SABELLA: “IL “CODICE CONTRATTI” E’ UN PRIMO PASSO PER AFFRONTARE SERIAMENTE LA QUESTIONE SALARIALE”

In questi giorni, è stato annunciato in Aula al Senato un disegno di legge del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro per la creazione di un “codice unico dei contratti collettivi nazionali di lavoro” da realizzare in collaborazione con Inps. Il ddl, presentato ai sensi dell’art. 99 della Costituzione e approvato dall’Assemblea del Cnel nella seduta del 27 marzo 2019, definisce il codice unico di identificazione dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro nazionali depositati e archiviati, attribuendo una sequenza alfanumerica a ciascun contratto o accordo collettivo. Di questo parliamo, in questa intervista, con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Sabella, perché questa proposta di legge?

Si tratta di un’iniziativa molto importante che spero inizi un serio iter legislativo perché potrebbe risolvere molti problemi che si sono aperti in particolare nel 2013, anno in cui ha avuto origine il fenomeno della proliferazione dei contratti collettivi, che oggi è fuori controllo ed è la causa prima del dumping salariale. Portare ordine tra i contratti significa portare ordine nella questione salariale. Inoltre, il fatto che tale proposta giunga in Parlamento via Cnel è un fatto molto positivo: significa che c’è già un lavoro a monte delle Parti sociali, insomma una sorta di avviso comune che il decisore politico dovrebbe limitarsi a recepire. Anche perché, non credo che in questo momento ci sia qualcuno che, meglio del Prof. Tiziano Treu (Presidente del Cnel, ndr), possa definire una norma come questa.

Quando fa cenno al 2013, a cosa si riferisce in particolare?

Mi riferisco, in particolare, alla sentenza della Consulta sul caso Fiat: incredibilmente, un contenzioso di lavoro è finito al più alto livello di giudizio, in Corte Costituzionale. E due sono i punti di arrivo e, allo stesso tempo, di partenza: in primo luogo, è legittimo contrattare al di fuori del perimetro tradizionale della contrattazione collettiva purché si rispettino le leggi dello stato; in secondo luogo, avendo la Corte dichiarato incostituzionale l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori e invitato le Parti a definire nuovi criteri di rappresentatività, si apre questo vuoto legislativo (tuttora aperto) e qualcuno ne approfitta. Ecco che i contratti collettivi nel giro di pochi anni triplicano (si passa da 300 a 900 contratti depositati al Cnel); e la metà dei quali presenta minimi retributivi inferiori del 30% a quelli firmati da Cgil, Cisl e Uil.

Perché, come lei dice, portare ordine tra i contratti significa portare ordine nella questione salariale?

Perché l’obiettivo ultimo del codice è quello di fare in modo che siano applicati i contratti più rappresentativi che sono, anche, quelli che offrono maggiori protezioni sociali. Può certamente esistere una sana competizione tra contratti ma non al ribasso per i lavoratori. È inoltre chiaro che l’origine di quelle rappresentanze che si prestano a firmare contratti di questo tipo è molto ambigua.

In che modo Cnel e Inps agiranno in ragione di questo disegno di legge e del suo codice dei contratti?

I contratti collettivi saranno classificati sulla base di una sequenza alfanumerica e ciascun accordo avrà un codice identificante. L’Inps inserirà il codice dei contratti nella disciplina relativa alla compilazione digitale dei flussi delle denunce retributive e contributive individuali mensili, con relativo obbligo del datore di lavoro di indicare per ciascuna posizione professionale il codice Ccnl riferibile al contratto o accordo collettivo applicato. A quel punto sarà chiaro a quanti lavoratori si applica ciascun contratto. E, il passo successivo, sarà quello di dire che sotto una certa soglia di rappresentatività i contratti non sono validi. Perché, per esempio, deve valere un contratto collettivo applicato a 52 lavoratori con una retribuzione inferiore del 30% rispetto a quella di un contratto collettivo che ne rappresenta 200.000? È questo un primo passo per contrastare il dumping salariale.

E a quel punto sarà ancora necessaria la legge sul salario minimo?

La contrattazione collettiva copre quasi il 90% dei rapporti di lavoro. Non ha nessun senso entrare a gamba tesa laddove il lavoro è disciplinato dai contratti nazionali. Può essere utile, invece, stabilire un minimo legale per chi dalla contrattazione collettiva non è coperto. Anche se, secondo me, la cosa più sensata è di avvicinare il finto lavoro autonomo al lavoro dipendente, come è avvenuto col caso Foodora. Il lavoro davvero autonomo non ha certamente bisogno di salario minimo.

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