK 82, MK 83 e MK 84 del valore di 411 milioni di euro, rilasciata dal governo Renzi nel 2016, rappresenta la maggiore autorizzazione per l’esportazione di bombe aeree mai rilasciata da un governo italiano dal dopoguerra. Il fatto preoccupante tuttavia è che vendiamo armi, con trend sempre crescenti negli ultimi anni, a paesi nei quali i diritti umani sono gravemente violati e in zone di forte tensione se non a paesi chiaramente in conflitto.

 

Nei giorni scorsi però è apparsa la notizia che la Rheinmetal Defence potrebbe trasferire l’attuale produzione di bombe aeree dalla Sardegna alla sua azienda in Arabia Saudita. Qual è stata finora la posizione dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali? E qual è la sua opinione in merito? 

L’investimento militare, benché redditizio, è per sua natura instabile. Lo dimostrano numerosi studi e ricerche e lo sanno bene gli analisti economici del settore. In questo caso – anche mettendo tra parentesi, solo per un momento, il problema non semplice della fabbricazione di ordigni letali – quando si punta su una produzione legata alla contingenza di un conflitto armato, è difficile pensare che non possano accadere situazioni come quella che si sta profilando alla RWM. Le delocalizzazioni non sono un fenomeno nato ieri. Il punto centrale, tuttavia, è che proprio l’articolo 1 della legge 185/90 impegna il Governo a predisporre “misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione produttiva e la conversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa”. Sono lustri che non vediamo attuata questa importante prescrizione di una legge dello Stato: se venisse messa in atto, anche situazioni come quelle che sta vivendo la Sardegna potrebbero essere scongiurate.

La foto è tratta dall’inchiesta del NYT

“Per un sindacato che affronta le novità e ne diventi protagonista”. Intervista a Marco Bentivogli

Il 2017 è stato un anno importante per il movimento sindacale italiano, in particolare per la categoria dei metalmeccanici. Quali saranno le prossime sfide per il sindacato confederale? Ne parliamo, in questa intervista, con Marco Bentivogli, Segretario Nazionale della Fim-Cisl.

Marco Bentivogli, facciamo un piccolo bilancio del 2017. Nel 2017 i metalmeccanici sono tornati protagonisti nel movimento sindacale. Puoi dirci i risultati dell’anno appena passato?

È stato un anno importante: si sono chiusi tanti rinnovi contrattuali, nei metalmeccanici li abbiamo centrati tutti cercando di innovare impianto e contenuti del Contratto Nazionale. Abbiamo risolto molte crisi industriali e riacceso la speranza per Alcoa, mancano ancora all’appello Ilva, Aferpi e tante altre su cui siamo impegnati anche in queste ore.

E sul piano confederale, la Cisl è stata determinante per dare un senso e risultati alla riapertura del dialogo col Governo, sul lavoro, la povertà, le pensioni, temi su cui abbiamo superato un’incomunicabilità pericolosa.

 

Quali accordi puoi definirli come “strategici”, nel senso che portano innovazione alla cultura sindacale?

È appena iniziata la gestione dei Contratti, fase spesso trascurata dopo la firma. Un bel colpo è stato il primo contratto territoriale firmato a Bergamo con Confimi. Tenteremo una pista del tutto nuova anche in Manfrotto. È il momento di consolidare ovunque un nuovo sistema di inquadramento professionale.

Il mondo del lavoro e più in generale la società stanno profondamente cambiando, come sono cambiati anche i bisogni dei lavoratori. Davanti ai cambiamenti del mondo del lavoro, il sindacato non può e non deve stare fermo, deve sapersi evolvere al passo di quella che ormai tutti definiscono la Quarta Rivoluzione Industriale. Industry 4.0 è una grande occasione per il rilancio della nostra industria ma serve un vero e proprio ecosistema 4.0 in cui tutte le parti agiscono con responsabilità ed integrazione. Il lavoro del futuro porterà a un lavoratore professionalizzato, con un ruolo crescente, diventerà sempre più stakeholder dell’impresa. Ci sarà un’evoluzione delle relazioni industriali con salto di qualità in senso partecipativo. Questo non determinerà la fine della rappresentanza ma servirà un’evoluzione nelle relazioni industriali. La smart factory la ‘fabbrica intelligente e agile’ non funziona senza le persone, e neanche senza la smart union, vale a dire che servirà un sindacato competente, che studia, ascolta e capace di guardare le spalle alle persone promuovendole nel lavoro. Il futuro che si apre davanti a noi sarà per un sindacato che non si chiude in difensiva con desueti slogan sulla contrattazione e la rappresentanza. Sarà invece per un sindacato che affronta le novità e ne diventa protagonista. Di fronte a tutti questi cambiamenti penso che sia necessaria una rappresentanza più snella e forte: non ha più senso la proliferazione dei soggetti sindacali. Modelli evoluti di partecipazione si realizzano nei Paesi in cui si è ridotti il numero dei sindacati, dei contratti collettivi e delle categorie. È necessaria una semplificazione dei livelli organizzativi che tenda alla realizzazione di un’organizzazione più leggera e partecipata. Per aprire questo nuovo ciclo sindacale, ci vuole coraggio e una visione lungimirante.

 

Il 2018 sarà un anno, per il sindacato, importante. E’ l’anno, anche, del Congresso della Cgil. Pensi che la nuova leadership di Corso Italia sarà più disponibile ad affrontare un cammino che porti all’unità del Sindaco Confederale? Quale elemento frena, ancora, questo cammino?

La Cgil è imprigionata in un’idea del lavoro e del sindacato le cui difficoltà sono accentuate dall’essere orfane di un rapporto organico con un partito di dimensioni degne di una grande confederazione. Mi sembrano più concentrati sull’insuccesso del Pd che sulle tematiche del lavoro. È vero che in tal modo si è rappresentativi dell’Italia del rancore” ma quel paese non si iscrive al sindacato e consegna lo stomaco ai populisti e alle destre.

Credo, come dice Mauro Magatti, che senza nuovi paradigmi rischiamo di fare solo tenerezza nella nostra auto-marginalizzazione. Nonostante le profonde divisioni penso che le ragioni che nel dopoguerra hanno dato vita a Cgil Cisl Uil non siano più attuali. Nei grandi sindacati europei coesistono culture, socialdemocratiche, liberali, ambientaliste, radici più vicine alla dottrina sociale della Chiesa. In Italia abbiamo fatto meglio dei partiti (guardi a sinistra dove ne nasce uno al giorno…) ma dobbiamo osare di più in futuro.

L’unità non guasta ma deve produrre avanzamenti. Quando si è uniti per star fermi o in retromarcia meglio non allontanarmi mai dal merito e difendere la nostra gente, proprio come abbiamo fatto questo mese su lavoro e previdenza.

Non nego che una semplificazione del quadro sindacale sarebbe utile, all’interno delle confederazioni, come è avvenuto in tutta Europa riducendo il numero delle categorie e nel numero delle sigle sindacali. In Fca siamo in 7 sindacati, in altri settori si siedono al tavolo anche 30 sigle. Non solo bisogna rendere operativi gli accordi sulla rappresentanza sostenendo la selezione di rappresentatività per sindacati di lavoratori e imprese con una cornice legislativa ma credo bisognerebbe andare oltre.

 

La Fabbrica 4.0 mette in discussione vecchi paradigmi fordisti. Eppure c’è Ancora, nel lavoro italiano, molto fordismo. Torna il tema del conflitto sociale. Questo il sindacato non lo può dimenticare…. Qual è il tuo pensiero?

Mette in soffitta antagonismo padronale e sindacale ma funziona se è sostituito da modelli di partecipazione evoluti. Il conflitto sorge dove si utilizza la tecnologia senza progettazione sociale o dove non si investe affatto in tecnologia. C’è un dualismo economico tra imprese che innovano, investono, esportano e il resto, che non punta al futuro e investe solo su conflitto e ammortizzatori sociali.

 

Ci sono forze politiche che propongono il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una mossa giusta? Più in generale qual è il tuo giudizio sul Job act?

Credo che la partita del Job Act sia stata viziata fin dall’inizio da due atteggiamenti sbagliati: da una parte il trionfalismo che vedeva nel provvedimento la soluzione di tutti i problemi del lavoro in un paese in cui l’industria aveva perso 1/3 del suo tessuto. L’altro atteggiamento sbagliato è stato quello ideologico che vedeva nel Job Act e nell’art 18 la causa di tutti i mali perché avrebbero determinato l’aumento dei licenziamenti. Possiamo sicuramente rintracciare nel provvedimento degli aspetti positivi e negativi. Non banalizzo l’aspetto positivo del provvedimento sulle assunzioni e sull’apprendistato di primo livello che sono elementi fondamentali ma ritengo che il Job Act, poteva essere una grande opportunità per fare molto di più. Quando parliamo di lavoro bisogna essere più realistici, per far ripartire le assunzioni bisogna pensare a come poter rilanciare l’industria e far ripartire gli investimenti, motori essenziali per la crescita del Paese. Tra gli aspetti negativi che non condiviso del Job Act sicuramente lo scarso coraggio messo in campo dal governo per lo sfoltimento delle forme contrattuali. Nella maggior parte dell’Europa ci sono al massimo 4/5 forme contrattuali con cui è possibile assumere e che rendono il sistema più stabile. Non condivido la possibilità di procedere a licenziamenti collettivi mentre sui disciplinari andavano specificate meglio le casistiche all’interno delle quali confinarli. Ma i temi della formazione e dell’apprendistato dovevano essere centrali. Ce se ne accorge solo adesso.

 

Il governo Gentiloni ha avuto alcuni meriti, in particolare quello di riaprire il dialogo con il sindacato: Un dialogo che ha portato all’accordo di Novembre con Cisl e Uil senza la Cgil. Poi c’è stato il rinnovo del contratto degli Statali. Insomma un governo per certi versi “concertativo” .Ti chiedo, guardando alle elezioni, nel caso di una vittoria della destra sovranista e populista come si comporterà il sindacato?

Il populismo è nemico del lavoro, ma anche nemico del nostro ruolo educativo tra la gente. Come sindacato dobbiamo proteggere le persone dalla disinformazione che sta minando ed erodendo la nostra democrazia. La cultura è l’arma più forte, insieme al nuovo protagonismo delle persone.

Credo che il sindacato debba riappropriarsi con forme nuove del suo ruolo educativo nel lavoro e all’interno della società, deve tornare ad occuparsi dei nodi cruciali della vita delle persone per poter fronteggiare con coraggio l’ondata populista che fa leva sulle paure e insicurezze delle persone. È un compito difficile soprattutto in una società frammentata ma non possiamo rinunciare alla nostra missione. Il Sindacato è una delle più belle forme di solidarietà collettiva e non sarà mai compatibile col razzismo e con qualsiasi forma di totalitarismo né tantomeno con la falsa democrazia diretta dei click.

 

Ultima domanda: Sappiamo che sei molto corteggiato dalla politica e da diversi schieramenti. Cederai alla tentazione?

Mi fa molto piacere che ci sia stata un’attenzione da parte della politica ma per quanto mi riguarda ho ancora molto da fare nella mia Organizzazione. Stiamo trasformando la Fim in modo profondo, siamo soddisfatti ma a metà del guado. C’è sempre il rischio di tornare indietro verso la burocratizzazione e l’inaridimento valoriale. Non possiamo permettercelo.