“Il PD non è pronto per essere l’alternativa”. Intervista a Marianna Aprile

Funziona la strategia di Zingaretti? Calenda quale partita gioca?

Queste e altre domande, sul Partito Democratico, abbiamo posto, in questa intervista, a Marianna Aprile, cronista politica del settimanale “OGGI”.

Marianna Aprile, il PD alle Europee, e anche alle amministrative, ha fatto un risultato dignitoso. Come possono essere giudicati questi segnali di ripresa?

«Credo sia avventato leggere i recenti risultati elettorali del Pd come veri segnali di ripresa. Lo sarebbero se fossero stati frutto di una strategia e di una visione che al momento nel Pd non mi sembrano ancora emergere con chiarezza. Tantomeno con unità d’intenti, considerato il rinfocolarsi delle crepe interne al partito. Che quello delle Europee sia stato un motivo di gaudio effimero lo dimostrano in fondo proprio gli esiti delle amministrative, dove il Pd ha perso città da sempre amministrate, oggi in mano al centrodestra. Per avere un quadro della situazione basta cercare di rispondersi, con onestà, a una domanda: quanto del rivendicato successo di Livorno, con la riconquista del comune dopo il quinquennio pentastellato di Nogarin, è merito del Pd e quanto è invece il frutto del malcontento per la precedente amministrazione? Che poi significa chiedersi se il Pd sia stato in grado di proporsi come alternativa credibile o se non abbia semplicemente incarnato il male minore. Non mi pare che il Pd si stia facendo questa né (molte) altre domande».

A Bologna, durante la festa di “Repubblica”, Zingaretti ha riaffermato che il PD è l’alternativa alla Lega (o più in generale al sovranismo). Vuole essere un partito inclusivo, che parte dalle periferie. Eppure nella “pubblica opinione” si dice spesso che manca una “contro narrazione” al salvinismo… Ovvero c’è un problema di identità. È così? Quali potrebbero essere i punti, oltre ad un approccio umano alla immigrazione, identificativi della contro narrazione? 

«Se davvero vuole sostenere una vocazione maggioritaria credibile, il Pd non deve chiedersi cosa vuole essere in relazione al sovranismo o a Salvini, ma cosa vuol essere. Punto. Cosa vuole diventare da grande. Pensare di costruire un contro-narrazione al salvinismo significa ammettere di non riuscire a uscire dal campo in cui Salvini ha inchiodato il discorso pubblico e l’agenda politica. Che è un campo figlio di una visione distorta e propagandistica della realtà, in cui gli immigrati sono una minaccia, nessuna integrazione è percorribile, la difesa “è sempre legittima” e via salvinando. Per essere inclusivi, per aprire agli altri, bisogna sapere chi si è. E credo che il Pd, con le sue molte anime e i suoi molti malanimi interni, non sia in grado oggi di rispondere a questa domanda. Nessuna identità credibile (e quindi nessun allargamento a sinistra o al centro o su Marte) può essere costruita se non a partire dalle risposte ad alcune domande. Di cosa parliamo quando parliamo di Pd? Per esempio: il Pd di Zingaretti è davvero disposto a difendere le politiche di Marco Minniti sull’immigrazione? Davvero non c’è nulla di sbagliato nel jobs act, neanche l’abolizione dell’articolo 18, cioè di una tutela, in nome di una flessibilità incompatibile con l’immobilismo del nostro mercato del lavoro? Lo ius culturae è ancora una priorità o è un altro di quegli argomenti che si tirano fuori quando si vuol solleticare o sollecitare l’elettorato deluso più a sinistra? Si vuole davvero lasciare alla pantomina ambientalista dei Cinquestelle un tema, l’ecologia, che dovrebbe essere il perno attorno al quale si può legittimamente (e concretamente) costruire un’idea alternativa di paese?».   

Quanto pesa ancora il renzismo nel PD?

«In barba agli annunci secondo cui si sarebbe comportato da “senatore semplice” e avrebbe fatto il bene del partito, le uscite di Renzi contro Letta e Speranza – solo per citare le ultime, a RepIdee a Bologna – e le sue “riletture creative” della stagione di cui è stato protagonista (e, direbbe erroneamente lui, vittima) dimostrano che il renzismo nel Pd è ancora un tema enorme e ineludibile, se si vuole rilanciare davvero il partito. In parte, è un atteggiamento anche giustificato, visto che la rappresentanza parlamentare del Pd è ancora a trazione renziana, diciamo così. Ma alla luce del fatto che Renzi e i suoi si comportano come un organismo a se stante che non perde occasione per rimestare antichi livori (talvolta con esiti e stravolgimenti al limite del grottesco) ha davvero senso accettare di rimanere inchiodati a quella fase? Lasciarsi logorare dall’interno e magari poi assistere alla creazione di un partito di Renzi fuori da un Pd ormai in macerie?».

Gli anni di Renzi, anni spregiudicati della cosiddetta “rottamazione”, spesso, nell’ultima fase sono stati anni di un “garantismo largo”. Ecco non sarebbe il caso per Zingaretti, alla luce degli ultimi avvenimenti che investono il CSM, un certo rigorismo? Come giudichi la posizione del PD su questa vicenda?

«Per ribaltare un modo di dire, sul Caso Csm Zingaretti (e il Pd) hanno perso una buona occasione per parlare. L’ennesima. Quali che saranno gli esiti giudiziari della vicenda Lotti-Palamara, su cui è legittimo avere un approccio garantista, ci sono dati politici evidenti che non possono essere trascurati in generale, ma ancor di più se si millanta di essere in una fase ri-costituente del partito e delle proprie coordinate. Davvero il Pd non ha nulla da dire su quanto stiamo leggendo sull’ex sottosegretario Lotti? Sul presunto nesso tra l’abbassamento dell’età della pensione dei magistrati e la successione di Giuseppe Pignatone a capo della Procura della Repubblica di Roma? Non è una questione di garantismo o rigorismo. È una questione politica. E, fatto non secondario, una questione di comunicazione: sono giorni che si scrive di questi rapporti opachi tra Lotti, Palamara e altri e il silenzio del Pd ha il solo effetto di avallare anche le letture più maliziose e strumentali dei fatti. I motivi del silenzio possono essere due: o si tace perché si pensa che quelle accuse siano fondate, o si tace perché si pensa che qualsiasi cosa si dica possa diventare un’arma nelle imperiture guerre intestine del Pd. In entrambi i casi, si tratta di un silenzio che indebolisce e mortifica ogni intento riformatore del partito».

Veniamo alle prospettive politiche. Zingaretti vuole costruire un centrosinistra largo. C’è un modello vincente, voglio dire convincente, è il modello “Milano”. Però sappiamo che Milano, in molte cose, è distante dal resto di Italia. Sala e Calenda possono essere le sintesi di questo centrosinistra largo?

«Milano è un’eccellenza e può sicuramente essere guardata come un successo. Ma sarebbe miope pensare di “esportare” il cosiddetto Modello Milano. Non solo perché anche in quello di zone d’ombra ce ne sono e ce ne sono state molte, ma perché semplicemente – come notavi – l’Italia non è Milano. Per una serie di ormai pluridecennali congiunture storiche, economiche, sociali, chi vive lì non rappresenta la media nazionale. Non dico siano migliori o peggiori del resto d’Italia. Dico che funzionano oggettivamente in modo diverso. E un partito che voglia allargare il proprio consenso e il proprio campo di appartenenza non può pensare di avere come interlocutori 60 milioni di milanesi, perché non esistono. Esistono le province con i loro problemi, esistono le periferie delle grandi città (anche di Milano), esistono le isole. Detto questo, difficile dire se Sala e Calenda possano davvero incarnare una sintesi del centrosinistra allargato, né in che termini e con quali ruoli, perché nessuno dei due ha ancora ben chiarito le proprie reali intenzioni e ambizioni. E in assenza di chiarezza dei diretti interessati, considerate a fluidità della scena politica italiana e la rapidità con cui cambiano gli scenari, fare previsioni rischia di essere un esercizio di stile destinato alla smentita».

Se è “largo”, il Centrosinistra, deve parlare anche a Maurizio Landini (che in questo periodo si è fatto più pragmatico) e a Fratoianni. È facile?

«Il Pd dovrebbe chiedersi se Landini e Fratoianni vogliano o no parlare con lui, piuttosto. No, non è facile. Per i motivi e gli scivoloni di cui sopra. Non è facile ma non è impossibile. Temo però ci vorrà tempo, la ricostruzione di una identità (e la conseguente definizione di un progetto credibile) è un processo necessariamente lento».

Parliamo per un attimo di Calenda. È sicuramente un talento politico. Il punto qual è: Lui, iscritto al PD, vuole costruire un “soggetto” moderato alleato del PD. Francamente non mi è chiara l’alchimia…..

«Calenda giura di aver già accantonato quell’idea e, al contrario di quanto è prudente fare quando Renzi giura di aver fatto altrettanto con l’idea di un suo partito, a Calenda c’è da credergli. Ma il punto con l’ex titolare del Mise semmai è un altro: che senso ha fare annunci (ricordi la famosa cena proposta ai “leader” via Twitter e subito naufragata?) senza aver prima sondato animi e anime o, ancora meglio, contato voti? Continua a muoversi mostrando e celando ambizioni da leader, sottovalutando il suo vero atout: la competenza. È merce rara in questo periodo, lui ce l’ha ma sembra essere il primo a non darle valore, cercando fughe in avanti che puntualmente si dimostrano lontane dalle sue vere corde».

Ultima domanda: meglio per Zingaretti elezioni politiche ravvicinate o in primavera? 

«Ripeto, la ricostruzione del Pd è un processo che richiederà molto tempo. Più lontana sarà la prossima scadenza elettorale, quindi, più probabilità avrà il Pd di arrivare un minimo preparato all’appuntamento con gli elettori. Sempre che nel frattempo ricominci ad andare sui territori a cercare di riconquistarli davvero, gli elettori».

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