I nodi politici del dopo elezioni. Intervista a Fabio Martini

Fabio Martini

Il post elezioni ci consegna molti “nodi” che non saranno facili da sbrogliare. Quali sono? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, queste elezioni fanno segnare un cambio radicale nella geografia politica italiana: il nord tutto, o quasi, blu (con sfondo verde, per il sorpasso leghista), il sud  quasi tutto giallo , colore dei 5stelle. Il rosso è rimasto confinato nell’area, sia pure ridotta. Su queste aree emblematiche dell’Italia il PD ha fallito. Dove è stata lacunosa l’offerta politica riformista?
Il Pd si è presentato con un consuntivo di governo oggettivamente importante. Sul piano dei diritti, ma anche sul piano macro-economico e del mercato del lavoro. Ma gli elettori quasi sempre sono irriconoscenti, come dimostrarono una volta per tutte le elezioni inglesi del 1945, quando Churchill, vincitore di una guerra terribile contro i nazisti, fu sconfitto dai Laburisti che proposero un piano di protezione sociale ad un Paese annientato dalla guerra. Oltretutto alcune misure controverse, come l’abolizione dell’articolo 18, hanno lasciato affiorare un volto “feroce” verso i lavoratori, che non ha giovato al Pd. E’ mancata una proposta ariosa per il Paese, un’idea dell’Italia e degli italiani. Altri si possono permettere di  vivere di “rendita”, per i progressisti di solito è più difficile.

Gli analisti elettorali hanno affermato, per rimanere sempre in ambito PD, che i 5stelle hanno intercettato i voti dei tanti delusi dal PD e che pochi sono andati a LeU. A me sembra la prova della inutilità della scissione. Per te?
La scissione dal Pd ha avuto una comprensibile motivazione legata alla sopravvivenza del gruppo dirigente della minoranza Pd: Renzi, facendo le liste, li avrebbe “sterminati” e dunque i vari Bersani, Speranza, D’Alema hanno preferito farsele da soli le liste. Da questo angusto ma comprensibile punto di vista hanno avuto quasi ragione. Quasi perché non sono tornati in Parlamento il personaggio più autorevole della compagnia, Massimo D’Alema, e il quarantenne più brillante, Pippo Civati. Dopodiché la vera operazione politica mancata è un’altra: dare vita ad una socialdemocrazia di sinistra, grintosa, credibile e innovativa nella difesa dei più deboli.

Visto il grande successo dei 5stelle al  Sud, qualche osservatore ha parlato  dei 5stelle come il nuovo partito della nazione (che era il sogno di Renzi). Insomma un partito di raccolta di ogni ribellismo contraccambiato da assistenzialismo (o per essere più eleganti da un Keynesismo un pò raffazzonato). Insomma la III Repubblica nasce con ricette vecchie…
Il partito della Nazione è il partito che parla – o prova a parlare – a tutti. Fino alla recente campagna elettorale i Cinque Stelle parlavano soltanto agli arrabbiati, al popolo del “vaffa”. Al quale hanno aggiunto, in extremis, il messaggio agli elettori interessati ad una forza capace anche di governare. Ed è vero che la presenza di questo Movimento è la più omogenea sul territorio. Ma  un certo eclettismo delle proposte programmatiche ci dice che quella del partito della Nazione una suggestione ancora molto lontana.

A sentire Salvini, ormai leader incontrastato del centrodestra, è parso molto convinto delle sue ragioni. E’ nota una incompatibilità di cultura con  l’Europa. Pensi che davvero Berlusconi si faccia fagocitare?
Nel tentativo di formare un governo, si giocherà il secondo tempo della sfida tra Salvini e Berlusconi. Una sfida molto personale e personalistica :per ora non affiora una sincera, disinteressata e patriottica vocazione a dare un governo al Paese.

Secondo te Di Maio, stando agli ultimi comportamenti, è più compatibile di Salvini rispetto all’Europa ?
In questi giorni i due vincitori delle elezioni sono apparsi entrambi molto rassicuranti. Anche con Bruxelles. Chi dei due riuscisse a formare un governo (inevitabilmente coalizionale) finirebbe per avere un rapporto dialettico ma non distruttivo con l’Ue.

Torniamo a Renzi e al PD. Le sue dimissioni “a scadenza” accompagnate dall’attacco a Mattarella e Gentiloni sono state una brutta vicenda. L’impressione che ha fatto, almeno a me, è stata quella  di un “capriccio”. Certo vi sono ragioni   politiche non secondarie. Renzi non accetta autocritiche e nel partito c’è il rischio nell’ennesima faida. Pensi che sia reale?
Se Renzi si dimetterà formalmente e solennemente davanti alla Direzione del Pd, saremo (o saremmo) davanti ad una sequenza esemplare: un leader che ha perso, lascia il campo e non preannuncia ri-candidature. A quel punto si aprirà una dialettica fisiologica tra diverse opzioni di partito e di leadership, un processo molto democratico. Vedremo se si concluderà tra 40 giorni con la cooptazione di uno dei maggiorenti, oppure fra tre mesi, con l’elezione popolare di un leader dopo un confronto serrato. Se venissero sospese le Primarie, sarebbe oggettivamente un passo indietro, un ritorno alla democrazia delle elites: Renzi è stato l’artefice del Rosatellum, ma si è dimesso, gli altri affosserebbero le Primarie: un esito paradossale.

A leggere alcuni commenti di personaggi, culturalmente di area ex-democristiana, in cui si afferma che uno degli obiettivi politici da raggiungere è quello di “costituzionalizzare ” il movimento 5stelle. E questo favorirebbe un possibile accordo tra PD e 5stelle (ma su questo c’è da segnalare la posizione contraria del massimo esponente di area ex dc, nel PD Dario Franceschini). Tutto questo, si sa è cultura morotea, riveduta e corretta per i tempi. Sono cose troppo raffinate?
Difficile valutare se sia moroteo e dunque strategico, immaginare un accordo di governo con i Cinque Stelle. Per ora chi vi allude, lo fa in modo tattico. Senza respiro.

Intanto va segnalata la rottura tra Gentiloni e Renzi. Come si svilupperà? Tra i possibili scenari, di questa fase complicata, c’è chi addirittura pensa che Renzi, se non riuscisse a mantenere l’unità sulla linea politica, possa costituire il suo partito alla Macron. Fantapolitica?
Se sia fantapolitica lo vedremo. Ma se mai fosse, sarebbe piccolo cabotaggio: la terza forza europea, tra Ppe e Pse, che Macron vagheggiava con due personaggi che ambivano a governare (l’italiano Renzi e lo spagnolo Rivera, non c’è più.

Fine del “renzismo” o fine del PD? Intervista a Sofia Ventura

Matteo Renzi in conferenza stampa (Ansa)

Matteo Renzi in conferenza stampa (Ansa)

 Mentre la cronaca della politica fa registrare quanto sia complicatissimo far partire la legislatura, Il clamoroso risultato di domenica scorsa continua far discutere l’opinione pubblica, e continuerà a farlo  ancora nei prossimi mesi.  Il PD intanto cerca di riorganizzarsi. Lunedì si svolgerà la direzione nazionale, la prima senza Matteo     Renzi. Ma da quel risultato sorge una domanda strategica: è la fine del “renzismo” o la fine del PD? Ne parliamo con Sofia Ventura, politologa, docente di Scienza Politica all’Università di Bologna.

 

 

Sofia Ventura (Ansa)

Sofia Ventura (Ansa)

Professoressa Ventura, il risultato clamoroso di domenica, che ci consegna due vincitori Lega e Movimento 5stelle, che ha fatto segnare la disfatta del PD a guida renziana. Quindi si può dire che segna anche la fine di un progetto, di una idea di politica “creata” da Matteo Renzi (rottamazione. allargamento del consenso politico verso ceti moderati, iper decisionismo, ecc). È così?
Questa sconfitta clamorosa, 5 milioni di voti in meno rispetto alle europee del 2014, 2 milioni e mezzo rispetto al voto legislativo del 2013 e quasi sei milioni persi dalle legislative del 2008, segna probabilmente la fine del progetto del Pd nel suo insieme. Un progetto in realtà mai veramente decollato, segnato da un peccato originale, ovvero essere soprattutto lo strumento per due gruppi dirigenti in difficoltà (Ds e Margherita), per sopravvivere e continuare a svolgere un ruolo nelle istituzioni, usando le stesse istituzioni come risorsa di potere. Un peccato originale che spiega anche la scarsa capacità di sviluppare una visione culturale comune e convincente, forse anche a causa di un altro vizio di origine, ovvero la pretesa di trarre una visione riformista da due culture, quella comunista (e post-comunista) e quella dell’ultima Dc, che di riformista avevano davvero poco, ignorando la forza storica e intellettuale del riformismo socialista.

Renzi si è inserito nella lacerante crisi della breve esperienza del Pd, utilizzando innanzitutto quelle forme di democrazia diretta, le primarie, che all’inizio avevano avuto solo un ruolo legittimante di scelte compiute altrove e che con lui si trasformano in un vero e proprio oggetto contundente, in uno strumento di sfida e cambiamento. Purtroppo la sua spinta propulsiva non è andata molto oltre. Dopo l’ondata legittimante di elezioni dirette (la sconfitta più che onorevole del 2012, la vittoria del 2013), ha proseguito con l’onda rottamatrice e delle promesse mirabolanti, in un gioco di sfide continue, senza fermarsi a pensare e a mettere in campo un vero progetto politico e di partito. La speranza di allargamento verso nuovi elettori centristi, dopo l’illusione del 2014, è così naufragata di fronte alla pochezza del progetto e della leadership, mentre i ceti popolari e, più in generale, l’universo dei non garantiti, ai quali non è stato rivolto alcun messaggio, hanno continuato a spostarsi verso altri lidi.

 Sappiamo quanto sia facile per questo Paese innamorarsi del leader carismatico di turno, ed è un limite questo d cultura politica, eppure fino a poco tempo fa il renzismo aveva segnato, per molti italiani, un segno di speranza. Quali sono state, secondo lei, le cause della sua crisi profonda?
Innanzitutto la debolezza intellettuale e culturale, l’assenza di una visione, dello sforzo di costruire una visione andando oltre alcuni slogan e luoghi comuni. E qui forse il riformismo socialista (pensiamo solo ai “meriti e ai bisogni” di Claudio Martelli) avrebbe aiutato. Invece ci si è accontentati della eco di un blairismo orecchiato in un mondo profondamento cambiato. Peraltro senza interrogarsi su quali settori di una società profondamente mutata dovessero essere individuati come principale target, dimenticando i più svantaggiati e illudendosi che il modo fosse fatto di start up. Quindi l’ossessione per il consenso a qualunque costo, che ha prodotto un atteggiamento ambiguo, oscillante tra la pretesa di essere forza responsabile e l’inseguimento delle parole d’ordine della nostra anti-politica, dalla propaganda anti-casta al ritmo intermittente di europeismo/anti-europeismo. Una ossessione, tra l’altro, legata anche ad una ambizione smodata, un inseguimento del potere e del successo a prescindere attraverso un procedere meramente tattico, a detrimento di una visione strategica. E l’incapacità di auto-critica, di apprendere dagli errori, come si nota anche dalla sconcertante reazione di Renzi di fronte alla sconfitta del 4 marzo (“ah sì, avete vinto? e allora adesso voglio proprio vedere!” “Noi? Noi abbiamo fatto cose meravigliose, voi non avete capito, forse non abbiamo comunicato abbastanza bene, ma ora ricominciamo e vedrete. Il passato? Quale passato?”). Infine l’incapacità di costruire, forse la non volontà di costruire, un serio gruppo dirigente, fatto non solo di yes men e yes women, ma di persone capaci e con pensiero critico (e il coraggio di esprimerlo), oltre che il totale disinteresse per un partito, già ereditato in pessime condizioni (si pensi al potere del micronotabilato e dei potentati locali) e lasciato in quelle condizioni.

Eppure una qualche idea positiva l’aveva, per esempio la non ideologizzazione della politica. O forse è anche questo un limite?
Liberarsi dai lacci di una visione arcaica, fuori tempo, della politica e della sinistra è stato certamente un merito del renzismo. Purtroppo, però, a quella visione è stata sostituita solo una debole e nebulosa ‘mentalità’. Anche destrutturare e sconfiggere l’oligarchia che aveva soffocato lo sviluppo del Pd è stato un merito, ma, anche qui, vediamo che a ciò si è sostituito un personalismo altrettanto inefficace in relazione alla possibilità di costruire qualcosa di nuovo, dal punto di vista organizzativo e del pensiero.

In prospettiva, conoscendo il personaggio, Renzi potrebbe essere tentato di fare un partito tutto suo?
Non lo escluderei. Sarebbe in linea con il suo esasperato narcisismo. Ma credo che gli manchino le risorse materiali e intellettuali, le capacità organizzative e anche comunicative (al contrario di quanto alcuni ritengono Renzi non è affatto uno straordinario comunicatore) per realizzare un tale obiettivo e avere successo. Certo, avrebbe comunque un certo seguito, poiché in questi anni si è formato un gruppo di elettori-seguaci (e qui richiamo la forza del narcisismo, non solo dei leader, ma anche dei seguaci, quando questi sono alla ricerca di una identità che trovano nella fedeltà al loro amato leader), un po’ come nel caso di Berlusconi. Ma in generale mi pare che l’immagine di Renzi si sia ormai logorata.

Adesso per la Sinistra italiana si apre una fase di “rigenerazione”. Da dove ripartire secondo lei?
Da zero. Anzi, da meno uno, rimettendo in discussione tanti suoi totem e guardando a come funziona il mondo reale. Ma ci vorrà tanto tempo e forse una nuova generazione.

Ultima domanda: quale strada per far partire la legislatura?
Non ne ho la minima idea. Vedo una destra cannibalizzata dalla Lega, e forse anche il drastico rimpicciolimento di una domanda di destra liberale e popolare (che già non è mai stata molto ampia), un partito che ha scarsa dimestichezza con le regole del gioco liberal-democratico e possiede un ceto politico e una leadership al di sotto della soglia della decenza, nonché modalità di funzionamento opache (il M5S), una sinistra al capolinea. Osservo e spero vi possano essere tempi migliori.

 

Dopo il voto, come cambia il sindacato.

Intervista a Giuseppe Sabella

 

 

Non c’è che dire, queste elezioni politiche saranno ricordate come quelle che hanno stravolto un quadro di potere. Che poi, come dice qualcuno in maniera esagerata, sia l’inizio della Terza Repubblica – o il ritorno alla Prima – questo è da vedere. Quel che è certo è che anche il sindacato non può non considerare la prepotente espressione di un nuovo orientamento politico. E con questo è chiamato a misurarsi. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-in e esperto di industria e sindacato.

Direttore, quali sono secondo lei le riflessioni che si stanno consumando nel sindacato?

Il sindacato, in generale, in questi anni non ha brillato per capacità di comprensione del cambiamento. Quindi, non è per nulla scontato che tra i vertici delle organizzazioni sindacali fosse previsto questo risultato. Intendo dire che, forse, le idee del tutto chiare ancora non ci sono, perché – comunque la si voglia vedere – la pesante affermazione del M5S e della Lega rappresentano uno shock per il sistema. Ovvio che anche tra il sindacato emergeranno nuovi orientamenti, semplicemente per una questione di sopravvivenza.

Eppure negli ultimi due anni si sono registrate novità importanti: il rinnovo del CCNL metalmeccanico e le innovazioni introdotte, la detassazione strutturale del salario di produttività, il piano Calenda e le sue misure per il sostegno all’innovazione d’impresa… non siamo forse su una buona strada per l’economia e il lavoro?

Tutti gli interventi che lei ha citato sono ottimi e, in alcuni casi, sono cose di cui si è parlato per anni e alle quali solo nell’ultima legislatura si è stati capaci di dare concretezza. Ma credo che in questi anni si sia giocato molto in difesa. Il basso livello dei salari in Italia è un problema troppo grande per essere lasciato alla contrattazione di secondo livello. Nel senso: se cresce ricchezza ce la dividiamo, bene. E se non cresce? Lasciamo i lavoratori e le loro famiglie in crisi perenne?

E quindi? Come si fa a crescere il livello dei salari in presenza di poca crescita economica?

Sulla questione salariale credo sia necessario un cambio di rotta. È chiaro, tuttavia, che molte aziende rischiano di andare in seria difficoltà in presenza di aumenti salariali. Tuttavia, con misure opportune che possono essere messe in campo, questo risultato può essere perseguito. Per esempio, tagliando il cuneo fiscale.

Ok, ma servono le coperture…

Vero che servono le coperture. Ma se la Spagna è riuscita ad attuare una riforma fiscale nel 2014, proprio con la finalità di dare respiro a famiglie e imprese, perché non lo può fare l’Italia? È chiaro che tutto ciò non può non essere negoziato con Bruxelles – certamente si va nella direzione di aumentare il deficit – ma più liquidità per lavoratori e imprese significa più consumo e più lavoro. E così il circuito dell’economia può trarne vantaggio e gradualmente ridurre il deficit. I sindacati devono battersi insieme, anche alla Confindustria, e pretendere che il prossimo governo attui una riforma fiscale. Certo, l’Europa può concedere flessibilità in presenza non solo di buone riforme ma anche di un progetto di riduzione della spesa pubblica.

A livello di riforma fiscale, il Centrodestra spinge per la FlatTax. Cosa ne pensa?

A parte che la stessa proposta è stata presentata diversamente da Salvini e Berlusconi. Quindi difficile commentare una proposta di cui al momento non si conosce fino in fondo il contenuto. Detto questo, secondo me la FlatTax potrebbe funzionare solo in presenza di una No Tax Area molto più alta delle cifre che girano. Tuttavia, una riforma fiscale seria non vuol per forza dire FlatTax.

La Cgil quest’anno avrà il suo congresso. Si tratta di un evento importante, la Cgil resta il maggior sindacato italiano. Da un punto di vista del merito, e non solo, quale può esserne l’esito?

La speranza è che arrivi un segnale forte. Credo che in casa Cgil si stiano preparando nel modo migliore al Congresso, visto che lo hanno spostato a fine anno (era previsto a maggio). Stanno lavorando molto sul tema dell’industria e dell’innovazione di impresa, credo che si debba guardare a ciò che succederà con molta attenzione. Detto questo, dal Congresso uscirà un nuovo Segretario Generale. E, sulla base di chi sarà, capiremo molte cose e l’orientamento che la Cgil si darà.

Chi secondo lei sarà il nuovo Segretario della Cgil?

Mah… da ora a fine anno potrebbe cambiare tutto. Ci sono sindacalisti molto preparati di cui in questo momento si fa il nome, vedi Vincenzo Colla, Franco Martini, Serena Sorrentino… Tuttavia, stante il clima politico, credo che se la Cgil uscirà da questo congresso con una chiara proposta sindacale, Maurizio Landini sia l’uomo che può far bene non solo alla Cgil ma all’intero movimento.

IL PUZZLE MORO. Testimonianze e documenti inglesi e americani sull’assassinio del leader DC. Un nuovo libro di Giovanni Fasanella

Questo libro, di Giovanni Fasanella, giornalista d’Inchiesta, uscirà domani nelle librerie, a pochi giorni dal 40° anniversario del rapimento e dell’uccisione della sua scorta a Roma in Via Fani. In questi ultimi anni, attraverso il lavoro di giornalisti e dell’ultima Commissione Parlamentare sul Caso Moro, diverse verità sono state scoperte. Il libro di Fasanella arricchisce il “puzzle” di quella tragedia, che segnò per sempre la democrazia italiana. Il libro verrà presentato a Milano domenica 11 marzo, nell’ambito dell’Iniziativa “Tempo di Libri” presso la “Sala Volta” alle 11,30.

 

 

 

 

 

IL LIBRO

Le verità che mancavano sul più importante delitto politico del dopoguerra “Dobbiamo scoraggiare le iniziative indipendenti del governo italiano nel Mediterraneo e in Medio Oriente.”

Nota interna del Foreign Office, 1970

“Azione a sostegno di un colpo di Stato in Italia o di una diversa azione sovversiva. ”Titolo di un documento top secret del governo britannico contro la politica di Aldo Moro, 1976

“Le ingerenze sono, sempre e comunque, di parte.Tuttavia, nel caso dell’Italia, dobbiamo fare qualcosa di concreto e non limitarci a discutere.”
Reginald Hibbert, sottosegretario del Foreign Office con delega alle questioni europee, 1976

“L’influenza di Moro e Berlinguer sulla politica estera italiana è forte e potrebbe avere serie ripercussioni… Il governo italiano va mantenuto sulla giusta via.”
Rapporto dell’ambasciatore britannico a Roma Alan Hugh Campbell, 1977

La vicenda Moro costituisce un caso internazionale per eccellenza. Ancora da raccontare nei suoi risvolti più oscuri. Tra gli anni Sessanta e Settanta la politica estera morotea, soprattutto quella mediterranea, e il disgelo nella politica interna tra Dc e Pci rappresentarono un pericolo gravissimo per gli equilibri mondiali. L’Italia andava fermata. A tutti i costi.
Sulla base di documenti desecretati a Londra e a Washington (e delle recenti acquisizioni dell’ultima commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Moro), Giovanni Fasanella dimostra che una parte delle amministrazioni Usa, con gli inglesi e la complicità a vari livelli e in fasi successive di Francia, Germania e Unione Sovietica insieme con Cecoslovacchia e Bulgaria, avevano interessi convergenti a fermare Moro. Come confermano anche le testimonianze di ambasciatori e politici dell’epoca riportate in questo libro.
L’autore riesce a saldare in un racconto avvincente testimonianze e documenti inediti, offrendoci per la prima volta la ricostruzione completa del contesto internazionale e delle complicità interne in cui maturò il delitto Moro. Solo così possiamo capire davvero le cause che stanno alla radice di molti episodi terroristici e individuare chi aveva interesse a destabilizzare la nostra democrazia. 

L’AUTORE
Giovanni Fasanella, giornalista, sceneggiatore e documentarista, da molti anni impegnato a ricostruire il contesto geopolitico della storia italiana, per Chiarelettere già autore con Mario José Cereghino di “Colonia Italia” (2015, 2 edizioni) e “Il golpe inglese” (2011, 3 edizioni, 5 ristampe in edizione tascabile), e con Rosario Priore di “Intrigo internazionale” (2010, 3 edizioni, 2 ristampe in edizione tascabile), ha condotto una nuova, approfondita ricerca a Londra, scoprendo molti documenti inediti, che sono alla base di questo suo nuovo libro-inchiesta.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo l’introduzione dell’autore 

Fasaleaks
La mattina del 16 marzo 1978, Aldo Moro fu sequestrato da un commando delle Brigate rosse. Dopo aver sterminato la sua scorta in via Fani, a Roma, i terroristi lo prelevarono e lo portarono in una prigione del popolo. Lo sottoposero a un processo popolare che si concluse con una condanna a morte. E cinquantacinque giorni dopo il rapimento, nonostante le trattative per la sua liberazione fossero giunte a un passo dall’esito positivo, la mattina del 9 maggio lo assassinarono. Il suo cadavere fu lasciato nel bagagliaio di una Renault rossa abbandonata in via Caetani, in pieno centro storico. A un passo dalle sedi del Pci e della Dc. In una zona dove, dietro il paravento di società e associazioni di copertura, operavano i servizi segreti di mezzo mondo. Fu il delitto politico più grave della storia della Repubblica. Non solo per lo spessore della vittima: cambiò il corso della storia italiana proiettando i suoi effetti anche nei decenni successivi.

L’assassinio del leader democristiano costituì il picco di una lunga fase di violenza caratterizzata da opposte matrici politico-ideologiche. “Rossi” e “neri” fecero centinaia di morti e migliaia di feriti, senza tener conto degli immensi danni collaterali. Perché accadde? Perché in Italia? E perché Moro? Nonostante le innumerevoli indagini giudiziarie e parlamentari, e un’infinità di ricostruzioni storico-giornalistiche, queste domande hanno ricevuto soltanto risposte parziali e insoddisfacenti. L’ultima commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’onorevole Giuseppe Fioroni (che ha concluso i suoi lavori nel dicembre del 2017 con l’approvazione della relazione finale con il voto unanime di Camera e Senato) ha accertato che ci fu una vera e propria operazione per stabilire i confini delle cose “dicibili al paese”. Una versione ufficiale, insomma, che tendeva a limitare le responsabilità alle sole Brigate rosse, le quali erano un fenomeno esclusivamente “italiano”, ideologicamente “genuino” e quindi privo di ogni contaminazione esterna. Una verità di comodo frutto di una “complessa trattativa” che coinvolse ex terroristi, magistrati, agenti segreti, istituzioni dello Stato. E molti, ovviamente, ne trassero dei benefici. Ci fu uno scambio: silenzio in cambio di impunità. Una completa verità, infatti, avrebbe mostrato all’opinione pubblica ciò che non doveva essere visto. E cioè che, dietro la facciata di un paese libero, si celavano vincoli esterni, imposti addirittura dai trattati internazionali post-bellici, che impedivano all’Italia di avere una propria politica estera e della sicurezza, e un regime interno pienamente democratico. Ciò che non si poteva dire, in altre parole, era che l’assassinio di Moro fu un vero e proprio atto di guerra contro l’Italia anche da parte di Stati amici e alleati, un attacco alla sovranità di una nazione e alle sue libertà politiche portato da interessi stranieri con la complicità di quinte colonne interne. I ricercatori si sono dovuti scontrare contro quel granitico muro di silenzio eretto a protezione delle aree grigie in cui si erano strette alleanze “sporche” fra il terrorismo, il “partito armato” dell’Autonomia operaia, criminalità mafiosa, apparati interni infedeli e, soprattutto, interessi internazionali. Un quadro troppo imbarazzante per poter essere svelato. E così, sono fiorite per reazione ricostruzioni “dietrologiche” basate su risposte ipotetiche, in mancanza di verità documentabili. Si è radicata una mitologia del mistero che si è autoalimentata nel tempo, impedendo a sua volta la comprensione storica degli avvenimenti. Ci si è attardati su dettagli marginali, e spesso insignificanti perché letti al di fuori del loro contesto, perdendo di vista il quadro generale.

Oggi, per fortuna, molte cose sono cambiate. Sono sempre più numerose le fonti aperte. E i materiali a disposizione consentono ai ricercatori di ricostruire la complessità del caso Moro. Di individuare tutti i soggetti che ebbero un ruolo, diretto o indiretto. Di delineare con altrettanta precisione le dinamiche che si svilupparono tra i vari attori: protagonisti, comprimari e comparse. Di ricomporre il quadro del “grande gioco” che si dispiegò prima, durante e dopo i “cinquantacinque giorni”. E di dare, quindi, una risposta – perché una risposta c’è – a quelle domande fondamentali.

Ma per vederci più chiaramente è necessario cambiare approccio mentale e metodologico. Il caso Moro non è un cold case da protrarre all’infinito, in cui scoprire un assassino sempre più misterioso e inafferrabile. E non può neppure essere circoscritto ai cinquantacinque giorni.  E’ una vicenda che coincide con la parabola politica del suo protagonista e affonda le proprie radici nelle anomalie della storia italiana del dopoguerra. Una storia molto complessa di cui non si tiene quasi mai conto. E che sfugge innanzitutto ai brigatisti rossi, convinti di essere stati il motore esclusivo di avvenimenti che sono invece più grandi di loro. D’altra parte, di fronte all’immane tragedia provocata, alle tante vite bruciate (degli altri, ma anche le proprie) non è facile ammettere di essere stati, alla fine, soltanto degli utili idioti.

La mia scommessa è proprio questa: restituire alla vicenda Moro tutta la sua complessità. Provare a ricomporre l’intero puzzle inserendo al loro posto le tessere mancanti. E vorrei farlo interfacciando contesti interni e internazionali, intersecando fonti archivistiche (particolarmente ricchi e illuminanti sono i tanti documenti inediti trovati negli archivi di Stato britannici di Kew Gardens) con fonti storiografiche e giudiziarie, memorialistica, testimonianze e confidenze raccolte nel corso di un’indagine giornalistica iniziata sin dai tempi in cui, durante gli anni di piombo, ero cronista della redazione de “l’Unità” a Torino; e proseguita senza pausa durante la mia esperienza romana, di nuovo a “l’Unità”, poi a “Panorama” e infine attraverso tanti libri. Più di quattro decenni, a pensarci bene. Quanti ne sono trascorsi dall’assassinio di Moro all’uscita di questo libro con Chiarelettere. Un periodo lungo, durante il quale ho avuto occasione di frequentare archivi italiani e stranieri. E di conoscere molti dei protagonisti, a vario titolo, di quella tragica esperienza: vittime e carnefici, investigatori e agenti segreti, storici e uomini di Stato, da ognuno dei quali ho ricevuto un prezioso tassello da inserire nel puzzle.

Mi è capitato spesso di ricevere lettere da giovani lettori che mi chiedevano perché ho coltivato una passione così forte da apparire quasi ossessiva, se non addirittura morbosa, per il caso Moro e per gli anni di piombo. In fondo è una storia vecchia di decenni, perché mai dovrebbe ancora interessare? Che senso ha continuare ad agitare i fantasmi del passato? Non rischiamo di rimanerne prigionieri? Domande sensate. Con cui fare i conti. Ma come? L’unica risposta che sono in grado di dare è attraverso le parole di Giovanni Moro, il figlio di Aldo: «I fantasmi sono morti che non riposano in pace e che non lasciano in pace nemmeno i vivi, perché continuano a manifestarsi chiedendo loro di onorare un debito o di liberarli dalla maledizione che consiste proprio nel dover tornare». Quel debito, personalmente, vorrei cercare di onorarlo mettendo tutte le mie conoscenze a disposizione del lettore.

GIOVANNI FASANELLA IL PUZZLE MORO. Da testimonianze e documenti inglesi e americani desecretati, la verità sull’assassinio del leader DC, Ed.Chiarelettere, Milano 2018, pp. 368, 17,60 €