Il futuro del welfare tra salario minimo e orario ridotto. Intervista a Giuseppe Sabella

Catena di montaggio (GettyImages)

La proposta, avanzata in questi giorni, dell’orario di lavoro ridotto non presenta nessuna novità. Come noto, “Lavorare meno per lavorare tutti” è stata un’idea che ha attraversato il sindacato già negli anni Settanta. Nell’84 fu poi Ezio Tarantelli, l’economista della Cisl ucciso in un vile attentato dalle BR, a presentare un’ipotesi articolata; ma ciò sarebbe avvenuto a parità di salario orario, non mensile. Di questo parliamo, in questa  intervista, con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Sabella, che senso ha oggi parlare di riduzione dell’orario di lavoro?

La trasformazione del lavoro negli anni di Industry 4.0 – ovvero dell’applicazione della forma più sofisticata di intelligenza artificiale ai sistemi produttivi – sta generando un impatto molto forte non solo sulle competenze delle persone ma anche sull’organizzazione del lavoro. Considerando che le rivoluzioni industriali storicamente assolvono al compito di alleggerire la fatica di chi lavora, ciò va oggi nella direzione di una crescente conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Ma non sono sicuro che sia questo lo spirito di chi si propone di ridurre l’orario…

La proposta arriva dal Prof. Tridico, Presidente Inps e uomo vicino al Ministro del Welfare Luigi Di Maio. Cosa le fa pensare che lo spirito non sia quello che lei dice?

Perché il Prof. Tridico, e non solo lui, ha più volte insistito sulla necessità di distribuire il lavoro. Non sto qui dicendo che includere più persone nel lavoro non sia importante, ma non credo sia questa la strada: bisognerebbe piuttosto occuparsi di sviluppo economico, cosa che misteriosamente il governo ha deciso di non fare. E soprattutto, oggi come oggi, se fosse la legge a ridurre l’orario di lavoro, il sistema andrebbe in seria difficoltà.

Anche perché il panorama dei lavoro e dei comparti è piuttosto variegato. Come si può pensare di intervenire in modo così uniforme?

Il presupposto delle differenze a cui lei allude è ciò che viene violato ogni qual volta il governo di turno interviene con la sua riforma per smentire quello che ha fatto il governo precedente; al di là del fatto che, naturalmente, vi sono riforme del lavoro migliori di altre. A parte la differenza che vi è nelle varie macroregioni d’Italia a livello di mercati del lavoro, è ovvio per esempio che il lavoro pubblico, quello privato, l’industria piuttosto che il commercio presentano delle loro peculiarità. Che solo la contrattazione collettiva può accogliere a valorizzare al meglio.

Ha ragione, quindi, il Segretario Generale Fim-Cisl Marco Bentivogli quando dice che la riduzione dell’orario si può fare solo per via contrattuale?

Bentivogli nella sostanza ha ragione: orario e organizzazione del lavoro sono ambiti molto sensibili alle caratteristiche dei settori; e, non a caso, il monte ore settimanale è già di per sé diversificato a seconda dei comparti. D’altro canto, soprattutto la contrattazione aziendale offre la possibilità di disegnare al meglio quel perimetro regolatorio che più facilmente di un intervento legislativo può rispondere alle esigenze specifiche delle imprese e diventare patrimonio condiviso. Resto tuttavia convinto che si debba fare di più, per questo penso che il Prof. Tridico ha sollevato un tema importante. In sintesi: la riduzione dell’orario deve diventare elemento di peso nello scambio tra lavoro e impresa ma il ruolo del governo potrebbe rivelarsi rilevante in un disegno condiviso con le Parti.

Più nello specifico, a cosa si riferisce?

Oggi lo scambio salario-lavoro fa fatica a crescere: non solo per via di una tassazione sempre più invasiva – si veda in proposito il recente rapporto “Taxing Wages” dell’Ocse, cuneo fiscale Italia 47,9% – ma anche perché non riusciamo a far lievitare la produttività (e quindi la ricchezza) in un quadro economico, quello europeo, sempre più vicino alla recessione. Ora, come già avviene da tempo, ciò che può rivitalizzare lo scambio – e la produttività stessa – è proprio il welfare. E vi sono molti modi di fare welfare: dai cosiddetti flexible benefit, alla formazione, alle misure previste per l’assistenza e la previdenza complementare, a tutto ciò che in azienda costituisce valore per lavoratrici e lavoratori. Il “tempo” è forse il bene più prezioso e più potente che può entrare nello scambio sotto forma di welfare. È qualcosa che già avviene in molte imprese, dove la conciliazione vita-lavoro è una priorità. E non c’è dubbio che un lavoratore più “contento” è una risorsa che produce meglio. Ma non dimentichiamoci del ruolo determinante giocato in questo senso dalla fiscalità: ecco perché governo e Parti sociali hanno la possibilità di scrivere insieme il futuro del nuovo welfare.

Giovanni Paolo II, che fu molto attento alla dottrina sociale, vedeva un punto fermo nella conciliazione dei tempi di vita e di lavoro…

Già all’inizio del suo mandato, con la Laborem exercens (1991), Giovanni Paolo II parlava delle trasformazioni a cui sarebbe andato incontro il lavoro con l’avvento della tecnologia e della necessità di arginare l’impatto del lavoro sulla vita delle persone, sia per la donna – per non penalizzarla nel lavoro in ragione del suo “ruolo insostituibile di madre” – sia per l’uomo. Del resto, parafrasando la sacra scrittura, come l’uomo non esiste per il sabato, così l’uomo non esiste solo per il lavoro. La corsa al consumo ha violato questo principio, ma quella corsa sfrenata è oggettivamente finita. Oggi è il momento giusto per ristabilire un equilibrio.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *