“Il Cardinale Martini è stato un grande maestro perché sapeva ascoltare”. Intervista ad Alberto Guasco

E’ appena uscito nelle librerie, un saggio dello storico Alberto Guasco: Martini. Gli anni della formazione (1927-1962), (Il Mulino, 2019), un testo importante per conoscere le “radici” del pensiero e dell’azione del grande Arcivescovo di Milano. Il libro  verrà presentato, oggi pomeriggio a Roma, presso la sede di Civiltà Cattolica (via di Porta Pinciana, 1) con una tavola rotonda sul tema: “Carlo Maria Martini. Formazione ed eredità”. Interverranno : Gian Maria Flick, presidente emerito della Corte terv,costituzionale. P. GianPaolo Salvini S.I., direttore emerito de La Civiltà Cattolica. P. Carlo Casalone S.I., presidente della Fondazione Martini, p .Francesco Occhetta S.I., scrittore de La Civiltà Cattolica. Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore del libro.

Alberto Guasco, il tuo libro è un documentatissimo saggio (ricchissimo di note e fonti inedite) sulla storia della formazione di Carlo Maria Martini. Alla fine della lettura esce fuori un “ritratto” di un uomo, che per qualità umane, spirituali e intellettuali, era “predestinato” ad essere un testimone importante della Chiesa contemporanea. Ho esagerato? 

Un pochino sì. Capisco il senso della domanda, ma a me è sempre parso difficile, a ogni livello, parlare di “predestinazione”. Certo, è indubbio, ciascuno di noi possiede talenti particolari, attitudini che a un dato momento si mostrano con più o meno evidenza.

Non è detto però che giungano a maturazione. Possono anche sfiorire. Perché non accada occorrono maestri in grado di intravederle e di farle crescere: Martini ne ha avuti molti, nominati nel libro. Ma occorre anche la disponibilità a mettersi alla loro scuola, e questa non poteva che mettercela il futuro arcivescovo. Ecco qui le radici, l’impasto di quell'”edificio umano” che è stato Martini.

Mi viene da fare , anche un’altra osservazione : senza la compagnia non ci sarebbe stato Carlo Maria Martini. Voglio con questo sottolineare il fatto che la compagnia, con il suo rigore spirituale e intellettuale, ha permesso a Martini di sviluppare la sua vocazione. Nel libro è ben evidenziato l’attenzione, particolare e severa, dei superiori nei confronti del giovane Carlo Maria… È così?

Nell’ottica di prima, è esattamente così. È la Compagnia, nella persona del padre Carlo Brignone, che a 9-10 anni, gli fa la proposta vocazionale. Sono i padri dell’Istituto Sociale, che fino a 17 anni gli “provano lo spirito” per verificare che quell’ embrione di vocazione sia autentico. È la Compagnia che lo forma, che si accorge delle sue capacità e dunque gli fa saltare tre anni di formazione, tanto che nel 1952, dopo sette anni da gesuita, è già prete. Ed è sempre la Compagnia, pur tra qualche contraddizione, che lo destina agli studi  biblici a Roma. Martini è “il prodotto” della Compagnia in transizione tra Vaticano I e Vaticano II e non potrebbe che essere così.

Il libro colloca, il nostro protagonista, nelle temperie del ‘900. La guerra e il fascismo. L’Istituto Sociale, scuola dell’ alta borghesia torinese, grazie anche ai suoi professori, la educato ad essere diffidente del fascismo. È così?

Direi che è anche così. Da cardinale, Martini avrebbe ricordato il fascismo come “una grande pagliacciata, fatta di molti discorsi roboanti privi di sostanza”.

Credo che quel giudizio sia maturato nel giovane Martini a partire da diversi fattori. La passione politica di suo padre Leonardo, uomo di sentimenti liberali. L’esperienza diretta della guerra come svelamento del fascismo come menzogna. La scuola di libertà propostagli da alcuni professori di liceo. L’ancoraggio, nel crollo di tutti i poteri, alla “roccia che non crolla” della fede. Tutto ciò dentro una realtà scolastica, quella del Sociale, tendenzialmente afascista, ma pure immersa nel mare della cultura concordataria di quel tempo.

 

Guardiamo alla spiritualità che ne plasma la personalità. In questo non si può non parlare del noviziato. Da lui definito come un periodo di “formazione austerissima e liberante”. Austerissima è facile da immaginare ma, mi permetto di fare una piccola provocazione, liberante un po’ meno. In che senso lo è stata?

Sì, è un punto difficile da capire, tanto più per chi vive in una cultura come la nostra.

Riferendosi al noviziato cuneese del 1944-1946, noviziato in tempo di guerra in cui o si mangiano rane e lumache o si fa la fame, è proprio “l’austerità” la via per la libertà interiore. Il noviziato, dice Martini, è una scuola “da cui si esce avendo messo sotto i piedi ogni pretesa d’indipendenza e ogni residuo d’orgoglio”.

È il paradosso del Vangelo, in cui l’obbedienza è via di libertà. Altrimenti, parafrasando Bonhoeffer,  è solo arbitrio.

Sappiamo quanto nella formazione di un gesuita sia importante la filosofia. E sappiamo quanto era duro il percorso dell’istituto di Gallarate. I suoi professori ne parlano come di giovane dotato di mente “filosofica”. Eppure lui, uomo della Parola rigorosa, non ne ha un buon ricordo. Perché?

In realtà dobbiamo distinguere due gradi di giudizio, quello formulato  dal Martini studente in filosofia, negli anni 1946-1949, e quello formulato dal Martini già anziano, che rimedita sulla sua formazione filosofica d un tempo.

Negli anni Quaranta, negli istituti di formazione la filosofia è Tommaso. Punto. Scrivendo a casa nel 1947, il giovane Carlo Maria mostra di apprezzare il sistema del dottore angelico, perché capace di dare una “comprensione sempre più chiara di tutta la realtà”. Non è che stia mentendo, probabilmente a quei tempi lo pensa davvero. Ma quel tipo di filosofia, quel clima di rinascita neotomista, non è ciò di cui è in cerca. E che trova più in là, mettendo insieme Bibbia ed Esercizi spirituali.

Poi c’è il Martini anziano, che nel 2006 – con tutto quel che c è stato in mezzo – ripensando a quel vecchio approccio filosofico non può che riconoscervi limiti fortissimi.

Fino a definire quegli anni “una perdita di tempo ben organizzata”.

La seconda metà degli anni cinquanta e primi anni sessanta sono gli anni della svolta per Martini e lo sono anche per la Chiesa cattolica (il Concilio Vaticano II). Martini diventa sempre più “uomo della Parola”, è professore al Biblico a Roma. Qual è il contributo al rinnovamento degli studi biblici?

Entriamo di nuovo nel campo del ruolo svolto dalla Compagnia, specie dal Pontificio Istituto Biblico di Roma, al grande rinnovamento degli studi biblici, rinnovamento che contribuisce a preparare il Vaticano II e che trova entro il Vaticano II – dopo scontri furiosissimi – definitiva legittimazione.

Martini è immerso in questa corrente, formandosi (a Chieri) alla scuola di un grande protagonista del rinnovamento biblico come Silverio Zedda e (a Roma) a quella di maestri come Lyonnet, Zerwich, Vaccari e Bea.

È proprio il cardinal Bea a  preparare il terreno ideale per la crescita di nuove generazioni di biblisti come Vanhoye, De La Potterie e Martini.

Il quale giunge a Roma nel 1962 formatosi alla scuola del Biblico, aperto dell’esegesi protestante dei Cullmann e degli Aland e pronto a sfornare, nel 1966, la tesi di dottorato e a diventare, nel 1969, rettore del Biblico. Veste in cui rivitalizza anche la sede gerosolimitana del Biblico stesso.

Con la nomina a Rettore dell’istituto Biblico si compie la maturità di Martini. Da lì in poi sarà un crescendo di responsabilità. Se tu dovessi sintetizzare il dato costante del suo percorso vita , alla luce delle tue ricerche, qual è?

Lo dico con le parole di Silvano Fausti, ultimo padre spirituale di Martini: il cardinale era un grande maestro che sapeva ascoltare, anzi, era un grande maestro perché  sapeva ascoltare. In tutto il volume, lo si sente più ascoltare che parlare. Ma è in quell’ascolto, sempre concreto e mai disincarnato, che si sente crescere l’uomo della parola, della parola di senso, del potere della parola con la P maiuscola. Che è tutto il contrario della parola del potere.