L’ITALIA DEI RANCORI E HIT SHOW, LA FIERA DELLE ARMI. Interviste a: Piergiulio Biatta, Andrea Gnassi, Isabella Sala e Francesco Vignarca

Hit Show (Facebook/@HITShoeIEG)

Il terribile attentato di Macerata, in cui il giovane simpatizzante nazifascista, Luca Traini, ha scaricato dalla sua auto in corsa due caricatori di munizioni dalla sua pistola, legalmente detenuta per uso sportivo, contro le persone di colore ha riportato all’attenzione pubblica due temi: il diffondersi di sentimenti razzisti e xenofobi, alimentati dai veleni diffusi dagli “imprenditori della paura” e spesso accompagnati da manifestazioni di stampo fascista, e il controllo della diffusione delle armi.

Oggi, ad una settimana dall’attentato di Macerata, apre i battenti HIT Show (Hunting, Individual Protection and Target Sports), la manifestazione fieristica e salone delle “armi comuni” che da quattro anni si svolge a Vicenza. Le Amministrazioni comunali e provinciali di Rimini e di Vicenza sono tra i principali soci azionisti pubblici di Italian Exhibition Group (IEG), la società nata nel 2016 dalla fusione tra Rimini Fiere e Fiera di Vicenza, che insieme ad ANPAM (Associazione nazionale produttori di armi e munizioni) promuove la manifestazione fieristica.

Sempre a Vicenza, oggi, l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (OPAL) di Brescia insieme alla Rete Italiana per il Disarmo terranno un incontro pubblico, organizzato già da tempo, dal titolo Insicurezza, rancore, farsi giustizia: dentro l’Italia che si arma“ (ore 15.00 presso la sala conferenze dell’Istituto Missionari Saveriani in viale Trento, 119)

Abbiamo intervistato, inviando domande scritte, gli amministratori locali di Vicenza e Rimini e i rappresentanti di OPAL Brescia e di Rete Disarmo : Andrea Gnassi è il Sindaco di Rimini; Isabella Sala è Assessore alla Comunità e alle famiglie di Vicenza; Piergiulio Biatta è presidente dell’Osservatorio OPAL di Brescia e Francesco Vignarca è coordinatore nazionale della Rete italiana per il disarmo.

Sabato scorso, un giovane simpatizzante nazifascista, ha sparato dalla sua auto per le vie del centro di Macerata a tutte le persone di colore che incrociava. Il sindaco di Macerata ha commentato dicendo che “Non è un fatto isolato, c’è un fermento che dobbiamo essere in grado, in maniera esplicita e non ambigua, di fermare e combattere”. Qual è il suo pensiero in proposito? 

Andrea Gnassi
Io penso questo: il razzismo, la violenza, le discriminazioni di ogni tipo, vanno contrastate senza se e senza ma. Quello che è avvenuto nei giorni scorsi a Macerata è un atto terribile, tragico, che non deve essere derubricato a ‘follia di un singolo’ né ridotto nelle cause e negli effetti da qualsivoglia tipo di giustificazione. Che non c’è, non esiste: questo va detto chiaramente. Non si può rinunciare ad affermare la natura terrorista e fascista di quanto avvenuto nei giorni scorsi, ed è folle e letale anche il solo pensare a un nesso con altre situazioni. Sono d’accordo con il Ministro Del Rio: in Italia, e purtroppo non solo in Italia, c’è un evidente ritorno a evocare e a riferirsi a idee e a ideologie che sono state messe al bando dalla nostra Costituzione e sono state respinte nel momento in cui abbiamo deciso di essere uno stato libero e democratico. Il clima non è dei migliori, e spaventa perfino la leggerezza, l’inconsapevolezza, la superficialità, l’ignoranza, con cui certi simboli, certe parole di morte, di dolore, vengono riesumate. Non per questo dobbiamo stare zitti, in attesa che ‘passi la nottata’. Anzi, questo è il momento per evidenziare con determinazione e ostinazione l’anima stessa di un Paese che è nato perché ha scelto collettivamente di rifiutare la logica del terrore, della violenza, del razzismo

Isabella Sala
Il risveglio di una sottocultura razzista e fascista, in certi casi addirittura nazifascista, trova linfa nella paura del diverso in un contesto in cui tutti viviamo l’emergenza del problema immigrazione e dell’accoglienza profughi; ma non possiamo trasformare problemi mondiali, con cause complesse e strutturali, in semplificazioni e soluzioni urlate dalla politica per facili consensi quanto impraticabili nei fatti. Ci sono responsabilità politiche in capo ad ogni persona che ricopra ruoli di leadership. Gli amministratori e i politici hanno il dovere di aumentare la coesione sociale e diminuire, non certo fomentare, la tensione sociale. Impossibile in poche righe cercare di chiarire le responsabilità di ognuno: dalle cause dell’immigrazione forzata, ai Paesi in Europa che non fanno la propria parte, ai sindaci che accolgono o non accolgono pochi richiedenti asilo per comunità, al ruolo fondamentale dei media e di ogni cittadino, a una legge, la Bossi Fini, che va modificata. Prendere atto di un mondo cambiato è un dato di realtà, sapere cogliere l’opportunità che questo porta è la sfida dell’alta politica. De Gasperi diceva che lo statista guarda alla prossima generazione, il politico alle prossime elezioni. Io oso sognare ancora una politica che unisca i due concetti.

Qualcuno ha definito Luca Traini un “folle”, un “pazzo”, ma non sembra fosse in cura e anzi deteneva armi e munizioni con regolare licenza di tiro sportivo. Ciò dimostra, come rilevano in molti tra cui alcuni sindacati di Polizia, la troppa facilità con cui viene concessa questa licenza che oggi è quella più richiesta perché permette di detenere armi anche a chi non pratica alcuna disciplina sportiva. Come valuta la corsa alle armi che sta avvenendo nel nostro paese? 

Andrea Gnassi
Innanzitutto, rifiuto la motivazione del “pazzo” perché suona come una minimizzazione di qualcosa di più grave e strutturale. Certo, la componente individuale della follia ricorre sempre in episodi criminali, estremi ma senza dubbio il contesto socioculturale in cui l’aspetto del singolo sfocia in violenza non è secondario, anzi. Sul tema delle armi vedo una pericolosa, e anche in questo caso, superficiale rincorsa italiana a “mettere mano alla pistola” senza considerarne effetti e soprattutto esempi. Ci sono Paesi dove è acclarata la correlazione tra numero di omicidi, episodi di violenza e possibilità di accedere liberamente al possesso di armi da fuoco. La nostra Costituzione, le costituzioni dei Paesi europei, rifiutano da sempre la logica del “giustiziere fai da te” ponendo nella comunità, nello Stato, il compito e la responsabilità di garantire città e paesi sicuri e liberi. La risposta ai problemi, che ci sono ma come ci sono sempre stati, non può essere l’autodifesa, il fucile sotto il letto. Quello che accade dove ciò è consentito, dovrebbe essere portato come esempio di scuola. Non vogliamo vivere nel terrore di Columbine quotidiane. Ed è sorprendente, e mi si permetta anche spaventoso, che troppi partiti dell’arco cosiddetto “democratico” alimentino questa rincorsa o esplicitamente con la demagogia utile a un presunto “guadagno” elettorale o implicitamente con il silenzio.

Isabella Sala
Traini non è un “pazzo” ma un prodotto di una sottocultura che sogna il ritorno del fascismo e una idea di società che è antistorica. La sfida di oggi è la convivenza fra le differenze, ed è dimostrato che le società si sono arricchite da molti punti di vista praticando scambi economici, culturali, sociali; ciò oggi deve avvenire in una migrazione regolamentata, con quote e meccanismi che sono saltati da molti anni. Venendo alla domanda, certamente il tema della detenzione e dell’utilizzo delle armi è cruciale. Sei anni di licenza per il tiro sportivo, mi pare di capire senza la garanzia che la persona lo pratichi veramente, la possibilità di detenere varie armi, l’idoneità psicofisica, sono tutte situazioni che vanno vagliate e verificate. Se il mondo cambia, e i segnali non ci dicono che cambi con una maggiore consapevolezza individuale e sociale, devono essere modificate anche le regole, deve alzarsi la soglia di attenzione. La gravità del fatto di Macerata dal mio punto di vista è enorme; è la prima volta, da quanto mi risulta, che in Italia vi sia un atto del genere. Urliamo sempre, a gran voce, che siamo in una società diversa da quella della cultura delle armi degli Stati Uniti, è tempo di dimostrarlo con legislazione e fatti. E’ un segnale, che per fortuna non ha avuto esiti tragici, che deve servirci. Deve portare ad azioni concrete, che devono essere nella prossima agenda politica. Dobbiamo chiedere più Stato, più pubblica sicurezza, più giustizia, non più armi e più potere di detenerle e usarle.

Piergiulio Biatta
Il tentativo di catalogare l’attentatore e lo stragista come uno squilibrato, un malato di mente o come una persona instabile è una tipica tecnica che viene adottata dalle lobby delle armi negli USA per cercare di dimostrare che non vi sarebbe alcun legame tra i legali detentori di armi e il “folle” attentatore. Nelle stragi in USA, la maggior parte delle volte l’attentatore non è affatto un malato di mente o, per lo meno, non al punto da non permettergli di detenere legalmente le armi. Squilibrato lo diventa sempre dopo la strage: fino a cinque minuti prima era, per tutti, un cittadino onesto, incensurato, di condotta specchiata e possedeva armi ovviamente solo per le sue passioni sportive e per difendere sé stesso e i suoi cari “da aggressioni criminali e tiranniche”: così recita il mantra dei legali possessori di armi. La facilità con cui anche in Italia si può ottenere una licenza per armi è un grosso problema che abbiamo ripetutamente evidenziato e anche nei mesi scorsi con un comunicato stampa molto dettagliato che invito a leggere. Contrariamente al diffuso luogo comune, la legislazione italiana è di fatto sostanzialmente permissiva in materia di armi. Succede così che – come hanno messo in evidenza numerose inchieste giornalistiche – negli ultimi anni sempre più persone hanno fatto ricorso alla licenza per “uso sportivo”: questa licenza sta diventando il modo più semplice per avere armi in casa anche da parte di tutti coloro che non hanno alcuna intenzione di praticare le discipline sportive. Luca Traini, l’attentatore nazifascista di Macerata, era una di queste.

A Vicenza si tiene oggi la quarta edizione di HIT Show, la manifestazione fieristica e salone delle cosiddette “armi comuni”. Da anni numerose associazioni di Vicenza, insieme all’Osservatorio OPAL e a Rete Disarmo, chiedono maggior trasparenza e regole più rigorose, tra cui il divieto di accesso ai minori e di sostegno a campagne che intendono promuovere leggi meno restrittive sulle armi. Qual è la sua posizione riguardo a queste e altre criticità? Questa fiera non rischia di incentivare la diffusione delle armi?

Isabella Sala
Sono d’accordo nel regolamentare in modo il più possibile stringente le modalità espositive e di visita, nel rispetto della legge e delle autonomie e ruoli di ogni soggetto coinvolto. Come assessore alla pace, nel rispetto dell’articolo 2 dello Statuto del Comune e in linea con l’articolo 11 della Costituzione, cerco di promuovere una cultura rivolta alla risoluzione nonviolenta dei conflitti, non a promuovere la produzione e la vendita di armi. In questi anni, all’interno della mia delega, in collaborazione con la Casa per la Pace, abbiamo promosso laboratori di risoluzione nonviolenta e creativa del conflitto nelle classi, formazione per i docenti, e stiamo sostenendo un corso sulla mediazione umanitaria anche rivolta ad alcuni operatori comunali. Il conflitto, i modi diversi di vedere la vita fanno parte della vita stessa: è la gestione di questi che non deve essere violenta. E’ fondamentale educare i giovani alla convivenza e alla nonviolenza, all’accoglienza, contrastando la cultura del “nemico”. La responsabilità più grande è dei genitori, di tutti gli educatori e, a sostegno della famiglia sempre più in difficoltà in una società “sciolta”, della comunità tutta. Il sindaco ha scritto che non porterebbe, da genitore, a Hit Show suo figlio. Naturalmente mi associo, e aggiungo che, da madre, ho regalato molti anni fa al mio bimbo una pistola giocattolo. Non lo farei più. Non perché lo abbia condizionato, ma perché credo ogni nostro atto sia importante, è una scelta culturale.

Piergiulio Biatta
Fin dalla prima edizione di HIT Show, quattro anni fa, abbiamo evidenziato un problema fondamentale. HIT Show è, infatti, l’unico salone fieristico che assomma tre caratteristiche che ne fanno un evento quanto mai anomalo rispetto agli altri saloni fieristici nei paesi dell’Unione europea. Innanzitutto a HIT Show sono esposti tutti i tipi di “armi comuni” (per la difesa personale, per forze dell’ordine e private securities, per il tiro sportivo, per le attività venatorie, per collezionismo, armi demilitarizzate, repliche di armi antiche, per il softair ecc., cioè di fatto tutte le armi tranne quelle propriamente definite “da guerra”) al quale è consentito l’accesso al pubblico e anche ai minori purché accompagnati da un adulto. Una notevole differenza rispetto, ad esempio, al maggiore salone europeo “IWA Outdoor Classic” di Norimberga dove, seppur siano esposte le stesse tipologie di armi, l’accesso è permesso solo agli operatori professionali accreditati ed è esplicitamente vietato l’ingresso – cito dal regolamento – “ai cacciatori, tiratori, membri di associazioni di caccia e tiro e tutte le persone che non operano a livello professionale nel settore armiero e ai minori di 18 anni”. Inoltre, e questa è un’ulteriore anomalia, a HIT Show non è esplicitamente vietata la promozione di petizioni e campagne di chiara rilevanza politica: negli anni scorsi sono state promosse iniziative a favore della modifica della legge sulla legittima difesa e finanche si sono tenute conferenze, con un esponente politico di una sola parte, volte a contrastare l’introduzione a livello europeo di normative più rigorose sulle armi. In sintesi: HIT Show non è, come i promotori intendono far credere, un mero salone espositivo per sportivi ed appassionati, ma è una chiara operazione ideologico-culturale a favore della diffusione delle armi. Ed è per questo che abbiamo chiesto alle Amministrazioni di Rimini e Vicenza, che sono i maggiori azionisti pubblici di IEG, di promuovere norme precise e rigorose: finora, di fatto, nulla è cambiato.

Lo scorso settembre, il Consiglio Comunale di Vicenza ha approvato all’unanimità una mozione che impegna l’Amministrazione comunale, in ragione della sua partecipazione azionaria in Italian Exhibition Group (IEG), ”ad esercitare la sua preziosa moral suasion nei confronti degli organizzatori di HIT Show, perché si arrivi al più presto e, comunque, prima della prossima edizione a definire un nuovo regolamento che riguardi sia i visitatori che gli espositori della manifestazione fieristica”. Anche in Consiglio Comunale a Rimini vi è stata un’interrogazione sullo stesso argomento. Nonostante questo impegno, al momento non è stata apportata alcuna modifica al Regolamento del Visitatore di HIT Show. Perché non si è arrivati ad una modifica del Regolamento?

Andrea Gnassi
Metto assieme le due domande per una risposta complessiva. A novembre, a seguito di una condivisibile interpellanza consiliare avanzata dal consigliere Kristian Gianfreda (Rimini Attiva) critico rispetto alle modalità di accesso dei minori alla manifestazione vicentina Hit Show, l’assessore Gianluca Brasini ha scritto al management IEG chiedendo spiegazioni. IEG ha risposto con una comunicazione tecnica molto dettagliata, in cui si sottolinea comunque il divieto espresso e inserito nel regolamento della manifestazione per i minori al libero ingresso se non accompagnati da adulti, così come al maneggiare armi. Per carità, risposta corretta e esaustiva, ma ciò non toglie il senso delle questioni sollevate da numerose associazioni e dalle iniziative consiliari di Vicenza e Rimini. Io credo che occorra uno sforzo in più rispetto a un articolo di un regolamento, in cui peraltro mi pare – ma posso sbagliare – non sono indicate sanzioni per i trasgressori. E questo sforzo non occorre solo nella direzione del controllo del rispetto di questa indicazione regolamentare, comunque necessario più che auspicabile, ma del messaggio che, in un mondo complesso e contraddittorio come quello attuale, si veicola in ogni cosa che facciamo. Io penso che se questa riflessione ‘culturale’ e ‘educativa’ la compie un consiglio comunale, un gruppo di associazioni, pezzi interi di società, essa possa appartenere anche a chi gestisce e organizza queste manifestazioni. Voglio essere chiaro: considero il dibattito di questi mesi intorno a Hit Show un’occasione di lavoro e uno stimolo utile a tutti per meglio decidere in futuro; e con ‘meglio’ mi riferisco all’interesse collettivo e al bene comune, a partire da quello dei ragazzi. Non mi interessa una polemica che occupa lo spazio di un mattino e poi viene dimenticata nei 364 giorni successivi. Se oggi c’è questa discussione è il segno di una sensibilità crescente, anche in ragione dei terribili fatti di sangue ultimi o meno, che non va snobbata o peggio dimenticata. Noi come Comune di Rimini facciamo e faremo in modo che non sia così. Oggi e in futuro.

Isabella Sala
In questi anni abbiamo dialogato molto nel reciproco rispetto con la Fiera e con molte associazioni e istituzioni. Nell’ottobre 2016 abbiamo organizzato un convegno con l’allora viceministro Bubbico, sostenitore dell’importante normativa europea di contrasto alla diffusione delle armi, con i rappresentanti dei produttori di armi e del mondo che opera per il controllo delle stesse. Abbiamo portato avanti, come amministrazione, l’attenzione che ci hanno chiesto molte associazioni verso i minori e per un regolamento condiviso. Ora, alle soglie di una nuova edizione, l’Amministrazione ha chiesto alla Questura e alla Fiera la massima attenzione nel verificare e sanzionare, secondo i termini di legge, ogni comportamento contrario alla normativa, in particolare il fatto che il minore non debba impugnare armi. Anche sul tema della diffusione di materiali e di campagne di informazione la fiera in questi anni si è impegnata a impedire campagne promozionali e “politiche” in modo ferreo. Ogni anno vengono compiuti a mio parere dei passi avanti nell’attenzione e nella sensibilizzazione di tutti. Il comune di Rimini ha dimostrato una attenzione che, vista l’importante presenza in IEG, potrà portare a un lavoro comune per la prossima edizione. Il timore delle associazioni, che condivido, non riguarda la cultura venatoria, ma la nuova cultura della diffusione di armi che sono specchio, insieme causa e conseguenza, di una cultura di violenza sempre più diffusa, nei pensieri, nelle parole, nelle azioni, e che va contrastata senza se e senza ma.

Piergiulio Biatta
Purtroppo, come ho detto, nonostante gli impegni assunti dall’Amministrazione comunale di Vicenza, il Regolamento di HIT Show non è cambiato ed è tuttora consentito ai minori, purché accompagnati da un adulto, di entrare a HIT Show. Non solo: addirittura quest’anno è stato reso gratuito l’accesso ai bambini al di sotto di sei anni, un ulteriore incentivo alla presenza di minori. Ma soprattutto tra le associazioni e comitati che sono ospitati in fiera ve ne sono alcuni che, dietro la facciata della “difesa dei diritti (!) dei detentori legali di armi” hanno come obiettivo dichiarato quello di fondare anche in Italia una lobby come la National Rifle Association (NRA) degli Usa. E sono proprio questi comitati ad avere il diretto sostegno di Anpam (Associazione Nazionale Produttori di Armi e Munizioni) che, insieme a Italian Exhibition Group (IEG), è uno dei promotori di HIT Show. Anzi, di più: Anpam, Assoarmieri e Conarmi, cioè l’intero comparto produttivo (Beretta, Fiocchi, Tanfoglio ecc.) e distributivo armiero italiano, sostengono la campagna di tesseramento a questi comitati. Ripeto: è un’operazione ideologico-culturale che non ha niente a che fare con una fiera espositiva e merceologica. La differenza con IWA di Norimberga, con la quale HIT Show intende competere, è sostanziale anche su questo punto: a Norimberga non vengono ospitati, e men che meno sostenuti, comitati che promuovono iniziative di chiara rilevanza politica ed ideologica. Non aver fatto nulla, nemmeno su questo, è una gravissima mancanza delle Amministrazioni di Rimini e Vicenza che non possono continuare a rimandare il problema.

Francesco Vignarca
Crediamo che due siano i compiti che le amministrazioni pubbliche devono ottemperare: promuovere regolamentazioni e favorire la massima trasparenza. Riteniamo che le amministrazioni comunali e provinciali di Rimini e Vicenza, che hanno nel loro insieme il maggior pacchetto azionistico di IEG, possano far valere la loro voce presso gli amministratori di IEG che, insieme con Anpam, organizza il salone fieristico HIT Show. L’anno scorso, voglio ricordarlo, era stato pubblicato sul sito ufficiale di HIT Show un Regolamento Espositori che indicava, seppur sommariamente, le armi che non possono essere esposte in fiera, ed un Regolamento Visitatori che vietava espressamente l’ingresso ai minori di 14 anni. A seguito delle pubbliche proteste di alcuni esponenti del mondo politico veneto e di alcune associazioni di cacciatori, Italian Exhibition Group modificò il Regolamento Visitatore reintroducendo il permesso di ingresso a tutti i minori purché accompagnati e rimosse il Regolamento Espositori giustificandosi dicendo che si era trattato di “un equivoco dovuto ad uno spiacevole refuso”. Da quel momento nulla è cambiato e riteniamo che la mancanza di regole e di trasparenza sia inammissibile per una fiera che punta a diventare l’appuntamento di riferimento in Italia e in Europa per il comparto armiero made in Italy. “Vicenza Oro”, il salone internazionale che si tiene sempre a Vicenza Fiere, è riservata esclusivamente agli operatori del settore e sfoggia un regolamento sulle filiere trasparenti, certificate, etiche ed eco-sostenibili. Perché HIT Show non può fare lo stesso?

 

Dalla Germania una rivoluzione del lavoro: la novità del nuovo contratto dei metalmeccanici. Intervista a Giuseppe Sabella

(Peter Steffen/dpa via AP)

La firma, avvenuta in questi giorni, del nuovo contratto dei metalmeccanici tedeschi porta con sé grosse novità per tutto il sindacato europeo. Quali sono? Ne parliamo con Giuseppe Sabella, direttore di Think-in e esperto di Industria4.0.

Direttore, come interpreta la notizia che arriva dalla Germania?

Al di là del fatto che si tratta di un qualcosa di sperimentale, che troverà nelle sue prime applicazioni il giusto equilibrio, l’introduzione delle 28 ore mi pare una novità di grande portata, destinata segnare l’inizio del mondo nuovo. Da anni ci diciamo che il lavoro è regolato ancora secondo i principi della fabbrica fordista, qui è evidente che si attacca il vecchio sistema al cuore: l’orario di lavoro.

I tedeschi si confermano ancora una volta l’avanguardia dell’economia e dell’industria in Europa. Cosa ha portato il sistema ad arrivare qui?

Innanzitutto direi la forte convinzione di IgMetall – il sindacato metalmeccanico – che questa era la strada da battere. Minacciavano uno sciopero a oltranza se le imprese non avessero accolto le loro richieste. Che, a dire il vero, riguardano anche la distribuzione della ricchezza. Ma la novità eclatante mi sembra quella relativa all’orario di lavoro.

Perché vede così importante questa novità?

Come dicevo prima, al momento la sua applicazione sarà limitata. Ma sono pronto a scommettere che la novità si estenderà a macchio d’olio, per usare una metafora cara ai meccanici, non solo in Germania ma anche in Europa. La conciliazione dei tempi di vita di lavoro è ciò che spinge a trovare nuove formule. La vita delle persone viene prima di tutto. La rappresentanza del lavoro sta ritrovando il suo orizzonte: è la centralità della persona.

La sua analisi ci sembra molto controcorrente. Ma non siamo nel tempo del trionfo della macchina, del digitale?

Anche nel cuore della rivoluzione industriale dell’800, la vita delle persone veniva sconvolta dalla macchina a vapore e dal nascente sistema di fabbrica. Nascevano in quel momento le 8 ore di lavoro, prodotto della grande volontà di preservare la vita delle persone e di conciliarne i tempi di vita e di lavoro. Siamo al medesimo giro di boa, è cambiato solo il tipo di macchina: non più il vapore ma il digitale.

“Non sarebbe sufficiente oggi un nuovo ’68: occorre qualcosa di più e di meglio”. Intervista a Mario Capanna

(ARCHIVIO ANSA/KLD)

Quest’anno cade il cinquantenario del ’68. Anno indimenticabile! In tutto il mondo occidentale, e non solo, i giovani creano  il “movimento studentesco”. In Italia, Francia, Germania E Usa, per limitarci ai più importanti, i giovani contestano un intero sistema. Nell’Est Europa inizia la “Primavera di Praga”, in America Latina nasce la “Teologia della liberazione”, sulla scia della Conferenza di Medellin. Insomma il mondo, pur nella diversità di situazioni, in quell’anno, visse una stagione di grande mutamento.

Per ricordare che cosa ha significato il ’68 per l’Italia, abbiamo intervistato un protagonista di primo piano di quel tempo:  Mario Capanna, leader del Movimento Studentesco milanese.

Capanna, lei è stato un leader, tra gli altri, indiscusso del movimento studentesco che ha dato origine al ’68. Partiamo da lei: perché il brillante studente della Cattolica di Milano, Mario Capanna, aderisce al “Movimento”? Cosa è scattato in lei? 

Era l’estate del 1967, all’Università Cattolica del tutto incredibilmente anticipiamo il ‘68 perché occupiamo l’università nel novembre del 1967. Il pretesto fu specifico perché in piena estate, quando gli studenti erano in vacanza, il Collegio Accademico decise un forte aumento delle tasse di iscrizione all’Università, portando la Cattolica ad essere una delle Università più care d’Italia. Quando rientrammo chiedemmo di vedere i bilanci e alla nostra richiesta fu ovviamente opposto un rifiuto, così che iniziò uno stato di agitazione dopo il quale si giunse all’occupazione, decisa da un’assemblea.

Il Rettore di allora, Franceschini, guida la reazione della polizia, violando tra l’altro per la prima volta la sacralità della Cattolica, cui noi opponiamo resistenza passiva e quindi veniamo portati via uno a uno. Da parte di noi studenti vi era già da tempo un sentimento critico nei confronti dell’Università: ci chiedevamo perché dovessimo leggere Marx o alcuni teologi di frontiera di nascosto. C’era un clima di chiusura che evidentemente non era più sopportabile.

Il fenomeno del ’68, che, come è noto, ha avuto una sua simultaneità planetaria, fu definito di “contestazione globale”. Ora la parola “contestazione”, nell’impoverimento linguistico di oggi, dà l’idea del bastian contrario cui nulla va a genio, nemmeno le cose giuste. Ma la parola contestazione ha radici nobili: deriva dal verbo latino “contestor” composto da cum, ossia “con”, e testis, che significa “testimone”. La contestazione è ciò che il testimone vede toccando con le proprie mani e quindi il suo dire è difficilmente smentibile. Il ‘68 è questa liberazione, prima individuale poi collettiva, in cui ad ogni critica corrispondeva sempre la costruzione di un punto di vista contrario e collettivo.

Qualcuno ha parlato del ’68 come una “rivoluzione degli intellettuali”, condivide questo giudizio?

No, perché a scendere in lotta sono soprattutto gli studenti ma un minuto dopo, basti pensare alle grandi lotte dell’autunno caldo, scendono in lotta milioni di lavoratori e di impiegati oltre che di intellettuali. È stata una rivoluzione culturale nel senso più ampio del termine, perché coinvolge persone comuni ed è per questo che ne stiamo ancora parlando.

Maestri e “cattivi” maestri. Per lei quali sono stati i Maestri e invece quelli, che poi, si sono rivelati “cattivi” maestri?

Questa questione è facilmente risolvibile sulla base della seguente osservazione: è innegabile che i poteri hanno frontalmente contrastato i grandi movimenti del ‘68 ricorrendo ad una violenza sistematica, perfino alle stragi, e quindi è innegabile che i poteri hanno spinto il mondo in una direzione esattamente contraria ai nostri obiettivi e auspici. La domanda è: dove hanno portato il mondo? Lo hanno portato all’attuale terza guerra mondiale a pezzi (secondo la definizione che ne dà Papa Francesco), ai mutamenti climatici, che sono arrivati al punto di pregiudicare il mondo, alla società dell’1%, dove l’1% possiede ricchezze superiori al restante 99%, come conseguenza della globalizzazione. I cattivi maestri non siamo stati noi, ma coloro che hanno opposto la loro violenza alle nostre pacifiche manifestazioni.

(DANIEL DAL ZENNARO/ANSA/PAL/SIM)

Rispetto agli altri Paesi, penso alla Germania, alla Francia e agli Usa, qual è la caratteristica del ‘68 italiano?

Anzitutto la durata. Da noi il ‘68 comincia addirittura nel 1967 e va avanti per tutto il biennio 68-69. Secondo, il fatto che praticamente già alla fine della metà del 1968 ad esempio in Germania e in Francia il movimento è già in spegnimento. Da noi vi è stata questa radicalità cui ha contribuito molto lo stesso mondo cattolico, nel 1968 si cominciano a vedere i frutti del Concilio Vaticano II, ad esempio i preti operai che vanno alla catena di montaggio e fanno apostolato in questa forma nuova. Il ‘68 italiano si configura come quello di maggior durata a livello mondiale.

Il Maoismo è stato, per alcuni, un mito negativo di quegli anni. In Francia ha portato ad una degenerazione del ’68 specie tra gli intellettuali. E’ così?

Tenga conto di una cosa: io, ad esempio, non ho mai portato il distintivo di Mao. Questo è per dire che noi della rivoluzione culturale eravamo assai poco informati in realtà, ma coglievamo il significato di fondo di un’idea di rivoluzione permanente. Quando Mao dice “sparate sul quartier generale”, cioè non passivizzatevi, continuate ad innovare idee, coglievamo questa idea di rivoluzione permanente che era incoraggiante. La rivoluzione culturale cinese come sappiamo non è stata tutta rose e fiori, però addirittura viene chiamato l’esercito per porvi fine non diversamente dalla repressione nei paesi occidentali.


Nella sfera della politica il mito era quella della “rivoluzione”. Ma quale rivoluzione? Per qualcuno, più tardi, la “rivoluzione” ha preso bruttissime strade…
 

Ecco vede la parola rivoluzione non va mai usata con leggerezza, perché è molto impegnativa. Per me la rivoluzione era pacifica, il ‘68 nasce e si mantiene rigorosamente pacifico. I primi episodi di violenza si verificano quando la polizia interviene. Questa è una prima discriminante. Dopodiché 99’una rivoluzione delle idee è per certi aspetti la rivoluzione più profonda: si realizza quella che i greci chiamavano metanoia, cioè conversione, un modo nuovo e alternativo di vedere il mondo. Per questo aggiungo una caratteristica pregevole del ’68: non è stata una rivoluzione consumata, in quanto non è caduta preda delle dinamiche simmetriche di quei poteri che voleva combattere. Il ’68, al contrario della rivoluzione francese, non si è dovuto appoggiare né ad un Robespierre né ad un Napoleone.

Per alcuni è stato il Movimento Operaio che ha salvato il ‘68 italiano. Nel senso che l’intreccio tra le lotte studentesche e quelle operaie dell’autunno    caldo del ’69 ha contribuito a dare maggiore robustezza e concretezza al 68‘.  Per LEI?

Credo di doverlo confermare, anche perché spesso abbiamo scarsa memoria storica. Si pensi al mondo del lavoro prima del ’68: la settimana lavorativa era di 48/52 ore la settimana, la Costituzione non entrava in fabbrica, addirittura c’erano i reparti di confino dove venivano mandati i lavoratori meno docili, come alla Fiat, dove si praticava lo spionaggio. Con il ’68 e l’autunno caldo del ‘69 si sono creati i consigli di fabbrica; i lavoratori sull’esempio degli studenti si riuniscono in assemblea; si ottiene la parità normativa tra operai ed impiegati; si strappano aumenti salariali uguali per tutti; addirittura i lavoratori strappano 150 ore all’anno in cui non lavorano, ma studiano per elevare il loro livello di cultura e di conoscenza. Il ‘”68” operaio potenzia e rafforza il ‘68 studentesco giovanile.

(Pino Farinacci/ANSA/CD)

Alcuni giornalisti e intellettuali hanno scritto, in questi giorni per ricordare l’avvenimento, che l’Italia ha avuto il ’68 che è durato più a lungo, circa dieci anni di più rispetto agli altri Paesi. Condivide questo giudizio? Se si, perché?

Io su questo sono abbastanza poco convinto, perché nel pieno degli anni ’70 siamo di fronte al terrorismo. Si badi, siamo di fronte a ben tre forme di terrorismo: quello di Stato (non a caso la strage di Piazza Fontana è passata con un nome ben preciso: “strage di Stato”); terrorismo di sinistra (BR ecc.); terrorismo fascista (Ordine Nuovo ecc.). Per quanto riguarda il terrorismo di sinistra non solo non è figlio del ’68, ma addirittura si configura come la negazione non riuscita del ’68. Ecco perché la periodizzazione ’68-’77 a mio avviso è indebita, proprio perché la seconda parte degli anni ‘70 è radicalmente diversa dall’esperimento del ’68. Viceversa è vero che nella prima parte degli anni ’70, con i movimenti femministi, sono anch’essi un prolungamento positivo del ’68.

Siamo alla fine della nostra “chiacchierata” Capanna. Nel ’68 c’era uno slogan: Ce n’est qu’un début, continuons le combat! Oggi può essere ancora attuale?

Lo slogan del Maggio francese, che non a caso viene ricordato, è molto pertinente, perché se aspettiamo che siano i governi a risolvere i problemi di cui parlavamo prima (della terza guerra mondiale a pezzi ecc.), aspettiamo invano. Viceversa la grande lezione strategica che viene dal ’68 è essenzialmente questa: quando le persone si mobilitano, quando le idee camminano su milioni di gambe di giovani uomini e donne si strappano conquiste importanti, cui ancora oggi parliamo; quando invece provale la passività e la delega i problemi non vengono risolti e quindi si moltiplicano e si aggravano. Non sarebbe sufficiente oggi un nuovo ’68: occorre qualcosa di più e di meglio.

Papa Francesco e la nuova America Latina. Intervista a Massimo De Giuseppe

Papa Francesco durante il viaggio in Perù (AP Photo/Karel Navarro)

Quali sono le sfide della nuova America Latina alla Chiesa di Papa Francesco? Il Continente Latinoamericano sta vivendo un delicato periodo di transizione politica ed economica. Tra sfide vecchie e nuove, qual è il ruolo, geopolitico, di un Papa figlio di quella terra ancora, per dirla con lo scrittore Edoardo Galeano, dalle “venas abiertas” (le vene aperte)? Ne parliamo, in questa intervista, con lo storico milanese, esperto di America Latina, Massimo De Giuseppe.  De Giuseppe insegna Storia Contemporanea all’Università “IULM” di Milano.

Professore, facciamo un piccolo bilancio del recente viaggio di   Papa Francesco in America Latina. Un viaggio che si presentava difficile ed insidioso, in Cile è stato fatto oggetto di contestazioni (sulle vicenda del vescovo Barros che è stato allievo del prete pedofilo Karadima). In Cile  era in gioco la ripresa di credibilità della Chiesa cilena. Una Chiesa, non dimentichiamolo, che durante la dittatura di Pinochet è stata un baluardo coraggioso in difesa dei diritti umani. Pensa che questo viaggio aiuterà il cammino di “risalita” della Chiesa cilena?

Il viaggio in Cile di Papa Francesco era considerato da molti piuttosto delicato per un insieme di ragioni. La prima, forse banale ma non insignificante, rimanda a una certa resistenza di una parte di cileni ad accogliere un Papa argentino. Esistono ancora in Cile retaggi non troppo sopiti di un nazionalismo forgiatosi tra Otto e Novecento e rilanciato in termini esasperati negli anni seguenti al golpe di Pinochet che sembrano impermeabili agli sforzi di rilancio di una cultura continentale, sostenuti anche dall’attuale pontificato. A ciò va aggiunto che la destra cilena. sostenuta in questo anche da altre componenti nazionaliste, non ha gradito il dialogo avviato dal papa con il presidente Evo Morales intorno alla questione spinosa delle richieste di accesso al mare da parte della Bolivia, conseguenza della Guerra del Pacifico del 1879-1884; una controversia geopolitica complessa, oggi in attesa di una sentenza (più che altro simbolica) da parte del Tribunale dell’Aja. In tal senso gli attacchi a Francesco erano iniziati già nel luglio del 2015, all’indomani della sua omelia a La Paz, in cui aveva invocato la necessità di riaprire un dialogo diplomatico, e a margine del discorso di fronte ai movimenti popolari tenutosi a Santa Cruz de la Sierra, per ripetersi in seguito alla visita del presidente boliviano in Vaticano dello scorso dicembre. Infine l’altro nodo caldo riguardava la questione della mancata rimozione del vescovo di Osorno, Juan Barros, accusato di connivenza con il suo maestro spirituale, il sacerdote Fernando Karadima, condannato nel 2011 per pedofilia. Se il Papa è riuscito, nella costruzione del viaggio e sgrazie ai suoi interventi, a ridimensionare le resistenze politiche, rilanciando il senso della diplomazia di pace vaticana e adattando all’esperienza cilena i temi chiave del suo pontificato (dall’ecologia integrale della Laudato si’ al rilancio della pastorale sociale e del senso di comunità), proprio la questione Barros si è dimostrata la più spinosa a livello mediatico internazionale, riguardando un tema drammatico come quello degli abusi contro minori commessi da esponenti ecclesiastici. Non è bastata infatti a calmare le acque la richiesta di perdono che ha aperto la visita apostolica durante l’incontro a Santiago con le autorità e i rappresentanti della società civile del 16 gennaio, quando, lanciando un appello all’ascolto e promettendo appoggio alle vittime e impegno affinché ciò non si ripeta, Francesco ha espresso «il dolore e la vergogna, vergogna che sento davanti al danno irreparabile causato a bambini da parte di ministri della Chiesa». Le polemiche seguite ad alcune dichiarazioni a caldo del pontefice nella Conferenza  stampa sull’aereo che lo riportava a Roma (la richiesta di “prove concrete”), forse frutto di stanchezza, sono state poi rettificate, con un coraggioso atto di umiltà, dopo un puntuale intervento di richiamo alla gravità del caso, da parte del cardinale O’Malley, sono montate rapidamente, anche se una risposta concreta è poi giunta dalla decisione, giunta a fine mese, di inviare in Cile l’arcivescovo di Malta Charles Scicluna per incontrarsi con le vittime e indagare a fondo le accuse nei confronti di Barros. Credo che questo non possa che consolidare gli sforzi di chiarezza intrapresi dagli ultimi due pontificati, dopo una lunga stagione di inquietanti silenzi.

Non c’era solo la questione degli abusi ma, ed è un male che attraversa molti paesi del Sudamerica, anche quella della corruzione politica. In Perù la classe politica su questo lato ha dato il peggio di sé. Come sono state accolte le parole del Papa?

Questo è senz’altro un leit motiv degli interventi papali che sta accompagnando i suoi viaggi latinoamericani (ma che vive anche sullo sfondo di tanti interventi che toccano la dimensione e le trasformazioni mancate della politica nei paesi più ricchi e che riverbera nei suoi richiami alla dimensione transnazionale, da holding, di molti cartelli criminali). Il tema è d’altronde caro a Francesco almeno fin dai suoi anni alla guida dell’arcidiocesi di Buenos Aires, ed è stato ripreso esplicitamente nei suoi interventi in Paraguay nel 2015, in Messico nel 2016 (quando contrappose alla politica della corruzione e dell’abuso le “tre T”, techo, trabajo e tierra), ora in Perù nel 2018. Nell’incontro con le autorità, il 19 gennaio, nel palazzo di governo di Lima, Francesco ha voluto esplicitamente connettere il tema del degrado ambientale che ha connotato il suo incontro con le popolazioni amazzoniche con quello del degrado morale, richiamando genesi e impatto delle estrazioni minerarie irregolari, l’incapacità politica di frenare la presenza di nuove forme di schiavitù, la poca trasparenza nei rapporti tra bene pubblico e interessi privati, connotandoli come una sorta di “virus sociale” che investe tutti, compresi rappresentanti delle istituzioni ecclesiastiche.

Questo intervento, particolarmente deciso (che ha un chiaro precedente nella meditazione in Santa Marta del 29 gennaio 2016, Dal peccato alla corruzione), richiama la necessità di una profonda ricostruzione etica dei gangli sociali che rimetta in circolo antidoti efficaci alla corruzione che si manifesta in modo ancor più drammatico in paesi segnati da una cronica fragilità della classe media e da sperequazioni sociali estremizzate. Il dato interessante e che in tutti questi casi il richiamo non era rivolto solo alla leadership politica nazionale, ma anche alla classe dirigente, a vescovi e clero, nonché ai semplici cittadini, invitati a non nascondersi dietro facili ipocrisie. L’attacco alla corruzione è d’altronde associato alla critica degli squilibri esasperati che costellano il continente (e non solo), all’assenza di politiche sociali, alla debolezza di intervento pubblico degli stati in campo educativo, assistenziale e pensionistico, temi che hanno inquietato diversi osservatori che accusano Francesco di essere anti-moderno e anti-liberale, ma che ritrovano un riscontro prepotente nella situazione di molti paesi che associazioni imponenti sperequazioni e indici macroeconomici in forte ascesa.

Un altro aspetto, importantissimo, è stata la questione degli Indios. In Cile e Amazzonia (dalla sua parte cilena). Le parole del Papa sono parole definitive sulla scelta della Chiesa a difesa degli Indios. Il Papa desidera una Chiesa india. Un “sogno”?

L’attenzione per la questione indigena è un altro tema forte del pontificato di Francesco e questo è un dato importante sotto molti punti di vista. Se infatti i occasione delle contestate celebrazioni del 1992, l’anno del cinquecentenario della “scoperta-conquista” delle Americhe e del Nobel per la pace a Rigoberta Menchú, il tema era tornato all’attenzione globale, sollevando un’interessante riflessione su questioni quali diritti, multiculturalismo, sincretismo religioso, evangelizzazione…, conoscendo una ulteriore ondata d’attenzione mediatica all’indomani della rivolta del 1994 dell’Ezln in Messico e degli appelli di mons. Samuel Ruiz, negli anni successivi è seguito una sorta di oblio. Eppure i cosiddetti indigeni non sono scomparsi e non sono nemmeno rimasti staticamente congelati in un tempo immobile e sospeso, anzi. Hanno vissuto in prima persona i mutamenti dei processi sociali, ambientali, migratori, alimentari, finanziari, minerari …, offrendo spesso risposte originali di resistenza (o forse meglio resilienza) culturale e riadattamento alle pressioni della contemporaneità. Francesco, forgiatosi nell’esperienza dinamica del magistero latinoamericano sembra aver colto (almeno fin dai tempi della V conferenza del Celam, ad Aparecida in Brasile nel 2007) la dimensione profonda e tutt’altro che folklorica delle diverse anime correlate alla questione indigena. Se a San Cristóbal de las Casas, in Chiapas, nel 2016, il papa si era concentrato infatti su due elementi guida, quello della pluriculturalità e quello dell’inculturazione, aprendo una serie di riflessioni originali sulla complessità e vitalità (sociale, etica, perfino epistemologica) della religiosità popolare e sulla priorità del senso comunitario, a Temuco, tra i mapuches, storicamente ai margini della società e dei processi di nation-building cileni, e soprattutto in Perù, nell’amazzonico Coliseo regional Madre de Dios (a Puerto Maldonado) ma anche in occasione della celebrazione mariana della Virgen de la Puerta (la “Mamita de Otuzco”) e nella messa nella base aerea de Las Palmas a Lima (luogo di reminiscenza non ancora smarrite della “guerra sucia” peruviana che tante vittime ha provocato proprio nel mondo indigeno) ha voluto insistere sulla dimensione dell’ecologia integrale alla base della Laudato Si’. Quando il 19 gennaio ha affermato «probabilmente i popoli originari dell’Amazzonia non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora», il papa si riferiva tanto alla dimensione globale del «neo-estrattivismo», della deforestazione selvaggia,  all’impatto ambientale delle monocolture agro-industriali, senza però rimuovere una netta critica alle logiche alla base di alcune scelte che toccano stati e impianti multilaterali (e anche di certo ecologismo istituzionale), riportando l’attenzione su uomini, donne e comunità, fino a lanciare un invito a «rompere il paradigma storico che considera l’Amazzonia come una dispensa inesauribile degli Stati senza tener conto dei suoi abitanti». Anche il richiamo ai popoli indigeni (lo stesso lanciato al mondo degli altipiani) come memoria viva della cura della “casa comune” non è apparso paternalistico bensì incentrato su una forma di rispetto profondo per la pluriculturalità che ammanta il continente americano (e non solo) e che rischia di essere schiacciata da logiche predatorie.

Non è mancata la critica al modello economico di sfruttamento economico delle Multinazionali , con la complicità di alcuni governi, che con le loro scelte decidono il destino delle popolazioni latinoamericane.  E’ così Professore?

Certo questa è l’altra faccia della stessa medaglia e la stessa che spesso inquieta, provocando critiche nei confronti di alcune scelte del pontificato. L’attenzione alla dimensione ecologica del territorio e dei suoi abitanti implica una riflessione sui caratteri dell’economia del XXI secolo, che non va confusa con un anti-globalismo tout-court ma che va ripresa per l’essenza del suo messaggio. Alcune nuove forme di schiavitù che sembrano caratterizzare l’attuale dinamica dei mercati globali, l’impatto di una finanziarizzazione esasperata che tende a spingere le élite economico-finanziarie a non reinvestire nei territori, la svalorizzazione (anche culturale del lavoro), sono processi che vanno ben oltre le reti produttive e distributive e che hanno una ricaduta sociale complessa. L’attenzione al rispetto della persona e dell’ambiente rimanda quindi a una necessaria ripresa di vitalità culturale che parte dal basso, dai sistemi sociali ed educativi, dalle sintesi e miscele prodotte dagli effetti di ritorno delle migrazioni, dalla ridefinizione degli immaginari e dalla ricostruzione di forme di rispetto. Anche le basi della politica e dell’economia potrebbero trarre beneficio da un nuovo approccio propositivo ai temi complessi dello sviluppo e le chiese possono giocare un ruolo di accompagnamento culturale e sociale, oltreché religioso, tutt’altro che banale. Questo significa anche avviare un percorso dal basso di prevenzione di una cultura della violenza che colpisce in primis proprio gli elementi più fragili di società giovani, dinamiche e in divenire.

Nel 2018 l’America Latina, o meglio alcuni suoi Paesi importanti (Colombia, Messico, Venezuela, Costa Rica, Paraguay e Brasile), conoscerà una stagione politica decisiva per il suo futuro. 350 milioni di persone voteranno per il loro destino. Tra mille difficoltà è ancora possibile sperare un cammino  di giustizia il Continente latinoamericano? La Chiesa che ruolo giocherà? Il Papa fa molto affidamento sui movimenti popolari…

Dopo le polemiche seguite al recente voto in Honduras (uno dei paesi con i più alti tassi di violenza al mondo), il 2018 rappresenterà indubbiamente un banco di prova importante dal punto di vista politico per alcuni dei principali paesi del continente. Il quadro è estremamente composito. Dopo la fine dell’onda rosa (suggellata dal successo di Piñera in Cile) e la crisi conclamata del progetto bolivariano post-chavista, resta la grande incognita di quale sarà la soluzione per il Venezuela, paese in cui la diplomazia vaticana ha fatto grandi sforzi per aprire vie di dialogo (tutt’altro che semplici da raggiungere) tra il governo Maduro e l’opposizione. La crisi economica del paese resta poi la grande incognita sullo sfondo della politica. In un altro ambito, la transizione del Brasile post-Lula arriverà a una svolta decisiva per un paese che sta giocando anche il suo ruolo e la sua credibilità all’interno del G20; diversa è invece la situazione del Messico, sospeso tra indici macroeconomici positivi, la necessità di pacificare alcuni stati della federazione e di riequilibrare politiche sociali e spinte alla crescita di una delle maggiori e più emblematiche “open economies” del XXI secolo. La maturità democratica di questi paesi latinoamericani è dunque alla prova, ma in una stagione dinamica in cui le prospettive di dialogo e apertura internazionale potrebbero crescere e di cui anche l’Europa, piuttosto disattenta (con alcune eccezioni) nel corso degli ultimi anni, rispetto agli interlocutori latinoamericani, potrebbe e dovrebbe prendere coscienza.

Lei ha scritto un saggio, pubblicato dalla prestigiosa casa editrice Morcelliana, dal titolo: L’altra America. I Cattolici italiani e l’America Latina.  Sappiamo che negli anni del post-Concilio Vaticano II per i cattolici di punta l’America Latina era una fonte di ispirazione religiosa e politica. Le chiedo: perché ancora oggi è importante, per un cattolico italiano  e non solo, guardare all’America Latina?

L’America latina postconciliare ha rappresentato nell’immaginario italiano, e nello specifico in quello dei cattolici (ma non solo) un luogo simbolico, fatto di esperienze e volti che hanno toccato in profondità l’anima del paese. Si pensi all’impatto di vicende quali il golpe cileno del 1973, la desparación argentina, le guerre civili centroamericane, alla risonanza della teologia della liberazione, alla riscoperta dell’Amazzonia di Chico Mendes o all’impatto di nomi quali Hélder Câmara, Marianela García Villas o Oscar Romero. Il libro prova a riprendere, tra documenti d’archivio e storia orale, alcuni di quei fili e intrecci per ragionare sulle forme di solidarietà del cattolicesimo italiano con l’America latina, la loro evoluzione e resistenza, e, pur senza nessuna pretesa di esaustività, tenta di dar conto della pluralità di attori che si mobilitarono e dell’articolazione delle reti che vennero edificate. In alcune stagioni della nostra storia contemporanea questo nesso euro-latinoamericano (che in fondo rimandava anche al retaggio della conquista evangelizzazione, a Cortés a Colombo ma anche a Las Casas e alle reti che hanno segnato in profondità la nostra età moderna) è emerso in modo più chiaro e rilevante; in altre meno e la distanza (anche mediatica) è parsa farsi più netta alimentandosi di silenzi e stereotipi. In fin dei conti, a pensarci bene, anche la storia di Jorge Mario Bergoglio, è figlia di quegli intrecci e incontri, nel tempo e nello spazio, attraverso l’Atlantico e due mondi sospesi.