ECCO COME NASCE L’ODIO ON LINE. INTERVISTA A STEFANO PASTA

Drammatici fatti di cronaca, anche di questi giorni, scatenano spesso, per non dire sempre, vere e proprie tempeste di odio razziale (nei confronti degli immigrati oppure dei rom), per non dire, poi, di quelle contro la comunità LGBT. Ma come nasce l’odio on line? Ne parliamo, in questa intervista, con Stefano Pasta. Pasta, giornalista professionista, è ricercatore al Centro di Ricerca sull’Educazione ai media dell’Informazione e alla Tecnologia (CREMIT – www.cremit.it) dell’Università Cattolica, diretto da Pier Cesare Rivoltella (che firma la prefazione) ed è autore del libro: Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online, Scholé-Morcelliana, 2018. Prefazione di Pier Cesare Rivoltella – Postfazione di Milena Santerini

Stefano Pasta, il tuo libro è una documentatissima ricerca sui “nuovi” razzismi 2.0. L’ambiente digitale fa assumere al fenomeno caratteristiche specifiche. Quali sono?

Il titolo, Razzismi 2.0, è al plurale: le manifestazioni e le intenzionalità di chi agisce l’odio sono diverse. Durante la ricerca raccontata nel libro, ho chattato con ragazzi con un’adesione ideologica strutturata  e con altri – molti di più – che ripetevano “mi stai prendendo troppo sul serio”, “ho fatto solo una battuta”. Ma la posta in gioco è seria: sono giovani che inneggiano alla Shoah, invocano le bottiglie incendiarie contro il centro profughi vicino a casa, insultano il tifoso della squadra avversaria commentano usando “ebreo” come parolaccia, minacciano di stuprare una coetanea che non la pensa come loro. Nel testo propongo una classificazione delle diverse forme di razzismo: a ciascuna corrispondono risposte educative differenti.

Rispetto alla novità introdotta dal Web 2.0, quello segnato dai social network, direi che alcune manifestazioni sono nuove, ma i meccanismi dell’odio e dell’elezione a bersaglio sono spesso quelli classici. Nel primo capitolo provo ad accostare ai casi di razzismo online (reperite su pagine calcistiche, in conversazioni sui social, come commenti a notizie sulla società multiculturale) alle interpretazioni storiche del razzismo. Nel secondo e terzo capitolo, invece, ragiono sulla novità, ossia su quelle caratteristiche del digitale che facilitano la propagazione dell’odio.

Ne accenno alcune: i meme, vignette o immagini stereotipate che vengono riprodotte con leggere variazioni e divengono facilmente virali; la velocità 2.0, specialmente nei social network, dove, anche per rispondere al sovraccarico di informazioni (lo scorrere delle condivisioni su Facebook o Instagram), la nostra mente aumenta le decisioni prese seguendo il sistema 1 (veloce e intuitivo) rispetto al sistema 2 (lento e riflessivo). Tutti noi ci pensiamo più razionali di quello che siamo anche offline, ma online diversi esperimenti ci dicono che aumenta l’influenza del sistema 1. Poi la banalizzazione (talvolta con l’ironia) di ideologie e fatti storici, come il nazifascismo; l’emergere di nuovi canoni di autorialità culturali (non più la casa editrice, la rete televisiva, o il quotidiano cartaceo, ma la visibilità in Rete e le condivisioni sui social), che chiamano in causa la necessità di educare all’informazione di fronte alle fake-news e alla post-verità; l’anonimato, una retorica che serve a giustificare un atteggiamento disimpegnato, seppur sia in realtà difficilissimo agire veramente da anonimi nel Web e soprattutto sia l’idea opposta al “tracciare ed essere tracciati” su cui si basano i social network. Ancora: l’effetto alone e la spirale del silenzio: fenomeni già noti nell’offline ma che in Rete aumentano di importanza e che sottolineano come, di fronte a opinioni che percepiamo minoritarie (per esempio quando i commenti per la morte di un bambino si trasformano in cori di gioia perché rom), è difficile uscire dai ranghi ed esprimere opinioni ritenute impopolari; l’analfabetismo emotivo e il flaming: nel momento in cui l’interazione mediata sostituisce la fisicità del corpo, attiviamo meno meccanismi di simulazione corporea (neuroni specchio), perdendo così la capacità di riconoscere ciò che provano gli altri, vivendo emozioni forti ma disincarnate.

L’odio e il razzismo on line sono più pericolosi rispetto a quelli del passato?

Siamo di fronte a una svolta particolarmente allarmante: il razzismo e il linguaggio di odio non sono mai scomparsi, ma ora li abbiamo normalizzati, resi accettabili socialmente. Una tesi che sostengo nel libro è “il ritorno della razza”. Un’immagine simbolo della mia ricerca è una donna africana paragonata alla scimmia, magari facendo una battuta. Si tratta dell’emblema del razzismo classico, che forse pensavamo scomparso, seppur oggi appare svuotato di credibilità e su basi diverse dal suo significato storico. È un grande cambiamento: la prima parte del Novecento era segnata dall’istanza biologica, la superiorità dei bianchi sui neri; 80 anni fa, le Leggi Razziste fasciste furono accompagnate da testi accademici che sostenevano il razzismo su basi (pseudo)scientifiche. Nel Secondo Novecento, acquista importanza la logica culturalista o differenzialista (i valori di quell’etnia, o di quella religione, sono troppo diversi dai nostri per vivere insieme) e i razzismi impliciti o latenti.

Oggi emerge una novità: online diventa molto più labile la separazione tra razzismi espliciti e latenti, superata tra link, “mi piace”, meme e immagini, evocazioni e condivisioni. Con il linguaggio violento sono caduti alcuni tabù (parole e pensieri che, insieme, avevamo deciso che fossero “indicibili”). La banalizzazione e la deresponsabilizzazione nel Web hanno reso possibile quel processo di accettazione sociale che, ad esempio, ci porta a non essere più scandalizzati dell’associazione tra uomo nero e banana, magari richiamandosi a quella pretesa di “non essere preso sul serio” che i ragazzi mi hanno ripetuto nelle conversazioni sui social.

Nella rete, quindi, quale tipo razzismo è più diffuso: quello tribale o quello di “circostanza”, oppure ideologico? Che caratteristiche hanno?

Nel testo propongo una categorizzazione per analizzare le forme di odio, ma qui vorrei evidenziare un elemento che è abbastanza trasversale. Lo dico citando un giovanissimo, uno dei ragazzi con cui ho chattato per mesi, chiedendo come mai avessero partecipato a performances di razzismo 2.0: «Mi stai prendendo troppo sul serio: era solo una battuta». È questa la risposta più comune che ho ricevuto. La pretesa di non essere presi sul serio, perché il fatto è avvenuto online. Intanto invocavano “zio Adolf” o lo sterminio dei musulmani, partecipando a quel processo di normalizzazione dell’odio o di banalizzazione della Storia di cui abbiamo parlato. Da un punto di vista educativo va contrastata dunque l’idea che nel Web ci si possa comportare in modo deresponsabilizzato, meno attento e più superficiale. In questo clima di odio normalizzato, si inseriscono – in modo studiato – persone che propongono l’adesione a gruppi razzisti. Come il caso dei Banglatour a Roma ha mostrato (spedizioni punitive con botte fisiche contro i bengalesi di alcuni quartieri organizzate inizialmente nei social e poi sostenute dall’estrema destra), dall’online si passa all’offline e i gruppi “spontanei” vengono infiltrati da agitatori organizzati.

In questi ultimi tempi la politica è diventata un agente moltiplicatore di diffusione del razzismo. Quanto è grande la responsabilità della politica in questo? 

Settimana scorsa sono stato a Auschwitz, l’apice del Male della nostra storia. Quando studiamo i fatti storici del passato, dobbiamo leggere i meccanismi e i processi: i camini dei forni crematori divengono possibili perché le ideologie di odio riescono a toccare tasti a cui la gente era sensibile, blandivano interessi reali e diffusi. La cosa che più impressiona è come siano riusciti a trovare consenso anche sui comportamenti più atroci e disumani dei regimi nazifascisti. Mentre l’odio penetra nel discorso pubblico, ci si inibisce e si perde capacità di reagire. Vince quella parola – indifferenza – che Liliana Segre ha voluto a caratteri cubitali all’ingresso del Memoriale della Shoah. Auschwitz è un monito a dove possono arrivare razzismo e odio.

E anche di come, nella storia, quando la politica diviene agente di diffusione del razzismo e di odio, l’esito è drammatico. Dovremmo ricordarcelo quando vediamo l’odio sessista aizzato da chi governa contro Carola “colpevole” di aver salvato vite umane, quando le mamme adottive dicono di aver paura se i figli adottivi di pelle nera salgono sull’autobus da soli, quando episodi di razzismo e antisemitismo sono cronaca quotidiana.

Come nasce un hater?

È vero che decisori politici e operatori dei media hanno una responsabilità particolare, poiché possono orientare e aizzare l’odio, ma l’hater che agisce nel Web è anche ciascuno di noi che, poiché si agisce online, si sente autorizzato a rompere quei tabù che regolano il vivere civile. Gli studi sull’odio online ci dicono che gli hater sono estremamente trasversali rispetto a grado di istruzione, età, provenienza sociale etc: erano le varianti classiche che, negli studi sui razzismi, facevano aumentare le tendenze di odio. Nel Web è tutto più trasversale. Se invece pensiamo agli hater più strutturati, sempre più emerge come alcuni gruppi – con legami con partiti politici, con reti e soldi transnazionali – si organizzino per promuovere l’odio online ai fini del consenso.

Dobbiamo però evitare un rischio: considerare tutti hater “nati” e incalliti. Nel libro racconto che ho chattato con ragazzi che avevano partecipato a performances razziste in modo diverso, producendole in prima persona, condividendo una barzelletta antisemita o cliccando “like” a un post islamofobo. I ragazzi stavano tanto tempo a parlare – senza un motivo particolare – con uno sconosciuto che gli faceva domande strane sul loro comportamento nel Web. C’è dunque spazio educativo, non c’è il rifiuto dell’adulto e questo è un primo segnale di speranza. Ho provato a suscitare empatia, spingendo a mettersi nei panni degli altri: di fronte alla frase islamofoba, raccontavo che la mia compagna di studi avrebbe provato dolore e che il nonno del mio amico ebreo avrebbe sofferto di fronte alla barzelletta sulla Shoah. Gli esiti sono stati diversi: talvolta, senza che glielo chiedessi, i ragazzi hanno cancellato il post razzista, vecchio di molti mesi, un’operazione che nei social network è noiosa e richiede tempo. Anche chi non ha cancellato la performance, la prossima volta, si ricorderà di quella strana conversazione e rifletterà un secondo in più, agendo meno “preso dall’enfasi” (come mi hanno detto in diversi) anche se sta commentando il gol della sua squadra preferita.

Come giudichi il ruolo dei gestori delle piattaforme di comunicazione nel contrasto al razzismo 2.0?

Sicuramente dovrebbero essere chiamati a una maggior responsabilità, come ad esempio la recente legge italiana sul cyberbullismo e diverse indicazioni dell’Ue sull’hate speech hanno provato a indicare. Non è semplice poiché si scontrano due concezioni giuridiche molto diverse: quella statunitense, dove sono basati legalmente molti gestori, che ritiene (offline come online) improponibile alcuna restrizione alla presunta “libertà di espressione”, anche quando lede la dignità umana ed è di aperto incitamento all’odio, e quella europea che invece ritiene la dignità umana il limite da non superare.

Purtroppo anche questo dibattito – come questioni tecniche legate per esempio alla rimozione dei contenuti e all’incontrollabilità della vastità della Rete – mostra come l’approccio repressivo non possa bastare. Occorre investire sull’educazione alla cittadinanza digitale.

Tu sei un pedagogista. Quali possono essere i percorsi di contrasto al razzismo 2.0?

Provo a raccontarlo nella seconda parte del libro. Educare alla responsabilità nel Web, valutando la conseguenza delle nostre azioni. Anche dei nostri silenzi: gli studi sui genocidi ci dicono come, per l’affermazione del Male, sia funzionale la cosiddetta “zona grigia” e l’indifferenza di chi accetta senza agire. Occorre spingere gli spettatori ad assumere il ruolo di soccorritori, processo che può essere facilitato proprio dalla cultura partecipativa della Rete. Nella mia ricerca cercavo i razzismi ma ho incontrato, senza cercarli, tanti giovani disponibili ad attivarsi a favore di un Web dell’inclusione e non dell’esclusione: si tratta di un “capitale antirazzista” che non va sprecato, ma promosso e suscitato. Nel libro descrivo alcune proposte in questa direzione, oltre a censire una serie di campagne, app e progetti efficaci dall’Italia all’Australia.

Uno strumento utile, rivolto ai vari ordini di scuole, è il Curriculum di Educazione Civica Digitale, emanato dal Ministero dell’Istruzione nel gennaio 2018. Due sono le parole chiave, senso critico e responsabilità, che vengono declinate nelle diverse aree, dall’educazione ai media alla creatività digitale, dall’educazione all’informazione al calcolo computazionale. Occorre infatti sottolineare un punto: le caratteristiche del digitale possono essere sia positive, sia negative. Dipende dall’uso che gli utenti ne fanno, se sono solo nativi o anche cittadini digitali. In questo modo usciamo dalla strettoia del dividerci tra “apocalittici” e “integrati” di fronte al Web. È un rischio che sempre si corre quando si diffonde un nuovo media e, non a caso, ho citato un’espressione del 1964 di Umberto Eco riferita alla televisione. La risposta della media education, per una postura intelligente davanti allo schermo televisivo, fu l’educazione al senso critico. Nel digitale questo non è più sufficiente, perché rappresenta solo la metà dell’opera. Non basta più educare lo spettatore, occorre anche educare il produttore che ogni spettatore è diventato grazie allo smartphone che si porta in tasca. Questo significa che insieme al pensiero critico occorre sviluppare anche la responsabilità.

“Il sogno di una ‘società aperta’ europea è ancora attuale”. Intervista  a Giulio Giorello e Giuseppe Sabella

 

Nel tempo del sovranismo è ancora possibile pensare ad una “società aperta”? Su quali valori si può ripensare una “società aperta” europea? Lo  abbiamo chiesto, in questa intervista, a due autorevoli interlocutori: al filosofo Giulio Giorello e al sociologo del lavoro Giuseppe Sabella. Giorello e Sabella  sono autori di un interessante saggio, appena uscito  nelle librerie: Società aperta e lavoro. La rappresentanza tra ecocrisi e intelligenza artificiale  (Ed. Cantagalli, Milano 2019, pag. 96).

Giulio Giorello | docente di Filosofia della scienza presso l’Università degli Studi di Milano. È stato Presidente della SILFS (Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza). Ha vinto la IV edizione del Premio Nazionale Frascati Filosofia 2012. Dirige, presso l’editore Raffaello Cortina di Milano, la collana Scienza e idee e collabora alle pagine culturali del Corriere della Sera.

Giuseppe Sabella | direttore di Think-industry 4.0, think tank specializzato in lavoro e welfare. Ha collaborato e collabora con diverse testate tra cui Il Sole 24Ore, il sussidiario e Start Magazine. È spesso ospite del TGCom24 e del sito internet di Rainews24 (www.rainews.it) in veste di commentatore economico ed è autore di diversi saggi sui temi dell’industria e del lavoro. Per Cantagalli dirige la collana nova industria.

Giorello e Sabella, il vostro saggio sulla “società aperta” e il lavoro nella 4 rivoluzione industriale, assume, per me, il significato di un interessante “manifesto” liberal (o, se volete, di liberalismo sociale) nel tempo del sovranismo imperante. Si può intendere in questo modo?

Si. Tanto per ricordare il celebre insegnamento di Luigi Einaudi, il pensiero liberale non coincide affatto con il liberismo economico che, in quanto tale, è in crisi. Ma non sono in crisi la tradizione e la società liberale, che a noi piace chiamare società aperta.

Veniamo ai contenuti del libro. Professor Giorello, nel libro si parla diffusamente di “società aperta” e del filosofo della scienza Karl Popper. A lei chiedo: quali sono i valori della società aperta che sono minacciati dal sovranismo?

Tutti i valori della società aperta sono minacciati dal sovranismo, a cominciare dalla libertà intellettuale dei singoli e dalla tolleranza. Per non dire di quei valori che stanno alla base della ricerca scientifica. E poi, come diciamo nel libro, la competenza, l’innovazione, la giustizia sociale, il pluralismo, la pratica del dissenso e, naturalmente, la laicità.

Professore, Il grande idolo dei sovranisti, Vladimir Putin, ha affermato che il liberalismo è finito. Condivide questo giudizio?

Chissà che prima o poi non si possa constatare che “finiti” sono i tipi come Putin!

Perché la lezione di Karl Popper può essere attuale in questo tempo?

Karl Popper è stato un critico particolarmente acuto del totalitarismo, nelle sue più diverse forme. La sua critica è stata radicale dal punto di vista di tutti coloro che insistono sull’autonomia della ricerca scientifica. Ricordiamoci che tale autonomia ci ha garantito i maggiori successi delle nostre condizioni di vita negli ultimi quattro secoli: dalle applicazioni tecnologiche più significative ai progressi dell’indagine medica. In particolare, nel tempo della grande trasformazione, la lezione di Popper è importante – soprattutto per un Paese come il nostro – perché ci aiuta a comprendere come bisogna andare incontro al cambiamento e all’innovazione. Ovviamente la significatività della crescita tecnico-scientifica non deve minimamente far dimenticare la riflessione etica sulla condizione umana: altrimenti, il successo tecnologico può diventare un idolo. E di idolatria, non abbiamo alcun bisogno.

Oggi è tornata di moda la “sovranità” : “prima gli italiani”, con tutti gli annessi e connessi. Quella dei sovranisti e dei populisti è rancorosa. In una visione aperta, qual è il senso della sovranità?

Per noi sovranità non può che essere sovranità dello stato di diritto. Il sovranismo attuale tende invece a calpestare la dignità della legge: non fosse altro per il culto e il ruolo più o meno spregiudicato del leader. In questo senso costituisce un tradimento della miglior tradizione europea, a cominciare da Montesquieu.

Sabella, nel libro si parla del lavoro e delle sue trasformazioni. Dal punto di vista antropologico come viene percepito il suo valore oggi?

Nell’epoca della grande trasformazione del lavoro e, al contempo, della sua precarietà (intesa anche come mancanza), il lavoro viene percepito prima di tutto come “bisogno”: se vi è oggi un rischio di alienazione questa consiste nel pericolo di essere ai margini della società perché esclusi dal lavoro oltre che, paradossalmente, nel ritrovarsi schiavi dello stesso. Oggi la schiavitù la vediamo da una parte nel fenomeno dei braccianti, ma anche in quei casi meno visibili di dipendenza dal lavoro, tipici delle alte professioni. Ecco perché è molto interessante ciò che ci arriva dalla tradizione greca: scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero.

Oggi è il tempo della 4 rivoluzione industriale, anche se sopravvivono elementi di fordismo, come si difende il lavoro in questo tempo del culto della flessibilità?

Purtroppo, ad oggi, si continua a giocare troppo in difesa, anche per l’effetto della grande crisi economica che – soprattutto in Paesi come l’Italia – è ancora crisi del lavoro. Istat ci dice che la disoccupazione è scesa a livelli record (9,9%) ma continua a crescere il cosiddetto “lavoro povero”, come emerge dalla recente rilevazione Inps: continua il trend negativo delle ore lavorate (-4,8%) ed è in costante aumento il part time involontario per il 20% degli occupati. In sintesi, cosa si dovrebbe fare per aggredire la situazione? Una forte politica per gli investimenti e un intervento di rafforzamento del potere d’acquisto delle persone.

 

Sabella nel libro trattate anche del sindacato. Come può essere protagonista nel tempo della disintermediazione?

Per come vanno le cose oggi, il protagonismo dell’azione sindacale più prossimo è nei luoghi di lavoro. La trasformazione del lavoro e lo sviluppo del welfare offrono possibilità importanti alle Parti sociali dal punto di vista contrattuale. È questo un terreno dove ancora non si registra una forte spinta ma è auspicabile che ci si convinca a fare di più. Per il resto, sarebbe interessante che il sindacato tornasse ad essere soggetto per lo sviluppo: è chiaro che, in questo senso, ne è coinvolto il livello confederale, ovvero la parte più ingessata del sindacato. Il dichiarato intento dell’unità sindacale è importante ma non basta.

Ultima domanda per entrambi: il sogno di una “società aperta” europea è ancora attuale?

Oggi più che mai. Come abbiamo scritto nel libro, la società aperta non coincide affatto con la “società liquida” su cui ha tanto insistito Zygmunt Bauman. La società aperta è una società che sa difendersi. Per questo oggi la sua dimensione non può che essere decisamente europea. E cosa vuol dire società che sa difendersi? Significa, in breve, una società che sappia individuare e bloccare i fanatici e gli intolleranti, di qualunque matrice ideologica siano, religiosa o politica. Contro costoro non sono certo efficaci quei quattro nostalgici del marxismo che riducono il pensiero di Marx e Engels a poche formulette che vengono ripetute senza un minimo senso critico.

“PER DIO NESSUNO È STRANIERO”. Testo dell’Omelia di Papa Francesco alla Messa per i Migranti e i Soccorritori

Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia di Papa Francesco, fatta questa mattina in Vaticano, durante la messa per i migranti e i soccorritori. Il significativo evento religioso è avvenuto sei anni dopo la sua visita a Lampedusa. A San Pietro erano presenti 250 persone (tra migranti e volontari).

Altare della Cattedra, Basilica di San Pietro

Lunedì, 8 luglio 2019

Oggi la Parola di Dio ci parla di salvezza e di liberazione.

Salvezza. Durante il suo viaggio da Bersabea a Carran, Giacobbe decide di fermarsi a riposare in un luogo solitario. In sogno, vede una scala che in basso poggia sulla terra e in alto raggiunge il cielo (cfr Gen 28,10-22a). La scala, sulla quale salgono e scendono gli angeli di Dio, rappresenta il collegamento tra il divino e l’umano, che si realizza storicamente nell’incarnazione di Cristo (cfr Gv 1,51), offerta amorosa di rivelazione e di salvezza da parte del Padre. La scala è allegoria dell’iniziativa divina che precede ogni movimento umano. Essa è l’antitesi della torre di Babele, costruita dagli uomini che, con le proprie forze, volevano raggiungere il cielo per diventare dèi. In questo caso, invece, è Dio che “scende”, è il Signore che si rivela, è Dio che salva. E l’Emmanuele, il Dio-con-noi, realizza la promessa di mutua appartenenza tra il Signore e l’umanità, nel segno di un amore incarnato e misericordioso che dona la vita in abbondanza.

Di fronte a questa rivelazione, Giacobbe compie un atto di affidamento al Signore, che si traduce in un impegno di riconoscimento e adorazione che segna un momento essenziale nella storia della salvezza. Chiede al Signore di proteggerlo nel difficile viaggio che dovrà proseguire e dice: «Il Signore sarà il mio Dio» (Gen 28,21).

Facendo eco alle parole del patriarca, al Salmo abbiamo ripetuto: “Mio Dio, in te confido”. È Lui il nostro rifugio e la nostra fortezza, scudo e corazza, àncora nei momenti di prova. Il Signore è riparo per i fedeli che lo invocano nella tribolazione. Del resto è proprio in questi frangenti che la nostra preghiera si fa più pura, quando ci accorgiamo che valgono poco le sicurezze che offre il mondo e non ci resta che Dio. Solo Dio spalanca il Cielo a chi vive in terra. Solo Dio salva.

E questo totale ed estremo affidamento è ciò che accomuna il capo della sinagoga e la donna malata nel Vangelo (cfr Mt 9,18-26). Sono episodi di liberazione. Entrambi si avvicinano a Gesù per ottenere da Lui ciò che nessun altro può dare loro: liberazione dalla malattia e dalla morte. Da una parte abbiamo la figlia di una delle autorità della città; dall’altra abbiamo una donna afflitta da una malattia che fa di lei una reietta, una emarginata, una persona impura. Ma Gesù non fa distinzioni: la liberazione è elargita generosamente in entrambi i casi. Il bisogno pone entrambe, la donna e la fanciulla, tra gli “ultimi” da amare e rialzare.

Gesù rivela ai suoi discepoli la necessità di un’opzione preferenziale per gli ultimi, i quali devono essere messi al primo posto nell’esercizio della carità. Sono tante le povertà di oggi; come ha scritto San Giovanni Paolo II, i «“poveri”, nelle molteplici dimensioni della povertà, sono gli oppressi, gli emarginati, gli anziani, gli ammalati, i piccoli, quanti vengono considerati e trattati come “ultimi” nella società» (Esort. ap. Vita consecrata, 82).

In questo sesto anniversario della visita a Lampedusa, il mio pensiero va agli “ultimi” che ogni giorno gridano al Signore, chiedendo di essere liberati dai mali che li affliggono. Sono gli ultimi ingannati e abbandonati a morire nel deserto; sono gli ultimi torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione; sono gli ultimi che sfidano le onde di un mare impietoso; sono gli ultimi lasciati in campi di un’accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea. Essi sono solo alcuni degli ultimi che Gesù ci chiede di amare e rialzare. Purtroppo le periferie esistenziali delle nostre città sono densamente popolate di persone scartate, emarginate, oppresse, discriminate, abusate, sfruttate, abbandonate, povere e sofferenti. Nello spirito delle Beatitudini siamo chiamati a consolare le loro afflizioni e offrire loro misericordia; a saziare la loro fame e sete di giustizia; a far sentire loro la paternità premurosa di Dio; a indicare loro il cammino per il Regno dei Cieli. Sono persone, non si tratta solo di questioni sociali o migratorie! “Non si tratta solo di migranti!”, nel duplice senso che i migranti sono prima di tutto persone umane, e che oggi sono il simbolo di tutti gli scartati della società globalizzata.

Viene spontaneo riprendere l’immagine della scala di Giacobbe. In Gesù Cristo il collegamento tra la terra e il Cielo è assicurato e accessibile a tutti. Ma salire i gradini di questa scala richiede impegno, fatica e grazia. I più deboli e vulnerabili devono essere aiutati. Mi piace allora pensare che potremmo essere noi quegli angeli che salgono e scendono, prendendo sottobraccio i piccoli, gli zoppi, gli ammalati, gli esclusi: gli ultimi, che altrimenti resterebbero indietro e vedrebbero solo le miserie della terra, senza scorgere già da ora qualche bagliore di Cielo.

Si tratta, fratelli e sorelle, di una grande responsabilità, dalla quale nessuno si può esimere se vogliamo portare a compimento la missione di salvezza e liberazione alla quale il Signore stesso ci ha chiamato a collaborare. So che molti di voi, che sono arrivati solo qualche mese fa, stanno già aiutando i fratelli e le sorelle che sono giunti in tempi più recenti. Voglio ringraziarvi per questo bellissimo segno di umanità, gratitudine e solidarietà.

 

Dal sito:

https://c.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2019/documents/papa-francesco_20190708_omelia-migranti.html

“Solo un’Europa “keynesiana” salverà l’Italia”. Intervista a Giorgio Tonini

Ieri a Bruxelles sono stati definiti i “top job”, gli incarichi di vertice, della nuova Commissione Europea. Il quadro si è completato, oggi a Strasburgo, con l’elezione dell’italiano David Sassoli, parlamentare del PD, a Presidente del Parlamento Europeo. Quali sfide la nuova Europa dovrà affrontare? Quali conseguenze per l’Italia? Ne parliamo, in questa intervista con Giorgio Tonini. Tonini è Capogruppo regionale e provinciale del PD in Trentino.

Giorgio Tonini, dopo l’esperienza romana si è tuffato nella sua “patria di elezione”: il Trentino. Anche qui ha soffiato forte il vento leghista. Visto dal Trentino com’è il salvinismo? Quali contraddizioni stanno emergendo?

Giorgio Tonini (LaPresse)

Il “salvinismo” è una variante italiana dell’ideologia prevalente nella destra contemporanea,tendenzialmente populista e anti-liberale. Un’ideologia che si fonda su due elementi principali: la rivolta fiscale e il rifiuto degli immigrati. Entrambe queste posizioni hanno una motivazione strutturale, che va compresa e non semplicemente giudicata, in particolare da chi voglia contrastare il populismo. Nel caso della rivolta fiscale, la motivazione strutturale è la stanchezza degli italiani costretti da 25 anni ad accollarsi il peso di un significativo avanzo primario. In altre parole, da un quarto di secolo lo Stato italiano, al netto della spesa per interessi, incassa dai contribuenti più di quello che spende. È quindi comprensibile che una parte significativa del Paese possa essere attratta da una proposta politica che promette la restituzione, in tutto o in parte, di questo avanzo. Naturalmente resta il problema di come finanziare il debito e di come ridurlo. E questo è, nel medio termine, il vero, grande punto debole del salvinismo. L’altro elemento, più frequentato nel dibattito pubblico, è il rifiuto dell’immigrazione. Il modo disordinato col quale questo delicatissimo tema è stato gestito nella passata legislatura, prima del (tardivo) arrivo di Minniti al Viminale, ha contribuito non poco ad alimentare questo sentimento e il salvinismo che ha saputo cavalcarlo. Resta il fatto che una quota di immigrazione è indispensabile, per l’Italia che invecchia e non fa figli. Il problema è dunque come governare questo fenomeno, non come azzerarlo.

Voi trentini siete la patria di De Gasperi, uno dei tre padri fondatori dell’Europa. Ieri a Bruxelles, è nata la nuova Commissione. Si spera sia all’altezza della situazione drammatica. Le chiedo una prima impressione sulle nomine….
I “top jobs”, gli incarichi di vertice, in Europa vengono attribuiti sulla base di un complesso incrocio tra i rapporti di forza tra le famiglie politiche rappresentate al Parlamento europeo e le relazioni tra i governi nazionali nel Consiglio europeo. Cinque anni fa, questo incrocio aveva portato ad un accordo tra la Germania della signora Merkel, capofila della famiglia popolare, e l’Italia di Renzi, capofila di quella socialista e democratica. Questa volta, lo spazio aperto dall’indebolimento della Merkel e dall’uscita di scena del Pd, è stato rioccupato dalla Francia di Macron, capofila della componente liberale, uscita rafforzata dalle elezioni europee. Sulla carta, e nelle speranze di chi crede nell’Europa politica, questo esito dovrebbe consentire una ripresa e un rilancio della posizione federalista, in particolare sulla decisiva questione del bilancio dell’Eurozona. Ma si tratta pur sempre di una soluzione di compromesso e, al di là dei nomi, tutti di spessore e con una importante svolta “rosa”, non sappiamo ancora quasi nulla sui risvolti di tipo programmatico.

Fa impressione che l’Italia, che qualcuno ha definito come il “dottor Jekyll e il mister Hyde d’Europa”, sia stata accanto a Polonia e Ungheria contro un socialista amico dell’Italia (che poteva dare una mano sui migranti). Come giudica il comportamento italiano? L’Italia Riuscirà ad avere un vicepresidente?
Con le elezioni politiche del 2018 e quelle europee del 2019, l’Italia è entrata nel club dei paesi europei governati da una coalizione populista. Ed è quindi uscita dalla cabina di regia delle grandi famiglie politiche variamente europeiste (popolari, socialisti, liberali, in parte verdi), che per quanto indebolite sono ancora quelle che danno le carte nel grande gioco europeo. Non a caso l’unico “top job” conquistato dall’Italia è la presidenza del Parlamento europeo, assegnata a David Sassoli del Pd, in quota “socialisti e democratici”, dunque ad un’esponente di un partito che in Italia è all’opposizione. L’Italia della maggioranza populista si è cacciata da sola in un angolo. E certamente, bocciando Timmermans a causa del diktat di Salvini, ha perso la sua ultima, perfino inaspettata, occasione: quella di far parte della coalizione che eleggeva il Presidente della Commissione. A questo punto l’Italia avrà certamente un commissario europeo, vedremo con quale delega e se avrà o meno i gradi di vicepresidente. Ma sarà comunque in seconda fila.

Lei ha scritto, sul quotidiano trentino “l’Adige”, che nel prossimo Parlamento Europeo si scontreranno tre visioni dell’Europa. Quali sono e cosa rappresentano?
Schematizzando, le tre posizioni principali mi pare che siano quella degli “europeisti conservatori”, rappresentata dai popolari a guida tedesca; quella degli “europeisti federalisti”, liberali, socialisti e democratici, in parte anche verdi, guidati da Macron; e la galassia dei “sovranisti”, inglesi, italiani, est-europei. Quest’ultima componente, per quanto cresciuta elettoralmente, resta politicamente marginale, al massimo può condizionare, ma non determinare le decisioni politiche europee, che restano di fatto una risultante del rapporto negoziale tra conservatori a guida tedesca e federalisti a guida francese. I primi tendono a conservare lo status quo, perché sono quelli che ne hanno tratto maggior beneficio. In particolare i tedeschi hanno raggiunto un delicato equilibrio tra finanza pubblica sana, avanzo commerciale, crescita moderata e piena occupazione, che hanno una comprensibile ritrosia a mettere in discussione. Una più forte spinta alla crescita in Germania, come sarebbe auspicabile e anche prescritto dal Fiscal Compact, significherebbe infatti per Berlino aprire le porte ad una ancora più massiccia immigrazione, con tutti i rischi che questo comporterebbe. Diversa la posizione francese, che punta a guidare il gruppo di partiti e paesi che hanno interesse ad un’Europa più “americana”, nella quale il necessario risanamento delle finanze degli Stati sia reso sostenibile da una forte azione anti-ciclica, “keynesiana”, dell’Unione, attraverso la “Fiscal Capacity”, la capacità di bilancio, dell’Eurozona. Insieme ai francesi, gli italiani sono quelli che hanno il maggiore interesse al successo di questa linea politica. Il problema è che la maggioranza populista che governa e rappresenta in Europa il nostro paese ha collocato l’Italia su tutt’altra traiettoria…

Questo governo italiano è quello meno europeista della storia della repubblica. Epperò continua a chiedere flessibilità di bilancio. È giusto questo atteggiamento? Salvini dice: l’Italia è tra i maggiori contributori, ci diano quello che si spetta…
Questo è l’atteggiamento storicamente sostenuto dagli inglesi. “I want my money back!” Rivoglio indietro i miei soldi, diceva Margaret Thatcher. Questa strada ha portato il Regno Unito nel pantano della Brexit… Quanto alla flessibilità ne abbiamo avuta e continuiamo ad averne tanta. Ma la flessibilità serve a comprare tempo, non a risolvere il rompicapo italiano, fatto di alto debito, forte avanzo primario e bassa crescita. Noi abbiamo bisogno di un motore europeo (il bilancio dell’Eurozona) che spinga sulla crescita. Solo in questo modo possiamo portare l’avanzo primario ad un livello tale da ridurre il debito, senza contraccolpi sul piano sociale e politico. Ma se non è stato capace il Pd di spiegare questa elementare verità agli italiani e di aggregare su questa piattaforma il consenso necessario, come si può sperare che lo facciano i populisti?

Sfioriamo, per un attimo, il tema del PD. Rispetto alla volta scorsa i numeri sono dimezzati. C’è la possibilità di avere un ruolo?
L’elezione di Sassoli dice che il Pd è ancora in gioco in Europa. Per me questa è una notizia molto importante, perché credo che il Pd potrà tornare a vincere in Italia solo se riuscirà a porsi tra i protagonisti di un cambiamento in Europa. Come ho già cercato di dire, la soluzione del rompicapo italiano (per ridurre il debito dobbiamo mantenere, anzi aumentare l’avanzo primario, ma gli italiani non ne vogliono più sapere di fare l’avanzo primario più grande d’Europa; e d’altra parte se smettiamo di fare avanzo primario il debito diventerà insostenibile…) può arrivare solo da una svolta “keynesiana” dell’Europa. Il Pd deve intestarsi questa battaglia e selezionare gli alleati in Europa sulla base di questa discriminante. Se riusciremo a fare questo, disporremo di un’alternativa praticabile e convincente per il Paese, quando l’attuale coalizione populista andrà in crisi.