Ci sono eventi, che pur nella loro retorica, nel loro mettere in scena riti e relative
emozioni, costituiscono l’occasione per ricordare il senso di una comunità. In questo
discorso Emmanuel Macron ricorda Simone Veil e attraverso questo ricordo i valori più
profondi della civiltà europea. La memoria della Shoah, l’altra metà del mondo, le
donne, ancora oggetto di violenze, brutalità, marginalizzazioni e discriminazioni in ogni
parte del mondo, l’Europa unita come nostro faro di civiltà e strumento per superare
questi tempi bui. Lo pubblichiamo per gentile concessione della Professoressa Sofia
Ventura.
Discorso di Emmanuel Macron in occasione del trasferimento delle spoglie di Simone
Veil al Pantheon, 1 luglio 2018.
VIDEO
Discorso (lingua originale)
Discorso del Presidente Emmanuel Macron, traduzione in italiano (a cura di
Sofia Ventura)
Omaggio solenne della nazione a Simone Veil – 1 luglio 2018
Il 5 giugno dello scorso anno, quando ho annunciato, al termine dell’omaggio che le
era stato reso presso la Corte degli Invalidi, che Simone Veil avrebbe riposato al
Pantheon accanto al suo sposo, questa decisione non fu solo la mia.
Non fu nemmeno quella della sua famiglia, che comunque accettò.
Questa decisione fu quella di tutti i francesi.
E’ intensamente, tacitamente, ciò che tutti i francesi e le francesi desideravano.
Perché la Francia ama Simone Veil.
L’ama nelle sue battaglie, sempre giuste, sempre necessarie, sempre animate dall
preoccupazione per i più fragili, per le quali si impegnava con una forza di carattere
poco comune.
La Francia l’ama ancora di più perché ha compreso da dove le veniva questa forza
messa al servizio di un’umanità più degna.
Non è che tardivamente, quando Simone Veil aveva superato il 50 anni, che la Francia
scoprì che le radici del suo impegno affondavano nell’oscurità più assoluta,
innominabile, dei campi della morte. È là che trovò in lei, per sopravvivere, questa
parte profonda, segreta, inalienabile che si chiama dignità. È là che, malgrado i dolori e
i lutti, lei acquisì la certezza che alla fine l’umanità vince sulla barbarie.
Tutta la sua vita fu l’illustrazione di questa invincibile speranza. Noi abbiamo voluto che
Simone Veil entrasse al Pantheon senza attendere che passino le generazioni, come
abbiamo ormai l’abitudine di fare, perché le sue battaglie, la sua dignità, la sua
speranza restino una bussola nei tempi difficili che attraversiamo.
Poiché ha conosciuto il peggio del XX secolo e si è perciò battuta per renderlo
migliore, Simone Veil riposerà con suo marito nel Sesto caveaux.
Lì raggiungerà quattro grandi personaggi della nostra storia: René Cassin, Jean
Moulin, Jean Monnet e André Malraux. Furono, come lei, maestri di speranza. Come
loro Simone Veil si è battuta contro i pregiudizi, l’isolamento, contro i demoni della
rassegnazione o dell’indifferenza senza nulla cedere, perché sapeva ciò che era la
Francia.
Come loro, sfidò l’ostilità, agì come un precursore, abbracciò delle cause che si
credevano perdute per restare fedele all’idea che aveva della Repubblica e alla
speranza cheriponeva in essa.
È bello oggi che questa donna raggiunga in questo luogo la confraternita d’onore alla
quale, per lo spirito, per il valore, appartiene di diritto e di cui per tutta la sua vita
condivise le battaglie.
Come René Cassin, Simone Veil si è battuta per la giustizia.
Nel 1948, Cassin fa ratificare dall’Assembela generale delle Naizoni Unite la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Simone Veil sapeva tuttavia che in
questa nobile battaglia per i diritti umani, la metà dell’umanità continuava
ostinatamente ad essere dimenticata: le donne.
Aveva visto la loro sottomissione e le loro umiliazioni, lei stessa aveva subito
discriminazioni che riteneva assurde, sorpassate. Allora si batté affinché giustizia fosse
fatta per le donne, tutte le donne.
Giustizia per le donne detenute in condizioni indegne, che si sforzò mentre era
magistrato di migliorare, giustizia per le donne, la loro indipendenza finanziaria, la loro
autonomia coniugale, la loro eguaglianza nell’autorità genitoriale.
Giustizia perché le loro qualità e i loro talenti fossero riconosciuti in tutti gli ambiti.
Per le donne martoriate nel loro corpo, nell’anima, per le donne che procuravano gli
aborti, per le donne che dovevano nascondere la loro tristezza o la vergogna, e che lei
strappò alla sofferenza sostenendo con una forza ammirabile il progetto di legge
sull’interruzione volontaria di gravidanza, dietro richiesta del Presidente Valery Giscard
d’Estaing e con il sostegno del primo ministro Jacques Chirac.
Giustizia per le donne inconsapevoli dei loro diritti e del loro posto nella società, per le
donne emarginate a causa delle leggi, degli stereotipi, delle convenzioni. Giustizia per
tutte le donne, che, ovunque nel mondo, sono martirizzate, violentate, vendute,
mutilate.
Con Simone Veil entrano qui le generazioni di donne che hanno fatto la Francia, senza
che la nazione abbia loro offerto la riconoscenza e la libertà che era loro dovuta. Che
oggi attraverso di lei, giustizia sia a loro tutte resa.
E che in questo giorno, i nostri pensieri vadano in particolare a una di loro, una donna
risoluta, forte, dolce che, nelle condizioni indicibili dei campi della morte sostenne le
sue due figlie con tutta la forza del suo amore. Avrebbe desiderato una vita di gioia,
ma per lunghi mesi, il suo destino tragico volle che lo spettacolo della loro sofferenza si
aggiungesse alla propria sofferenza, sino allo sfinimento finale, fino alla sua morte.
Saluto qui la memoria della madre di Simone Veil, Madame Yvonne Jacob, nata
Steimetz, morta a Bergen-Belsen nel marzo 1945, di cui l’esempio ispirò la lotta di
Simone Veil per le donne.
Come Jean Monnet, Simone Veil si è battuta per la pace e, dunque, per l’Europa.
Lei che aveva vissuto l’indicibile esperienza della brutalità e dell’arbitrarietà sapeva
che solo il dialogo e la concordia tra i popoli avrebbero impedito che Auschwitz
potesse rinascere dalle ceneri fredde delle sue vittime.
Si fece combattente per la pace, si fece combattente per l’Europa. Voleva l’Europa per
realismo, non per idealismo; per esperienza, non per ideologia; per lucidità, non per
ingenuità.
Non era tenera con l’insignificanza dell’irenismo e le complicazioni tecnocratiche che,
talvolta, divenivano l’immagine di questa Europa, poiché apparteneva a quella
generazione per la quale la nostra Europa non era né un’eredità, né un obbligo, ma la
conquista di ogni giorno.
Come parlamentare, come presidente del parlamento europeo, come cittadina
impegnata, non cessò di ravvivarne la fiamma originaria e d’incarnarne lo spirito
fondatore.
Jean Monnet diceva che l’Europa sarebbe la somma delle soluzioni da apportare alle
sue crisi. Noi dobbiamo a Simone Veil il fatto di non avere lasciato che i dubbi e le crisi
che colpiscono l’Europa attenuino la vittoria eclatante che da 70 anni abbiamo riportato
sugli strazi e gli errori del secolo passato.
Nulla sarebbe peggio che rinunciare alla speranza che ha fatto nascere l’Europa dalle
rovine nelle quali era stata sepolta e sotto le quali avrebbe potuto perire.
Noi siamo oggi i depositari di questa sfida alle vecchie nazioni che l’Europa non ha
cessato di tenere viva. Questa sfida è la nostra, quella della gioventù di Francia e
dell’Europa, ora che venti malevoli di nuovo si levano. È il nostro orizzonte più bello.
Come André Malraux, Simone Veil si è battuta per la civiltà.
Nata prima della guerra, in una civiltà che si credeva ancora immortale, ne visse il
rapido e crudele tracollo. Vite i punti di riferimento morali scomparire. Vide nei campi
delle SS martirizzare dei bambini di giorno, per ritrovare la sera i propri familiari venuti
a raggiungerli attorno alla tavola.
Aveva appreso nella propria carne che Auschwitz aveva sconvolto in modo durevole
l’idea stessa di civiltà. Condivideva con Malraux la triste constatazione che non vi era
più qualcosa come il «significato dell’uomo» o il «significato del mondo». Ma sapeva
anche che era possibile ricostruire una civiltà nuova.
Appassionata di arte e letteratura, continuò a credere che la cultura fa crescere l’uomo
e lo illumina sul suo destino. Riposerà ad alcuni metri dal suo caro Jean Racine, che
suo padre André Jacob le aveva fatto amare, che è sepolto nella chiesa di Saint-
Etienne-du-Mont e del quale Simone Veil occupò la poltrona all’Académie française.
Operando a favore dell’educazione, della riabilitazione dei prigionieri o come ministro,
per la protezione dei più fragili, sapeva che le civiltà sono tessute con questi legami
organici, con questi mille fili invisibili.
Impegnata a favore dell’amicizia tra i popoli europei, lo fu anche nel dialogo tra
israeliani e palestinesi, perché l’umanità non si arresta davanti alle nostre frontiere.
Credeva in questo destino comune che chiamiamo nazione, e in questa avventura
esaltante che chiamiamo civiltà, sapeva che ogni giorno che passa costituisce una
nuova battaglia contro la barbarie.
Come Jean Moulin, Simone Veil si è battuta perché la Francia restasse fedele a se
stessa.
Tradita da uno stato francese che era sceso a patti con l’occupante nazista, lei
avrebbe potuto addossare al proprio Paese il dolore delle sue prove e dei suoi lutti,
non accadde.
E quando decise di testimoniare della sua deportazione, fu innanzitutto per rendere
omaggio ai Giusti di Francia. Si erse contro coloro che innalzavano il ritratto di una
Francia vinta dai deliri antisemiti di Hitler, Petain, Laval, per ricordare il coraggio
incredibile e spontaneo di quelle famiglie francesi che, a rischio della propria vita,
avevano nascosto bambini ebrei, salvandoli dalla persecuzione e da una morte atroce.
Lei ricordava il tempo in cui dei francesi fornivano ai loro concittadini ebrei documenti
falsi e certificati di lavoro. Era il tempo in cui l’arcivescovo di Tolosa, Monsignor
Saliege, faceva appello perché le chiese fornissero asilo, era il tempo in cui dei
sacerdoti celebravano segretamente Pourim nelle loro chiese. Era il tempo in cui delle
solidarietà sotterranee tenevano viva la fraternità francese.
A sinistra del caveau numero 6, sul muro della cripta sono scritti i nomi dei Giusti.
A quei tempi la Francia restò la Francia perché degli uomini e delle donne
abbandonavano tutto per ingrossare i ranghi dell’esercito dell’ombra. Era allora che il
generale de Gaulle incaricava Jean Moulin di organizzare la resistenza.
È per questa Francia, la vera Francia, contro la Francia sfigurata della quale i
collaboratori in esilio continuavano a difendere i crimini che Simon Veil un giorno
decise infine di dare la propria testimonianza.
La Francia, grazie a lei e alcuni altri, guardò in faccia ciò che non aveva voluto vedere,
ciò che non aveva voluto ascoltare, ciò che avrebbe tanto voluto dimenticare e che,
tuttavia, costituiva una parte di sé. Comprese, così, che la nazione non deve temere la
memoria lacerata dei suoi figli e delle sue figlie feriti, ma accoglierla e farla propria.
Mai Simone Veil accettò decorazioni per essere stata deportata, e ancor più non
accettò che emergesse una rivalità tra le memorie. La realtà delle camere a gas e dei
forni crematori dei campi di sterminio, strumenti del crimine contro l’umanità, non
attenua in nulla l’eroismo dei resistenti torturati, fucilati, deportati.
Ma esiste una verità storica e la verità del martirio ebraico è oggi parte integrante della
storia di Francia, come ne fa parte l’epopea della resistenza.
Simone Veil riposerà accanto a Jean Moulin, l’eroe della Resistenza, torturato da
Klaus Barbie e che non si lasciò sfuggire nessun segreto durante la tortura più abietta.
Lei, Simone Veil, che martirizzata dalle SS non rinunciò mai alla sua dignità.
Sono per noi due esempi di umanità profonda, lui eroico nel suo sacrificio, lei
ammirevole per il suo coraggio e per la sua testimonianza. Lei che, sul braccio sinistro,
portava le stigmate del suo dolore, quel numero di deportata a Birkenau del quale un
giorno un francese le chiese se si trattava del numero del guardaroba. Il numero 78651
era il viatico della sua dignità invulnerabile e intatta. Sarà inciso sul suo sarcofago, così
come era stato tatuato sulla sua pelle di adolescente. Perché con Simone Veil, è alla
fine la memoria dei deportati per motivi di razza, come diceva lei stessa, dei 78.500
ebrei e tzigani deportati dalla Francia che entra e vivrà in questo luogo.
Domani raggiungerà i quattro cavalieri francesi che dormono in questo caveau.
Simone Veil entrando potrà guardarli con fierezza con quel suo sguardo freddo,
sempre inquieto. Potrà dir loro: «Ho fatto la mia parte».
Simona Veil chiama anche noi a fare la nostra parte.
Un altro cavaliere li avrà raggiunti, un cavalier servente, perché non era pensabile di
dividere ciò che la vita aveva così fortemente unito, nella gioia ma anche in quei lutti
terribili che furono la perdita della sorella di Simone Veil, Madeleine, detta Milou,
sopravvissuta come lei ai campi, scomparsa in un incidente di macchina; e la morte di
suo figlio Claude-Nicola, ucciso nel 2002 da una crisi cardiaca.
Non era pensabile che Simone potesse riposare senza Antoine. Questa compagnia le
sarebbe mancata.
Antoine, l’alto funzionario che amava la vita e che portò alla giovane sopravvissuta
l’eleganza e lo humor che le permisero di rivivere. Antoine che sognava di fare politica
e al termine dell’ENA aveva cominciato come liberale europeo. Antoine che ebbe l’
intelligenza di comprendere che sua moglie, lei, portava alla politica non il semplice
desiderio di cambiare le cose, ma l’aspra volontà di combattere per l’essenziale. Egli
mise allora il suo talento, il suo amore al servizio delle battaglie condotte da Simone,
che egli sostenne anche nelle ore difficili, quando i suoi avversari utilizzavano l’ingiuria
immonda e la minaccia fisica. Il loro dialogo non cessò mai, punteggiato da risate e
talvolta malinconia, rallegrato da una famiglia con tre figli Jean, Claude-Nicolas e Pier-
François e ben presto 12 nipoti. Questo dialogo fu interrotto solo con la morte di
Antoine nel 2013, lui che sembrava fatto per vivere per sempre, tanto il gusto per la
vita non lo aveva mai lasciato.
Il Pantheon ormai sarà un mormorio delle loro conversazioni.
La vostra opera, Madame, fu grande, perché essa si è nutrita dei vostri lutti e delle
vostre ferite, delle vostre fedeltà e delle vostre intransigenze, ma anche perché voi
l’avete interamente dedicata alla Francia e alla Repubblica.
Tutto ciò che voi avete fatto, l’avete fatto perché la Repubblica vi chiamava, vi ci
conduceva, vi incoraggiava. Voi avete creduto nella Repubblica e la Repubblica ha
creduto in voi. La grandezza dell’una ha fatto la grandezza dell’altra. È perché con
tutte le vostre forze voi l’avete onorata che oggi essa vi onora.
La vostra opera tuttavia non è ancora portata a termine.. Essa entra qui nella storia e
nella posterità. Possa la vostra lotta continuare a scorrere nelle nostre vene, ispirare la
nostra gioventù e unire il popolo di Francia. Possiamo noi sempre mostrarci degni
come cittadini, come popolo dei rischi che voi avete preso e delle strade che avete
tracciato, perché è in questi rischi e su queste strade, Madame, che la Francia è
davvero la Francia.
Al tramonto della vostra vita, voi avete desiderato che un kaddich fosse recitato sulla
vostra tomba, il vostro desiderio fu esaudito dalla vostra famiglia il 5 luglio 2017, al
cimitero di Montparnasse.
Oggi, la Francia vi offre un altro canto, quello del quale le prigioniere di Ravensbrük
avevano elaborato le prime parole su centinaia di pezzi di carta; e che esse cantarono
il 14 luglio 1944 davanti alle SS stupefatte. Questo canto che i deportati, ciascuno nella
propria lingua, intonavano quando il loro campo fu infine liberato, poiché lo
conoscevano tutto a memoria. Questo canto di cui il mondo ha risuonato quando la
barbarie di nuovo ha mostrato presso di noi il suo volto disgustoso.
Questo canto è quello della Repubblica, È quello della Francia che noi amiamo E che
voi avete fatto più grande, più forte. Che sia oggi, Madame, il canto della nostra
gratitudine e della riconoscenza della nazione che voi avete tanto servito e che vi ha
tanto amata. Questo canto è la Marsigliese.
Viva la Repubblica, viva la Francia.
(dal sito: https://sofiajeanne.com/2018/07/01/simon-veil-au-pantheon/)