Come sta andando il nostro Paese in relazione al piano Industria4.0? La domanda è importante perché tutti gli Stati membri della UE hanno l’innovazione dell’impresa al centro della loro agenda politica, tanto che il termine Industry4.0 – che sta appunto a indicare la quarta rivoluzione industriale – pur essendo stato coniato in Germania è stato adottato da tutta l’Europa. Ne parliamo con Giuseppe Sabella – direttore di Think-in e coordinatore del progetto Think-industry4.0 – che in questi giorni ha pubblicato per Cantagalli Editore il suo nuovo saggio dedicato all’industria4.0: “Fabbrica intelligente: la persona al centro, anche l’ambiente”.
Sabella,come si sta comportando il nostro sistema produttivo dinnanzi alla trasformazione dell’economia e del lavoro?
Al di là del fatto che in Italia abbiamo poche industrie e che prevalentemente il nostro sistema è a trazione della PMI, mi piace molto la parola “industria” perché in latino questa significa “attività”. E, quindi, ciò si sposa bene con ciò che è richiesto a tutti gli stakeholder: una nuova attività. Da qui il nome della collana dell’Editore Cantagalli (nova industria) che accoglie questo mio nuovo lavoro. Venendo alla domanda, io penso che cominciamo ad avere degli indicatori che ci autorizzano a pensare che l’Italia possa tornare a pieno titolo nell’alveo delle grandi potenze economiche e industriali del mondo.
E quali sono questi indicatori?
Sono diversi. Innanzitutto, il dato sulla produttività del lavoro mi pare molto significativo: +0,9% nel 2017. Consideriamo che negli ultimi 15 anni – fonte Istat – la produttività del lavoro è aumentata ad un tasso medio annuo dello 0,3% risultando decisamente inferiore alla media Ue (+1,6%) e all’area euro (+1,3%), anche le se nostre grandi imprese, e anche molte di quelle con più di 50 dipendenti, sono in linea con le concorrenti tedesche, francesi e inglesi. Tassi di crescita in linea con la media europea sono stati registrati per Francia (+1,6%), Germania (+1,5%) e Regno Unito (+1,5%). In Spagna il tasso di crescita (+0,6%) è stato più basso della media europea ma più alto di quello italiano. Da questo punto di vista, le recenti rilevazioni del Ministero del Lavoro sono incoraggianti: la produttività del lavoro è infatti un indicatore importantissimo.
Lei ritiene che siamo già in presenza di ricadute occupazionali?
Al di là delle positive variazioni sulle rilevazioni periodiche di Istat, ricorderei che proprio in questi giorni, la Confindustria ha comunicato che per effetto del piano industria4.0 da qui a 5 anni si ricercano 280.000 nuovi innesti. È chiaro che il profilo ideale è quello del nativo digitale con manodopera qualificata visti i requisiti: flessibilità, cultura digitale, attitudine al cambiamento. L’indagine svolta dalla Confindustria ha preso in esame cinque settori cardine per l’Italia, vale a dire la meccanica, l’agroalimentare, la chimica, la moda e l’Ict. Si tratta di una stima di fabbisogno occupazionale che tiene conto del saldo tra pensionamenti e diplomati dagli istituti tecnici e che se soddisfatto porterebbe il livello della disoccupazione al di sotto del 10%. Complici i forti incentivi fiscali del piano industria4.0, nell’ultimo anno le aziende hanno investito molto per rinnovare i loro impianti e adeguarsi alla trasformazione ma ora rischiano di non trovare le persone necessarie a farli funzionare.
Questo ci dice anche che il digitale, come afferma qualcuno, non è la fine del lavoro…
Il digitale è ciò che è stata la macchina a vapore dell’800: il lavoro non è finito, si è trasformato. Ed è ciò che sta avvenendo oggi. I Paesi che vanno meglio sono proprio quelli che stanno accompagnando questa trasformazione, ma l’Italia si sta ben comportando anche per merito del sindacato: laddove c’è innovazione, dove si applica il piano industria4.0, dove c’è crescita ci sono accordi di secondo livello. Questo ci dà un’indicazione di quale sia il ruolo attivo di chi contratta. Si stima, inoltre, che questo segmento di imprese valga il 35% del sistema produttivo. Il punto è cosa succede dell’altro 65%…
Già, cosa si può fare per questo 65% di imprese?
È evidente che una volta per tutte bisogna prendere atto che una grossa fetta del nostro sistema è poco recettivo all’innovazione. È sempre stato così, c’è una grossa fetta di mercato casalingo – si tratta prevalentemente di piccole imprese – che tuttavia resiste, e in molti casi occupa persone. Io penso che questo sistema di imprese, non solo vada avvicinato all’innovazione (probabilmente nemmeno sono a conoscenza del piano industria4.0), ma vada alleggerito. Mi spiego meglio: sono tutte piccole imprese che resistono lottando per la sopravvivenza, in molti casi tuttavia hanno anche un buon mercato ma soffrono moltissimo il peso e i costi di fisco e burocrazia. Su questo non si può far finta di nulla. Riforma fiscale e semplificazione sono ciò che attendiamo da troppo tempo. Senza contare che, per esempio, il taglio del cuneo fiscale significa aiutare imprese e lavoratori; e generare effetti virtuosi sulla domanda interna e, quindi, sul pil.
In particolare quella fiscale, secondo lei è una riforma possibile?
Non vedo perché se l’ha fatta la Spagna, non può farla l’Italia. Nel 2014 Mariano Rajoy tagliava di 5 punti i costi sul reddito da lavoro: il costo della riforma fiscale per le casse dello Stato è stato poi ripagato in due anni dall’aumento di consumi e livelli occupazionali. L’Europa, come già successo nel caso spagnolo, permette di sforare il tetto del 3% del deficit; chiede, però, di impegnarsi con riforme strutturali e, soprattutto, controllo della spesa. Quest’ultimo punto è drammaticamente ciò che i partiti tutti hanno paura di fare. Vedremo cosa succederà in questa legislatura che, comunque, sappiamo essere molto complicata.
Un’ultima domanda: perché, come dice nel suo nuovo libro che ha a tema l’industria4.0, “la persona al centro, anche l’ambiente”?
Perché la grande sfida che abbiamo davanti non è solo di rendere la fabbrica – metafora del luogo di lavoro – più digitale, ma anche più sicura (continuano ad essere troppe le morti sul lavoro) e più sostenibile: in particolare, più a misura d’uomo. Finalmente iniziamo a sondare la possibilità di un’economia che non vesta solo di verde, ma che si interessi concretamente della dimensione ambientale della vita umana. È il grande richiamo di Francesco alla “Casa comune”, ed è un appello che faremmo bene a non eludere.