“La legislatura cambierà verso dopo le europee”. Intervista a Fabio Martini

 I due ultimi turni elettorali ci consegnano una situazione politica in movimento. Con Fabio Martini, cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa, in questa intervista, ne analizziamo i possibili scenari.

Fabio Martini, queste mese di elezioni regionali ci hanno consegnato, per l’analisi politica, alcune “novità” e delle conferme. Partiamo dalle “novità“: il PD esiste. O per meglio dire il Centrosinistra esiste. Un centrosinistra “largo”, più inclusivo, meno borioso. Sarà, sicuramente, merito dei due candidati alla Presidenza della Regione, Zedda e Legnini, ma questo è stato il dato che è uscito dalle due consultazioni. Pensi che sia un dato acquisito?

In politica, ovviamente, non c’è mai nulla di acquisito. La “ripresina” del centrosinistra è stata favorita dal sistema maggioritario, che polarizza su due schieramenti ed è stata incoraggiata dalla qualità dei candidati-Presidenti. In Abruzzo e in Sardegna sono state scelte le due personalità di gran lunga migliori disponibili in quelle regioni e questa opzione non era scontata. Se il Pd nazionale, con umiltà, avesse fatto lo stesso alle Politiche di un anno fa, il risultato sarebbe stato così umiliante? Ora il Pd sta per affidarsi ad un leader – Nicola Zingaretti – che nella sua storia politica, ha dimostrato di aver una qualità: compositore di alleanze. Pochi, a sinistra, sanno preparare le campagne elettorali come il Governatore del Lazio. Ma non basterà. Serve una piattaforma riformista per la  ripresa del Paese, che sappia intrigare il “popolo” di sinistra ma anche i tanti moderati contrari alla cultura assistenzialista della maggioranza. Moderati anche di centrodestra che, continuando a votare Forza Italia, sanno che prima i poi finiranno nelle mani di Salvini. Ma servono duttilità, intelligenza. visione e soprattutto sapienza politica, doti di cui al momento  sembra disporre soprattutto Paolo Gentiloni, che sarà il presidente del “nuovo” Pd.

Domenica ci saranno le Primarie del Pd. Arrivano con grande ritardo. E questo è un handicap pesante, ma, comunque, restano sempre un fatto importante di partecipazione. Zingaretti resta il favorito. Qual è la carta vincente?

Il ritardo è clamoroso. Le Primarie si celebrano un anno dopo la batosta del 4 marzo 2018: dodici mesi senza leader e senza gruppo dirigente equivalgono ad un autolesionismo con pochi esempi nella storia dei partiti politici dei Paesi occidentali. Senza guida e senza essersi chiesti il perché di quella batosta. La carta vincente di Zingaretti? Essersi presentato – ed essere creduto – come l’unica vera alternativa alla stagione renziana, ma senza spiegare molto bene perché: come se la boria dell’ex leader potesse spiegare tutto. Il messaggio è: il nuovo sono io. Ha funzionato. Ora dovrà far capire quale è il suo progetto politico.
Avere un segretario è importante, ovviamente per ragioni identitarie, ma il disegno politico ancora di più. E qui c’è una carenza. Tutti a dire mai con i 5 Stelle. Cacciari e D’Alema consigliano al PD di incunearsi tra Lega e 5 stelle per evitare una pericolosa deriva a destra. Pensi che sia un buon consiglio?

Immaginare che dopo le Europee possa nascere un’alleanza di governo tra Pd e Cinque stelle, come vorrebbero Il Fatto quotidiano e personalità di varia natura è davvero uno scenario realistico? Sappiamo già la risposta: no. E’ impossibile. Salvini griderebbe al tradimento e al trasformismo, con qualche ragione. E poi nove mesi di governo hanno sfatato la suggestione che il Movimento Cinque stelle sia un movimento con un’anima progressista. La Lega è un partito di destra con un linguaggio populista, i Cinque stelle, come rivendica il loro presidente del Consiglio, è un movimento squisitamente populista. Per un centro-sinistra che vuole rimettersi in piedi, l’abbraccio con i Cinque stelle in declino, sarebbe mortale.

Veniamo all’altra novità: il tonfo dei 5stelle. Il 30% in meno in Sardegna è una botta non da poco. Di Maio pensa di risolvere la crisi con stratagemmi organizzativi. Invece il punto è identitario. Ovvero politico ideologico. È così?

Certamente è così. In pochi mesi sono arrivati al dunque sia l’ideologia “noi siamo diversi, gli altri tutti venduti” che ha portato tanti voti, sia la scelta politica di allearsi con la Lega. Questione ideologica: aprire ad alleanze con liste civiche nelle elezioni locali sarebbe la fine di un’epoca, quella della diversità e della purezza dei Cinque stelle. Un mito che è stato già messo in crisi dalla scelta – quella sì dirimente – di sostenere Salvini con lo scudo dell’immunità. Il nodo politico si scioglierà la notte del 26 maggio, quando si conoscerà l’esito delle elezioni Europee: continuare o no l’alleanza di governo con la Lega? Ma quel voto avrà un effetto di sistema per tutto il quadro politico. E’ del tutto evidente che in Italia le Europee sono destinate a trasformarsi in un fixing, che misurerà il peso reale delle forze in campo e dunque da quel momento in poi nulla sarà più come prima nella politica italiana. Il 26 maggio è destinato a diventare un evento-spartiacque per tutti. Salvini capirà dove si sarà fissato il livello della sua crescita: se sarà molto alto, potrebbe essere tentato di andare subito alle elezioni, ma in caso di risultato meno brillante, potrebbe ricontrattare l’appoggio al governo. I Cinque stelle, in caso di tracollo, potrebbero resettare a tornare a far quel che per ora hanno saputo far meglio: l’opposizione. E quanto al Pd, in caso di stallo, si prolungherà la crisi, ma in caso di ripresa, lavorerà a farsi trovare pronto quando il pendolo dell’opinione pubblica tornerà ad essere più disponibile ad oscillare verso sinistra. Un’oscillazione che potrebbe essere meno lontana di quel che pare.

Non pensi che la debolezza identitaria giocherà un brutto scherzo ai 5Stelle alle Europee?

Molto dipenderà dal reddito di cittadinanza. Se a metà maggio saranno erogati tutti i redditi potenzialmente possibili, al Sud il Movimento potrebbe correggere un piano che oggi pare inclinatissimo. Ma tre dubbi minano questo scenario. Primo: gli adempimenti per rendere operativo questo sussidio sono tali e tanti da far dubitare che si faccia a tempo a mettere a regime la misura. Secondo: quando dovessero arrivare i primi sussidi, rischia di montare l’irritazione di chi incassa la medesima cifra, ma faticando dalla mattina alla sera, con contraccolpi elettorali al nord e anche al centro Italia. Terzo: in questa fase storica gli italiani pensano che tutto gli sia dovuto. Non è detto che ci sia una riconoscenza elettorale.

L’altra “novità” è Silvio Berlusconi. Ha perso molto del seduttore di un tempo. Ma resiste. Sarà la prossima vittima di Salvini?

E’ vero resiste, ma diventando ogni volta più piccolo. Dopo il grande risultato del Pdl nel 2008, in tutte le occasioni nelle quali si è presentata, Forza Italia è andata sempre più indietro. Oramai è sotto il 10 per cento e non sembra trarre alcun beneficio dalla presenza di Berlusconi nelle campagne elettorali locali. Il Cavaliere ha ancora i “suoi” elettori, ma sono sempre meno. Ecco perché le elezioni Europee saranno decisive nel rapporto tra Lega e Forza Italia: se Salvini dovesse incamerare un bottino elettorale tre o persino quattro volte superiore (un rapporto 30-10, ovvero 32-8) e si dovesse scivolare verso elezioni anticipate, non è vero che non ci sarà un’alleanza di centrodestra – come si legge in questi giorni sui giornali – ma quella alleanza avrà modalità molto diverse e sorprendenti rispetto al passato.
Ed ora veniamo alla conferma: Matteo Salvini. Il leader leghista ha trovato lo schema vincente: governo con Di Maio (e intanto lo svuoto) e nelle regioni con Berlusconi. Tutto sembra funzionare. Non trovi troppo semplice lo schema?

E’ proprio così: uno schema semplice ed efficace. Potrebbe durare ancora un po’ ma non a lungo Gli “opposti svuotati” in qualche modo reagiranno. La reazione più interessante sarà quella dei Cinque stelle: conflittualità permanente ma senza rompere? E Salvini, per non perderli prima del decisivo test delle Europee, quanto sarà disponibile a concedere? Nei tre mesi che ci separano dalle elezioni il leader della Lega si misurerà la palla e dovrà dare uno sguardo anche al preannuncio di una novità: il voto sardo dimostra che i suoi margini di espansione si stanno riducendo.

Intanto il governo è alle prese con una crisi economica pesante…il barometro governativo segna tempesta?

Il governo giallo-verde ha deciso di investire tutte le risorse su due provvedimenti protettivi: per i lavoratori che non se la sentono più di lavorare e per i giovani disoccupati. Provvedimenti che hanno sottratto risorse da investimenti più duraturi ma inadatti a garantire un incasso elettorale immediato. Questo per il momento sembra incoraggiare la recessione e autorizza le voci su una manovra correttiva. La sostanza è che l’incertezza – economica, finanziaria e politica – è tornata ad aleggiare sull’Italia. Se ad un certo punto questo rinnovato sentimento dovesse precipitare sui fondamentali – dallo spread ai punti di Pil persi – allora effettivamente il barometro-Italia potrebbe volgere a “tempesta”. Ma al momento ci sono soltanto sintomi che non  fanno pensare ad una drammatizzazione del tipo di quella che si verificò nell’autunno del 2011.

Adriano Ossiccini e la Politica: una storia di libertà. Intervista a Carlo Felice Casula

 

Si sono svolti ieri, a Roma, nella Basilica di Santa Sabina, all’Aventino, i funerali di Adriano
Ossicini. Adriano Ossicini è stato a lungo parlamentare della Repubblica. Partigiano cattolico,
fu tra i fondatori del movimento dei “Cattolici comunisti”, docente universitario di Psicologia alla
Università “La Sapienza” di Roma. Con Franco Rodano fu tra i grandi ispiratori del dialogo tra
cattolici e comunisti. Una stagione intensa e drammatica. Per ricordare la figura di questo
protagonista della nostra storia politica, abbiamo intervistato il professor Carlo Felice Casula,
Ordinario di Storia Contemporanea alla Terza Università di Roma. Casula, inoltre, è stato il
curatore degli scritti politici di Adriano Ossicini.

Professore, la scomparsa di Adriano Ossicini, uno dei più autorevoli testimoni della Sinistra Cristiana, ci offre l’occasione per ricordare una grande storia di impegno politico. Partirei dal partito della “sinistra cristiana”. Come nasce?
Il Partito della Sinistra Cristiana nasce nel 1944, all’indomani della liberazione di Roma
dall’occupazione tedesca. Si trattò in realtà sostanzialmente del cambio del nome del Movimento dei Cattolici Comunisti, del quale Ossicini era stato uno dei fondatori assieme a Franco Rodano. Mutamento di nome finalizzato soprattutto per non incorrere in esplicite condanne della gerarchia. Ossicini ne fu un sostenitore convinto anche in vista di una maggiore presa nel mondo cattolico, come in parte avvenne con l’ingresso di esponenti del Partito cristiano sociale, come Gabriele De Rosa o di altre personalità cattoliche come Giuseppe Mira.

Ossicini svolse un ruolo importante nella resistenza romana al fascismo. Quale è stato il suo ruolo di resistente? 
Durante i lunghi mesi dell’occupazione tedesca della Capitale, Ossicini è il responsabile
dell’organizzazione militare del Movimento dei Cattolici Comunisti, seconda solo, per numero
di partigiani combattenti, a quella del Partito Comunista. Ossicini partecipa ai combattimenti
per fermare i Tedeschi,l’8 settembre, a Porta San Paolo, che vedono la presenza congiunta di
militari e civili e danno inizio alla Resistenza stessa. Vicino ai Cattolici Comunisti è Raffaele
Persichetti, uno dei caduti di Porta san Paolo e amico e collaboratore di Ossicini è anche
Romualdo Chiesa, arrestato, torturato e trucidato alle Fosse Ardeatine.

Perché Ossicini non aderisce, come altri giovani cattolici impegnati nella resistenza alla DC? Eppure nella Dc c’era una forte componente di sinistra?
La Democrazia Cristiana pur facendo parte del CLN di Roma e pur essendo su posizioni
rigorosamente antifasciste e anche solidali con il movimento partigiano, ha una presenza nella
resistenza molto ridotta. Per Ossicini, il cui padre, Cesare, era stato un dirigente del Partito
Popolare, perseguitato dal Regime, l’impegno antifascista, fin dal 1938, anche all’interno della
Fuci e poi la partecipazione attiva alla lotta armata contro l’occupazione tedesca, era stato il
vero punto di discrimine della sua identità politica.

Nel 1946 alcuni aderenti alla Sinistra Cristiana fanno il grande salto verso il PCI.
Pensiamo a Franco Rodano. Ossicini non aderì al PCI. Perché?
Nel dicembre del 1945 il Partito della Sinistra Cristiana, con un congresso straordinario, si
sciolse, dando questa indicazione, come titolo, Voce Operaia, il diffuso e autorevole
settimanale del partito: “sui fronti di lotta della classe operaia continuiamo la nostra azione di
cattolici e di democratici”. Concretamente questo voleva dire lavorare nelle organizzazioni di
massa come l’UDI, il Fronte della Gioventù, la CGIL, allora unitaria e anche aderire al Partito
Comunista che, con il suo quinto congresso del gennaio 1946, si configurava come partito
nuovo, al quale si aderiva con la condivisione del suo programma politico e non dell’ideologia
marxista. Ossicini, contrario allo scioglimento, pur non aderendo al Partito Comunista
collabora attivamente con esso, a partire dal suo iniziale impegno istituzionale nella Provincia
di Roma. Nel 1948, sia pure senza farsi grandi illusioni, è vicino al Movimento detto Cristiani
per la pace, animato da Guido Miglioli, il “bolscevico” bianco, mitico dirigente delle leghe
bianche del primo dopoguerra, che con Ada Alessandrini, entra a far parte del Fronte
democratico popolare. Ossicini, a differenza di Franco Rodano, era convinto della necessità
della copresenza di più partiti di ispirazione cristiana e condivideva con esponenti della stessa
Curia, come l’allora mons. Domenico Tardini, la preoccupazione dei rischi e dei costi, sul
terreno religioso, dell’appiattimento della chiesa e della fede con un partito.

Eppure questo “sovversivo”, così era stato schedato dalla polizia fascista, dopo la scomunica del 49 continua a mantenere il suo legame con la Chiesa. Importante il suo legame con don Giuseppe De Luca….
Ossicini mi ha confidato che quando ebbe l’interdetto personale, si recò in Vaticano, interloquì
con Ottaviani chiedendo le ragioni del provvedimento. Le ragioni non furono spiegate, ma
l’interdetto gli fu immediatamente tolto. Per il vero il termine scomunica è improprio. Monsignor
Domenico Tardini, come ha ricordato Federico Alessandrini, al riguardo fece una battuta
fulminante: “Bella trovata questa di Ottaviani. Se la scomunica attacca. Avremo in Italia milioni
di scomunicati. Se non attacca, mi dici tu a che serve?”. Don Giuseppe De Luca, personalità
ecclesiastica di vastissima cultura e di grande fascino intellettuale, amico e collaboratore di
lunga data sia di Tardini, che di Montini, era molto legato anche a Rodano e per il tramite di
questi anche a Palmiro Togliatti. Ossicini in un bel libro pubblicato dalle prestigiose Edizioni di
Storia e letteratura, fondate proprio da De Luca, ha ricostruito il suo lungo e intenso rapporto
con lui: Il colloquio con don Giuseppe De Luca. Dalla Resistenza al Concilio Vaticano II.

Arriviamo agli  anni del Concilio e del post-Concilio. In questo periodo si svilupperà, fortemente, il dialogo tra comunisti e cattolici fonda l’agenzia di stampa ADISTA che divenne uno strumento di informazione ecclesiale e politico per sviluppare questo dialogo. Non bisogna dimenticare il suo impegno di parlamentare della Sinistra Indipendente…
E’ propriamente negli anni della ricezione e dell’applicazione delle novità del Concilio che
Ossicini riprende l’impegno politico attivo e pubblico, dopo un periodo non breve, durante il
quale, anche se la sua passione per la politica non si era mai spenta, si era dedicato
prioritariamente alla sua professione di medico-psicologo e di studioso e docente universitario.
Nel 1967, siamo ormai alla vigilia dell’entusiasmante stagione dei movimenti, dei giovani, degli
operai, delle donne, ma anche dei cattolici postconciliari, Ossicini raccoglie l’invito di Ferruccio
Parri a dare vita a una nuova e originale iniziativa che in collaborazione con il PCI, anche in
riconosciuta autonomia, interpretasse queste spinte. E’ la Sinistra indipendente che vede il
coinvolgimento sia alla Camera che al Senato di tante prestigiose figure, laiche e cattoliche,
del mondo della cultura, delle professioni e della ricerca. Adriano Ossicini, senatore per molte legislature, vicepresidente del Senato, persino ministro per un breve periodo, è da subito uno
degli esponenti più noti e autorevoli. Per decenni è stato, fuori e dentro il Palazzo, uno dei
punti di riferimento per generazioni di giovani cristiani di sinistra prima e dopo il Concilio.

Che rapporto c’era tra Ossicini e Moro? E in questo rapporto il suo  giudizio sulla DC era cambiato? 
Ossicini, come d’altronde anche Franco Rodano, avevano per Moro grande stima e
attenzione, così come per la Base nel suo complesso, vista come la corrente della DC che con più rigore difendeva la laicità della politica. Certo che il giudizio sulla DC cambia nell’intensa, ma, purtroppo,breve stagione del berlingueriano-rodaniano compromesso storico e della Terza fase morotea, che sembrano riproporre i valori e i sogni della Resistenza e dei governi di unità nazionale. Per vanità personale ricordo che il mio libro “Cattolici Comunisti e Sinistra Cristiana (1938-1945)”, pubblicato nel 1976 da Il Mulino, per diverse settimane fu in cima alla classifica dei libri di saggistica più venduti. Ossicini visse come un vero e proprio dramma personale la prigionia di Moro, la sua barbara uccisione da parte dei sicari delle Brigate Rosse, ma anche l’incapacità della politica tutta a ottenere la sua salvezza.

Alla fine della “Prima Repubblica” , o per meglio dire alla vigilia della “seconda
repubblica”, Ossicini  diventa Ministro della famiglia e solidarietà sociale con Dini.
Successivamente si impegna nell’Ulivo e poi nel PD. Per finire Professore, in sintesi, cosa ha significato la politica per Ossicini?
Credo che Ossicini sia un politico, nel senso pieno del termine e nell’accezione montiniana
della politica come la forma più elevata della carità, dell’Italia repubblicana. Ossicini non
amava, e io con lui, la categoria della Prima Repubblica. Indubbiamente nonostante la sua
breve esperienza di ministro con il Governo Dini, dopo la morte di Moro e, successivamente,
la fine del Partito Comunista, nonostante le nuove speranze suscitate dall’Ulivo di Romano
Prodi, credo non abbia più vissuto gli entusiasmi dei molti decenni precedenti. Quando alcuni
anni orsono curai un’ampia antologia di suoi scritti per le Edizioni Studium, scegliemmo
insieme questo titolo: Il cristiano e la politica. Documenti e tesi di una lunga stagione (1937-
1985). Nella sua lunga vita ben vissuta e ben spesa, ha, tuttavia, sempre conservato
speranza e ottimismo. Per un cristiano anche di fronte al più forte pessimismo della ragione,
rimane pur sempre oltre all’ottimismo della volontà, anche quello della Provvidenza.

“Il Papa ad Abu Dhabi ha gridato contro lo ‘scontro di civiltà’ “. Intervista a Massimo Faggioli

Grande risonanza nell’opinione pubblica mondiale ha avuto l’ultimo viaggio apostolico di Papa Francesco negli EAU. In questa intervista con Massimo Faggioli, storico del Cristianesimo alla Villanova University (USA), approfondiamo i  contenuti del viaggio.

Professore, il viaggio apostolico di Papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti, è stato definito dallo stesso Pontefice come una “sorpresa di Dio”. In effetti, pur nella brevità, è stato un viaggio straordinario…

Rappresenta un altro passo nella sfida di papa Francesco contro l’apparente ineluttabilità dello “scontro di civiltà” che oggi rappresenta un’offerta politica molto redditizia in Europa e in Occidente. Ci sono molti livelli diversi in questo viaggio: quello politico-internazionale, quello interreligioso, e quello intra-cattolico, con la visita a una comunità cristiana locale che ha molto da dire ai cattolici in Europa e in Occidente, con la sua diversità interna, fatta di immigrati dall’Asia, di riti diversi, e in una situazione precaria dal punto di vista della libertà religiosa e del rispetto dei diritti.

Collochiamolo sul piano storico. Papa Francesco si è mosso, così lui ha voluto, sulla linea di Francesco d’Assisi (la visita al Sultano) e del Concilio Vaticano II. Ma anche nella linea del grande islamista cattolico Luis Massignon e del suo discepolo italiano padre Basetti Sani. Sono questi i filoni che emergono in questo viaggio?

Quello che Francesco ha detto e fatto negli Emirati va visto nell’anniversario della visita di san Francesco al Sultano del 1219. Ma c’è anche il modo particolare di Francesco di vedere il Vaticano II, ovvero un ressourcement del magistero papale nel Vaticano II e nelle sue intenzioni originarie: prima ancora del dialogo, c’è la fraternità nell’unica famiglia umana che è l’intuizione di Giovanni XXIII nella convocazione del concilio.

Il Papa ha testimoniato una visione della Chiesa, in terra d’Islam, povera, umile, ma profetica. Che significato ha per i cristiani che vivono nel contesto mediorientale, assai più difficile rispetto a quello di Abu Dhabi?

Significa che il papa parla con tutti, anche con gli interlocutori che non consideriamo perfetti o che possono creare imbarazzi alla diplomazia vaticana. Gli Emirati rappresentano il possibile inizio di un processo di cambiamento che ha al centro la convivenza interreligiosa. La scomparsa dei cristiani dal Medio Oriente sarebbe una tragedia epocale e la Santa Sede fa quello che può, mentre altri attori cercano di sfruttare le tensioni interreligiose per una politica di potenza.

Quali sono i “punti fermi” del documento sulla “Fratellanza umana”?

Si tratta di un documento che rappresenta una sfida sia per i cattolici sia per i musulmani: impegna principalmente a combattere contro la strumentalizzazione della religione per fini politici; accetta il linguaggio del pluralismo religioso come parte del piano divino. La parte sulla cittadinanza e sulla rinuncia al linguaggio sulle “minoranze” è quella più interessante per il futuro dei cristiani nei paesi arabi e musulmani. È un documento che in certi passaggi è più impegnativo per l’Islam che per i cattolici – anche se in alcuni paesi cattolici sta tornando la tentazione di piegare la chiesa al nazionalismo e all’etnocentrismo. Non a caso, sono i paesi (come gli Stati Uniti) in cui la storia del cristianesimo in terra araba è quasi totalmente ignorata oppure considerata un’aberrazione.

Qualcuno, nell’area dei nemici di Papa Francesco, lo ha definito come un documento “teosofico”. Sappiamo che in quell’ambiente Bergoglio viene accusato di essere” inconsistente”, di “creare confusione tra i fedeli”. Come risponde a queste critiche?

C’è chi ha cercato di delegittimare papa Francesco fin dalla tarda primavera e l’estate del 2013. Poi è arrivata la lotta contro il Sinodo sulla famiglia e contro Amoris Laetitia. Dopo, c’è stata la strumentalizzazione ideologica dello scandalo degli abusi sessuali negli Stati Uniti. Ora, i dubbi di eresia contro il documento di Abu Dhabi. Coloro che si dicono confusi dal papa cercano di trovare continuamente motivi di confusione. Ormai è una dinamica che non ha effetti sul pontificato ma ha solo finalità interne allo schieramento anti-Francesco, di posizionamento tra le diverse voci del neo-tradizionalismo cattolico.

Parlando ai fedeli di entrambi le religioni, di Oriente e dell’occidente porta con sé una valenza politica straordinaria. Per il contesto italiano è davvero una sfida non indifferente.

È una sfida per la chiesa globale, e anche per il contesto italiano che ha una vocazione particolare data la sua posizione geografica e la sua storia: resistere alle sirene dell’autoritarismo che si presenta come difesa delle radici cristiane. Ci sono offerte di “protezione” politica alla chiesa che la chiesa ha il dovere di rifiutare perché significherebbero la soggezione della fede cristiana a un messaggio che è anti-evangelico.

Ultima domanda : siamo al sesto anno di pontificato. La sfida più difficile qual è?

La sfida più difficile è sicuramente lo scandalo degli abusi sessuali: questo ultimo anno ha rappresentato un salto di qualità nella percezione dello scandalo nella chiesa e ci si aspetta molto da Roma. I segnali di questi ultimi mesi sono confortanti: ma è evidente che agli occhi di molti cattolici papa Francesco verrà giudicato dalla sua azione su questo fronte, e non su quello dei rapporti inter-religiosi.

“Per superare il sovranismo sogno un’Italia mondiale”. Intervista a Enrico Letta

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

“La strada che ha preso l’Italia non mi piace. Vorrei che si cambiasse direzione. In questo libro provo a elaborare idee e lanciare proposte concrete. Per interrompere una sequenza fatta di errori e illusioni, tra sovranismi e rottamazioni, che ha portato a un’Italia sempre più ripiegata su se stessa. Per affrontare le sfide dell’immigrazione, del declino economico e culturale, della sostenibilità ambientale, e per un’Italia davvero protagonista di una nuova Europa. Le mie riflessioni si fondano su tre convinzioni. La prima è che per superare questo presente bisogna innanzitutto capire come ci si è arrivati. La seconda è che si deve superarlo andando avanti e non indietro. La terza, la più importante, è che non c’è niente di più bello che imparare.” 

Così scrive Enrico Letta nel suo ultimo libro “Ho imparato”(Ed. Il Mulino, pagg. 190, € 15,00).

L’ex premier adesso è professore al prestigioso “SciencesPo” di Parigi (dove dirige l’Istituto di affari internazionali). Con lui, in questa intervista,  abbiamo messo a fuoco alcuni punti della sua riflessione, senza dimenticare l’attualità politica.

Professor Letta, il suo libro “Ho imparato” ci offre molti spunti di riflessione su diverse tematiche economiche e politiche che sono altrettante sfide all’Italia contemporanea. Allora incominciamo dall’Italia. Anche le elezioni abruzzesi hanno consegnato quella regione ai sovranisti. Infatti è uscito vincitore un centro destra a trazione leghista con la elezione di un candidato di Fratelli d’Italia. Insomma soffia forte il vento sovranista. Perché, secondo lei, il sovranismo ha conquistato gli italiani?

Secondo me non riguarda solo l’Italia, ma riguarda tutti i paesi occidentali, nel senso che siamo in una fase nella quale la paura per il futuro, l’ansia che si crea, le trasformazioni della nostra società stanno creando oggi nelle ex classi medie una prevalente paura per il futuro come sentimento chiave. Questa paura spinge a cercare conforto nei punti di riferimento antichi e il principale punto di riferimento antico sono la lingua, la nazione e la bandiera e oggi in tutti i paesi occidentali c’è questo ripiego verso “la logica del focolare”, consistente. nella sicurezza che ti danno la lingua, la bandiera e la nazione). L’Italia è dentro questa dinamica esattamente come gli altri paesi occidentali: l’uscita del brexit è figlia di questa dinamica, così come il successo negli Stati Uniti del motto di Trump “Make America great again”.

Quali sono stati gli errori politici che ci hanno portato a questo punto?

La cosa tocca un po’ tutti gli aspetti della vita, tocca la politica, l’economia, la cultura, l’educazione, ovviamente il tema dell’emigrazioni, viste come una delle cose che più spaventa e crea la paura che uno possa sentirsi straniero a casa sua.

Le cronache politiche ci informano di quanto sia complicato la costruzione di una alternativa. Tra gli sforzi c’è quello di Carlo Calenda. Il suo manifesto per l’Europa ha raccolto una grande adesione. Lei nel libro ha espresso perplessità. Cosa non la convince? Avete avuto modo di chiarire le vostre opinioni?

Io penso che la spinta a favore di un’Europa come base di un riferimento chiave per l’Italia sia totalmente condivisibile, io culturalmente mi sento assolutamente vicino a questa visione. Ho semplicemente fatto riferimento alla necessità che ogni operazione politica vada fatta a favore e non contro. Ma rispetto all’idea originale mi sembra sia evoluta la sua proposta.

Intanto stiamo vivendo una crisi assurda con la Francia. Una crisi fatta di sgarbi istituzionali gravi. Di Maio ha ancora una volta espresso l’intenzione di rincontrare i gilet jaunes. Il governo francese vuole un atto forte per chiudere la crisi. Siamo in uno stallo. Che dovrebbe fare il governo italiano? Non pensa che anche Parigi dovrebbe fare qualcosa per rasserenare il clima?

Molto semplicemente tra Italia e Francia, come tutte le altre nazioni europee, esistono convergenze (una delle più importanti che mi viene in mente è quella sulla politica monetaria europea, una delle questioni più decisiva di tutte, soprattutto per un paese come il nostro che ha un debito notevole e grazie a Draghi e alla Francia l’abbiamo avuta) e divergenze (ad esempio il tema della Libia, dei migranti). Le divergenze possono anche portare a dei litigi, ma non devono portare alla rottura di un’alleanza che è strategicamente fondamentale per noi. Piuttosto che guardare verso Polonia e Ungheria, dobbiamo guardare verso Francia e Germania, anche perché Polonia e Ungheria sono fuori dall’euro, quindi con loro più di tanto non possiamo fare, mentre con le altre è fondamentale intendersi.

L’Italia deve smettere di provocare la Francia con cose che non hanno nulla a che vedere con i fatti concreti, perché la storia dei gilet gialli o la storia del colonialismo sono pure provocazioni. Sarebbe come se il governo francese si mettesse a provocarci sulla mafia, è ovvio che reagiremmo. Ecco perché le cose hanno bisogno di rapporti dignitosi e sinceri. Nel governo italiano si è fatta una cosa da campagna elettorale, hanno deciso di scegliere Macron come nemico per la campagna elettorale.

Torniamo all’Europa. Fino a pochi anni fa noi italiani eravamo i più europeisti. Oggi viviamo con fastidio l’appartenenza all’Europa. Nel libro lancia idee forti sulla riforma della UE. Quale o quali per tornare ad amare l’Europa?

Secondo me c’è bisogno di estendere il discorso sull’Europa a materie e temi sui quali fino ad oggi è stata secondaria la logica europea – cultura, educazione –; io per esempio lancio nel libro questa proposta sull’Erasmus per gli adolescenti che ritengo fondamentale, penso sia una delle cose principali su cui lavorare, perché se l’Europa diventa anche educazione e cultura, allora si riescono a fare ed ottenere dei risultati molto maggiori. Io dico che più che risposte politico- organizzative c’è bisogno di risposte di una grande battaglia culturale, perché si è abbandonato quel tema e invece c’è bisogno perché è su questo che si gioca anche il futuro dell’Italia.

Lei lancia, nel libro, una proposta forte per affrontare con razionalità il problema della immigrazione. Ovvero la creazione di una autorità come Mario Draghi per il problema migratorio. Può spiegare cosa intende?

Penso che così come l’Europa e l’euro siano stati salvati da Draghi, cioè da un’autorità centrale che è riuscita con pieni poteri a fare nei tempi giusti le scelte necessarie assumendosene la responsabilità, allo stesso modo è necessario che la stressa cosa avvenga sulla questione migratoria. C’è bisogno di qualcuno che sia in grado di assumersi la responsabilità.

In questi tempi sovranisti stiamo mettendo in crisi istituzioni consolidate. Mi riferisco alla volontà dei due vicepremier di attaccare l’autonomia di Banca d’Italia. Quali obiettivi si pongono?

Bisogna garantire assolutamente l’indipendenza della Banca d’Italia, come di tutte le Autorità indipendenti. Credo che questa sia la questione chiave perché fa parte degli obiettivi per tenere il paese in vita come una democrazia funzionante ed efficiente. Io penso che tutti i corpi dello Stato debbano lavorare per garantire l’indipendenza della Banca d’Italia. Di Maio e Salvini hanno bisogno di creare sempre dei nemici da esporre al pubblico ludibrio; questa logica con la Banca d’Italia è perfetta solo perché si tratta di banca e generalmente i banchieri godono di cattiva fama e quindi è facilissimo trovare un nemico così.

Lei sogna una Italia mondiale. Di questi tempi sembra una utopia…. Cosa la rende ottimista sul destino dell’Italia?

I giovani italiani, perché l’Italia ha dei giovani ventenni che sono fantastici. Li vedo sia la scuola di politica che all’università e sono veramente fantastici, hanno una marcia in più e io sono ottimista dell’Italia per loro.

“L’ITALIA DEL LAVORO MANDA UN SEGNALE FORTE A QUELLA DELLE CHIACCHIERE”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Manifestazione nazionale Cgil, Cisl e Uil ”#Futuroallavoro” (ANSA/GIUSEPPE LAMI)

Duecentomila persone hanno partecipato alla manifestazione #FuturoalLavoro promossa da Cgil Cisl Uil a cui ha aderito anche una folta delegazione di imprenditori. Un segnale forte di unità che ora chiede un cambio di passo al governo. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0 e osservatore del mondo del lavoro.

Sabella, da tempo non si vedeva un’iniziativa unitaria così significativa. Cosa possiamo dire dopo la giornata di ieri?
Indubbiamente è una giornata che si porta dietro molte suggestioni: innanzitutto, si continua a parlare di crisi del sindacato ma #FuturoalLavoro ci dice che i lavoratori credono ancora nelle loro rappresentanze nonostante la crisi, nonostante le disuguaglianze crescenti, nonostante la frammentazione del lavoro e il regresso della giustizia sociale. Evidentemente, il sindacato è ancora una grossa burocrazia ma – in questi anni durissimi per il lavoro – è stato l’unico soggetto in grado di non lasciare sole le persone, di continuare ad essere un riferimento. Inoltre, è stata una manifestazione molto partecipata, poteva non esserlo. Certamente va tenuto conto, anche, dell’effetto Landini.

L’ex leader della Fiom arriva da un percorso sindacale tutt’altro che all’insegna dell’unità. Come lo vede alla guida della Cgil?
Landini riporta il sindacato a essere soggetto popolare: i lavoratori lo amano, lo sentono come un loro vero rappresentante. Ciò può dar origine a una nuova fase, proprio per l’effervescenza che Landini riverbera sulla base. Alla fine, il senso più vero delle organizzazioni sta nella loro capacità aggregativa e nel superare i loro limiti di natura burocratica. Da leader della Fiom – al di là dei suoi errori – il suo sforzo è sempre andato in questa direzione. Tuttavia, per l’appunto, se si vuol agire per fermare le politiche sbagliate di questo governo – che più che un esecutivo pare un comitato elettorale – c’è bisogno di un forte passo unitario. È indispensabile quindi, oltre al sentimento popolare, un serio lavoro programmatico da parte di Cgil Cisl Uil nel segno dell’innovazione.

Secondo lei le tre sigle ne saranno in grado?
Penso di si e, sinceramente, lo voglio sperare. Perché la situazione del Paese è critica. Non veniamo da anni di abbondanza ma, comunque, dopo 14 trimestri di crescita, da due trimestri è tornato il segno meno e la produzione industriale è in forte calo: è il risultato della sfiducia che questo governo ha prodotto e che ha portato ad un contraccolpo negli investimenti. Anche perché, dentro la cosiddetta manovra del cambiamento, non vi è nessuna misura per lo sviluppo.

Nonostante i dati sulla produzione industriale e le rilevazioni di BankItalia, nel governo c’è chi accusa di “stime apocalittiche” e annuncia un nuovo boom economico…
Questa tendenza a delegittimare le istituzioni è pericolosa, è come giocare col fuoco. La verità è che questo è il governo delle chiacchiere, a cui ieri l’Italia che lavora ha mandato un segnale forte. Adesso minacciano di azzerare i vertici di BankItalia e Consob ma è difficile occultare del tutto la realtà. Questi signori non hanno contezza dei problemi e sono del tutto inadeguati al compito. La mancanza di misure di crescita economica dentro la manovra è un fatto grave, tutte le economie avanzate stanno investendo su Industria 4.0 e noi ci fermiamo proprio laddove possiamo eccellere: l’Italia, secondo paese manifatturiero d’Europa, è fortissima nelle tecnologie abilitanti dell’industria 4.0 seppur debole nella loro integrazione perché, come al solito, siamo poco capaci di fare sistema. Qui bisogna investire! Non può essere il reddito di cittadinanza a produrre il boom economico, questo lo può fare solo il lavoro. E la consapevolezza del sindacato unito è un fatto di realismo e di speranza, in netta controtendenza al populismo fuori controllo della politica.

A questo punto, che tipo di sviluppi prevede?
Vedo difficile che il governo possa ignorare quello che è successo ieri. Credo che il Presidente Conte e Di Maio, in quanto SuperMinistro dello sviluppo economico e del lavoro, valuteranno di aprire un tavolo di confronto con le Parti sociali. La cosa più interessante di tutto, però, è che il sindacato ha scelto una strada per nulla scontata, quella di spiegare a lavoratori e pensionati perché reddito di cittadinanza e quota 100 non vanno bene. Questo mi sembra un interessante segnale di coraggio e di vitalità: l’Italia può ripartire soltanto se iniziamo a dirci come stanno le cose.