Suicidio assistito: “Una sentenza liberale non libertaria”. Intervista a Stefano Ceccanti

Dj Fabo (Ansa)

 

Sta facendo discutere l’opinione pubblica, ed anche la politica, la sentenza della Corte Costituzionale sul suicidio assistito. Quali sono le ragioni di questa sentenza della Corte? Come evitare il “bipolarismo etico”? Ne parliamo, in questa intervista, con Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato del PD.

 

Onorevole Ceccanti, la Corte Costituzionale, con la sentenza di mercoledì, ha portato a termine la questione di legittimità dell’articolo 580 del Codice penale. La Corte ha dichiarato la non punibilità, a determinate condizioni, del “suicidio assistito”. Adesso bisogna attendere le motivazioni di una sentenza, che molti definiscono “storica”. Le chiedo, come costituzionalista, sulla base di quali principi costituzionali, secondo lei, la Corte ha emesso questa sentenza?

Con qualche necessaria cautela, perché stiamo in questo caso commentando un comunicato e non una sentenza definitiva, mi sembra che la chiave di lettura la possiamo capire sulla base di una ordinanza dell’anno scorso. La Corte legge senz’altro la dignità della persona in un quadro comunitario e quindi non considera un assoluto il valore dell’autodeterminazione dell’individuo singolo nella sua decisione di rompere il legame con gli altri, dando via libera a qualsiasi forma di aiuto. Non legge quindi in chiave libertaria, individualistica la Costituzione e si pone anche il problema della protezione delle persone più deboli e di un’effettiva volontà della persona, senza condizionamenti anomali. Tuttavia la Corte non adotta neanche un approccio unilaterale opposto, statalistico-paternalistico, che porterebbe a negare sempre e comunque qualsiasi valore dell’autodeterminazione individuale, che dissolverebbe l’autonomia della persona nella comunità. Diciamo, quindi, che ha adottato un approccio liberale: pur ritenendo il suicidio e l’aiuto al suicidio un ricorrere alle armi del diritto penale.

Quali sono i limiti posti dalla Corte, e perché non ha previsto l’obiezione di coscienza?

La Corte stabilisce che l’aiuto al suicidio vada depenalizzato nei confronti di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, come aveva già detto nell’ordinanza di un anno fa. Non ha parlato di obiezione di coscienza perché non si parla di un diritto soggettivo ad ottenere una prestazione, ma del riconoscimento a farsi aiutare in una scelta senza che nessuno possa essere condannato. Non essendoci un obbligo, almeno secondo quanto capiamo ora della sentenza, non c’è obiezione.

 

Lei ha definito la sentenza come “liberale” e non “libertaria”…Perché?

Perché è figlia di una concezione dello Stato che si ritrae, che si considera parziale, che a certe condizioni rinuncia a punire chi opera una scelta che considera comunque un disvalore e non un diritto. Peraltro è un linguaggio noto anche alla Chiesa: in materia di libertà religiosa la Dichiarazione del Concilio Vaticano II, pur non equiparando in materia relativistica le diverse scelte religiose, parla di immunità dalla coercizione, di autolimitazione dello Stato che non ha il monopolio del bene comune e che pertanto non deve esagerare con l’estensione del diritto penale.

La reazione, però, della CEI è stata negativa. La Conferenza Episcopale è preoccupata “per la spinta culturale implicita che può derivarne”: cioè che togliersi la vita è una cosa buona. Da cattolico democratico come risponde a questa preoccupazione?

In linea generale bisogna sempre capire che i vescovi ragionano soprattutto da educatori, non da giuristi o da politici. In questa chiave capisco il senso della preoccupazione. Ciò detto, mi sembra che presa alla lettera questa affermazione fraintenderebbe la sentenza che rinuncia appunto a punire in alcuni casi limite, non che riconosce un diritto al suicidio. Credo però che l’affermazione non vada intesa in senso letterale, ma che invece alluda a scelte che possano nascere sulla deriva di questa soluzione, col cosiddetto pendio scivoloso. Allora, se è così, l’argomento obiettivamente non fraintende la sentenza e come tale, in astratto, potrebbe avere una sua plausibilità. Però se il pericolo che si vuole sventare è questo, invece che polemizzare con la sentenza, che è comunque vincolante, e proporre di nuovo soluzioni impossibili tese ad eluderla (leggi che ripristinino una pena, che sarebbero sicuramente incostituzionali), sarebbe bene pensare a limiti seri che circoscrivano la depenalizzazione, che interpretino in modo rigoroso le indicazioni della Corte. Tanto più se si considera un altro fatto: vedremo la sentenza finale, ma in assenza di limiti di legge, dopo la certa assoluzione di Cappato, dato che un principio di non punibilità è stato comunque affermato, non è chiaro con quale latitudine il principio potrebbe essere applicato in via giudiziaria. Se invece si continuasse a polemizzare con la Corte, si renderebbe più difficile il varo condiviso e non troppo lontano da limiti seri.

Adesso il Parlamento dovrà, finalmente , legiferare…. Non sarà facile evitare il bipolarismo etico…Come evitarlo? La destra sovranista è pronta alle barricate… Quali potranno essere i punti di mediazione?

In realtà, se si capisce bene la sentenza che taglia le posizioni estreme, ossia da un lato l’approccio libertario assoluto e dall’altra quello statalistico-paternalistico, la scrittura di una legge risulta ora molto semplificata perché la questione è diventata chiaramente quella di quale depenalizzazione sia sensata e non più sull’opportunità di depenalizzare che ha paralizzato il Parlamento nei mesi passati. A dir la verità si sarebbe già potuto capire anche solo con l’ordinanza, ma va comunque bene se si parte anche ora con questa consapevolezza. Il Parlamento può ben individuare in questa chiave il bene possibile oggi, senza volontà di vittorie unilaterali di nessuno, senza affermare un dannoso bipolarismo etico.

È ora di cambiare stile. La lezione dell’ultima crisi di governo. Intervista ad Alfio Mastropaolo

Il governo Conte2 ha iniziato il suo cammino. Il cammino, come si è visto in questi giorni, non si presenta per nulla facile. Quanto influirà la scissione renziana? Lo stile dialogico del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, avrà la meglio sulla politica degli ultimatum di Di Maio? Matteo Salvini radicalizzerà ancora di più lo scontro? Di tutto questo parliamo , in questa intervista, con il politologo Alfio Mastropaolo. Mastropaolo è Professore Emerito di Scienza della Politica all’Università di Torino.

Professore, sono passati poco più di un mese, da quando Matteo Salvini ha aperto la crisi, per chiedere agli italiani “pieni poteri”. Nel frattempo è nato il governo Conte 2, Matteo Salvini è all’opposizione e Matteo Renzi ha lasciato il PD. Insomma una serie di novità non da poco. E stando così le cose non si prevede una navigazione troppo tranquilla per il Governo. È così professore?

Si possono tirare in ballo un mucchio di spiegazioni. Siccome i problemi sono ricorrenti, sono ricorrenti pure le spiegazioni. Tre mi vengono in mente più di altre, scartando quella, insulsa, dell’inadeguatezza delle nostre istituzioni. La frammentazione politica è la prima. Il deficit etico di una parte cospicua della nostra classe politica è la seconda. La terza è l’entità dei problemi da affrontare. Quando il materiale umano è scadente, non ci sono santi. Quando si pretende troppo è inevitabile il disastro. Non bastasse, tutte le classi dirigenti occidentali si trovano da tempo di fronte a sfide difficilissime: quadrare il cerchio, diceva Dahrendorf. Ovvero conciliare crescita economica, coesione sociale e libertà democratiche. A quanto pare, pochi paesi ci riescono decentemente. L’Inghilterra, eterno modello per chi ne sa poco, è lacerata da una crisi sociale di cui il Brexit è solo il sintomo. Ci sono proteste populiste e razziste per ogni dove, fin nella Scandinavia felix. Ovunque, ahimé, si prospetta il sacrificio (soft) alla crescita di due degli ingredienti di Dahrendorf. Gli investimenti in coesione sociale sono in declino da tempo, il malessere cresce e suscita reazioni scomposte, si ricorre perciò alle maniere forti è possibile e la libertà è messa in dubbio. Da qualche parte la crescita ha tenuto, ma mai in maniera brillante, e la Grande recessione ha fatto danno dappertutto. Quindi c’è pure il rischio che il sacrificio della coesione sociale e della democrazia sia inutile. La qualità del personale politico è ovunque in declino. Si usa la politica per fare affari, o per farli fare agli amici. Oppure per ambizioni personali. Chi potrebbe far meglio è scoraggiato e fa un altro mestiere. Con differenze tra paese e paese. Quelli che all’inizio di questo ciclo stavano meglio hanno seguitato a star peggio. Quelli che stavano peggio, per ragioni storiche, hanno seguitato col peggio. Non navigano. Ben che vada galleggiano. Si aggiustano coi mezzi di cui dispongono. L’Italia galleggia da troppo tempo, imbarca troppa acqua. Il brutto è che non sappiamo come rimediare.

Così in Italia tra prima e dopo le elezioni sono emerse tre ricette. La prima, non so come definirla, forse continuista e europeista, era quella condivisa, con qualche variante, dal Pd renziano e da Forza Italia: attenzione ai mercati e accondiscendenza verso l’Europa. Contro è apparsa la ricetta sovranista-xenofoba. La terza ricetta la chiamerei l’illusione civica: prendiamo l’uomo della strada e facciamo di lui il protagonista della politica e dell’azione di governo: moralità e buon governo seguiranno. Gli elettori hanno fatto le loro scelte, ma ne è risultato un pasticcio. Come cavarne una maggioranza di governo? I 5 stelle si sono alleati col sovranismo, hanno perso la loro pretesa verginità morale e hanno permesso ai sovranisti di fare alle europee l’en plein dell’elettorato conservatore e moderato. Finché in un delirio di onnipotenza il leader sovranista, ha rotto la coalizione e se n’è formata una nuova. Più omogenea politicamente? Non direi, quanto a gruppi dirigenti, ma forse si, per gli elettorati. Una larga fetta degli elettori a 5 Stelle proviene dal Pd. C’era ovviamente da fare i conti con la diversità del personale politico. Le frizioni erano scontate. I programmi non sono proprio gli stessi. Comunque, si è fatto un nuovo governo. Con un programma di fedeltà europeista, ma anche con qualche innovazione prodotta sia da alcune sollecitazioni pentastellate, sia da qualche ripensamento in favore della coesione sociale entro il Pd. Renzi si è fatto promotore dell’operazione, togliendo la scomunica ai 5 Stelle, per calcoli a tutti ben noti. Zingaretti, che mi pare un mediano di quelli all’antica, non l’ha contraddetto più di tanto, ha neutralizzato il suo gusto di fare il bastian contrario e ne ha ricavato qualche profitto. Adesso l’ego di Renzi fa di nuovo le bizze, ma siccome si tratta di ego, a mio modesto parere, e non di un progetto politico, è inutile provarsi a fare previsioni serie. Lasciamolo contrattare un po’ di nomine e andiamo alla sostanza.

Veniamo all’ultimo avvenimento, da alcuni atteso, da altri temuto: la scissione di Matteo Renzi. Leggendo l’intervista di Renzi al quotidiano “La Repubblica”, ho fatto fatica a trovare un dato politico che potesse essere credibile per una scissione. Ho trovato molto ego… Del resto siamo nel tempo del l’egolatria… Che idea si è fatto della scissione? E quale l’obiettivo di Renzi?

Premetto di non avere una passione per Renzi. Per me la politica è una cosa diversa dalla leadership, dal personalismo, dal seguito osannante, dalle suggestioni mediatiche, dai colpi ad effetto (che poi suscita il gioco di buttare giù il leader dalla torre). Figurarsi se può sembrarmi seria la pretesa di un partito “allegro e divertente”, con corredo di capo carismatico che decide per tutti. Resto dell’idea che la politica è gioco di squadra: siamo in tanti e decidiamo di unire le nostre forze per fare qualcosa insieme. Ciò non toglie che il gesto di Renzi riproponga un problema serio e di assai più ampie dimensioni. Quello della ristrutturazione mai compiuta del sistema dei partiti e delle culture politiche. La confusione imperversa addirittura dal 1989, quando la politica italiana fu sconvolta dalla caduta del Muro e dalla mossa di Occhetto. Più tardi si aggiungerà il collasso della Dc, del Psi, dei partiti laici. Che in quella fase di grande rimescolamento di carte la tradizione socialista, a suo modo interpretata anche dal Pci, potesse trovare un punto d’incontro col solidarismo cattolico, era ragionevole. Era pure plausibile immaginare una revisione, anche profonda, ma coerente con lo spirito del tempo, segnato dal neoliberalismo: è successo in tutte le formazioni di sinistra europee. Ma un incontro di culture politiche è una cosa seria, su cui discutere, da preparare. Invece è stata, come dicono in tanti, una fusione a freddo. Una chiamata alle armi contro Berlusconi, che intanto aveva ricomposto, senza neanche lui ristrutturare granché, il centro-destra: solo la sapienza politica della Dc era riuscita a dare un senso al moderatismo nazionale. La chiamata alle armi si è risolta in assemblaggio di cordate dirigenti in cerca di collocazione, con in più alcuni (gli ex-Pci/Pds) smaniosi di liberarsi di un passato di cui, chissà perché, dovevano farsi perdonare. Racconta bene la storia l’ultimo libro di Antonio Floridia (Un partito sbagliato, Castelvecchi, 2019). Ne è venuto fuori un nido di vipere. In testa al Pd c’è un ceto politico eterogeneo, che ha buttato a mare la cultura del partito in quanto libera associazione dei cittadini e che si è lasciata affascinare dalla fiaba del partito personale, del Berlusconi di sinistra che andava scoperto, senza un progetto sul futuro del paese, dai costumi politici molto eterogenei e per nulla presente nella società italiana. È un partito incapace di darsi una qualche disciplina. In assenza della quale è da ultimo apparso Renzi, il più lesto a profittare della confusione. Ora Renzi lascia la compagnia. Quale progetto politico incarni lo sa solo lui. Aveva cominciato con Blair per riconvertirsi a Macron: dalla destra della sinistra alla destra e basta, che per antica ipocrisia chiamano centro. Chi sta peggio comunque sono gli elettori di centrosinistra, ricordiamolo, che hanno trascorso quasi trent’anni sulle montagne russe. L’elettorato popolare, soprattutto. La parte più consistente proveniva dal Pci. Ha sopportato stoicamente anche una conduzione fallimentare del governo del paese (colpa più di Berlusconi che del Pd). Finché la crisi economica e politica è divenuta culturale e morale. E se ne sono andati. Si astengono, o votano 5 Stelle, qualcuno anche Lega. Più o meno allo stesso modo, tra personalismi e divisioni, si sono consumati i tentativi di aprire spazi a sinistra del Pd. Vediamo se il bravo mediano di cui sopra saprà fare il miracolo. Certo l’avversione a Salvini, come già a Berlusconi, è un ben misero movente. Il fatto che un ben po’ di renziani sia rimasto dentro non aiuta. Per carità, le conversioni in politica sono all’ordine del giorno. Ma con quale animo sono rimasti? Saranno leali e contribuiranno col loro punto di vista a un ripensamento del partito, o faranno da quinta colonna? Comunque, dalle difficoltà in cui versa il Pd non si esce con le manovre di corrente, ma, come sottolinea Floridia, discutendo, pensando, studiando e elaborando un progetto politico.

Veniamo a Matteo Salvini. Il leader leghista, nonostante la sconfitta parlamentare, riesce a mantenere alto il consenso. E la sua collocazione all’opposizione lo favorisce. Il pericolo Salvini è ancora reale…

La radicalizzazione della destra promossa da Salvini è un problema gravissimo. È una destra del tutto incompatibile coi valori della Costituzione. Già lo era quella di Berlusconi, che almeno non era brutale. Questa lo è verbalmente e anche un po’ materialmente. Come sempre, però, la questione è complicata, perché questa nuova destra ha una testa e ha pure un corpo. La testa è Salvini, che è un tribuno, con suo seguito di tifosi, che lui ha messo in scena e aizzato a Pontida animando uno spettacolo indegno. Il corpo sono i suoi elettori, che sono per lo più elettori moderati, che hanno tutto il diritto di esserlo, anche se non siamo d’accordo con loro. In larga parte trasmigrati dal grande seguito berlusconiano. Ci sono quelli che votano col portafoglio: che è una motivazione molto seria. Al netto della propaganda xenofoba, Salvini promette loro meno tasse e meno vincoli burocratici. È un’alternativa sgangherata a ciò che servirebbe davvero e che non si riesce a ottenere: amministrazioni e servizi più efficienti, semplificazione delle procedure, spesso insopportabili, un fisco più rigoroso, ma anche meno esoso. C’è poi una quota di elettori conservatori, che sono soprattutto impauriti e faticano a sopportare le novità. Bisogna capirli. Il livello medio d’istruzione è modesto. Spesso sono anziani. C’è un fondo provinciale, che mal sopporta il femminismo, i matrimoni omosessuali e molte altre novità. Da ultimo si aggiunta l’immigrazione, spregiudicatamente strumentalizzata da Salvini e dai media. A suo tempo questi ceti li curava la Dc, che riusciva a mescolare abilmente tanti temi. Più tardi hanno votato Berlusconi, che li abbacinava. Adesso si rivolgono a Salvini. Forse non si accorgono nemmeno del suo stile. Era un’idea cretina che, morta la Dc, si sarebbe costituita una destra moderata e magari liberale, che in Italia è sempre stata minoritaria. Un pezzo di questi elettori impauriti li curava in alcune regioni pure il Pci. Il Pd nemmeno ci pensa. Ora, questo elettorato c’è e bisogna occuparsene seriamente, anzitutto informandolo meglio. Se la televisione pubblica facesse il suo mestiere, si potrebbero smussare certi eccessi, controllare molte paure. Anche se il compito è difficilissimo. Non ci riesce nemmeno papa Francesco (che peraltro si porta appresso il ricordo del papato muscolare di Giovanni Paolo II). Della religione ormai ci si serve à la carte. Mi è capitato in una magnifica chiesa da queste parti. C’era un cortesissimo signore che ne illustrava con competenza le bellezze artistiche. Ha concluso evocando la battaglia di Lepanto. Li fermeremo un’altra volta. Cosa vuoi dire?

Con la scissione “fredda” Matteo Renzi diventa il terzo azionista della maggioranza… A Conte fischiano le orecchie?

Conte è venuto fuori alla distanza. Bisogna capirlo. Prendi un professore universitario, spero non si offenda, che, come gran parte degli accademici, ha scarso uso di mondo, o meglio di mondo politico. È rimasto frastornato. Intanto dall’io debordante di Salvini e poi dall’ingenuità maldestra di Di Maio, che cercava di tenere il passo. Lui in mezzo. Sarei molto curioso di sapere come ha vissuto quest’esperienza. Non era anzi mai capitato. Per un capriccio del caso uno che non c’entrava né punto né poco si è ritrovato capo del governo, che, dopotutto, è un ruolo gratificante. Mi sono chiesto più volte quando un signore palesemente di buona cultura avrebbe reagito alle provocazioni. Finalmente ha imparato, ha capito che il ruolo chiave conferitogli dal caso e si è mosso abilmente per utilizzarlo. Adesso dispone di una maggioranza più omogenea, con priorità programmatiche più compatibili. Certo, se Renzi la finisse coi capricci sarebbe meglio. La sfida è far funzionare un governo tra gente che si è presa a sassate e che sappia usare quei sassi altrimenti: a me è piaciuta la citazione del Talmud di Franceschini. Fare funzionare il governo significa affrontare le priorità del paese. Che sono drammatiche. Il debito pubblico è un handicap, comunque lo si consideri. Le imprese devono essere messe in condizione di reggere la competizione globale, i lavoratori vanno protetti, il Mezzogiorno sta affogando. C’è un ritardo mostruoso nell’istruzione, a tutti i livelli, che spiega anche certi atteggiamenti: c’è un pezzo di paese che ha dimenticato cosa fu il fascismo. Un buon governo dovrebbe riuscire nella quadratura del cerchio, alla Dahrendorf, ardua per i tedeschi, difficilissima per gli italiani. Niente è impossibile. È stato ricostruito un paese distrutto dal fascismo e dalla guerra mondiale. Suvvia. Non sono ottimista, ma mantengo un barlume di speranza. Spesso succedono cose che non ci aspettiamo. Tanto più se un segmento di opinione pubblica si mobilita, capisce quanto alta sia la posta in gioco e preme sulla politica.

Nei giorni scorsi si è tornato a parlare di legge elettorale proporzionale. Non trova che sia un rischio di ritorno al passato?

Come si fronteggia Salvini? Prosciugando l’acqua in cui nuota. Non la prosciugheranno mai tutta. Comunque, non confiderei troppo nel cambiamento della legge elettorale, che servirebbe solo a nascondere la polvere sotto il tappeto. Il Rosatellum, d’accordo, è una schifezza. Decidono tutto i partiti. Era frutto di un accordo sottobanco tra Berlusconi e Renzi finalizzato a un’intesa postelettorale, magari all’ombra della solidarietà europea tra popolari e socialisti. Solo che il diavolo, che è specializzato in pentole, non fa i coperchi. Ora questa legge elettorale rischia di consegnare il paese a Salvini col 40 per cento dei consensi. Eppure non può essere questo il solo motivo per cambiarla. Bisogna cambiarla perché è una bruttissima legge e una legge elettorale decente richiede che gli elettori quando votano si sentano almeno un poco ascoltati. Il paese ne ha gran bisogno. E qui il ragionamento si complica. Perché vorrei augurarmi che i 5 Stelle, che sono frutto della frustrazione degli elettori, si fermino un attimo a riflettere su questa a mio avviso dissennata decurtazione dei parlamentari. Che servirebbe a allontanare sempre più la politica dai cittadini. Per quello che vale, direi a Di Maio, basta con la politica degli ultimatum. Cambiamo stile, discutiamo. Le leggi elettorali che hanno sostituito la proporzionale hanno tutte promesso di assicurare la stabilità governativa, come sappiamo con modesto successo, nonché di rendere la politica più trasparente e di ravvicinarla ai cittadini. Basta col filtro della partitocrazia. In realtà, hanno tutte conferito ai partiti un potere enorme di selezione degli eletti. Insisto con modestissimo successo, vista la qualità declinante del personale politico. Ma anche senza precludere la frammentazione, come ha per l’ennesima volta confermato la secessione di Renzi. Tutte hanno soprattutto cambiato il modo di far politica e il rapporto con gli elettori. Secondo me peggiorandolo rispetto al tempo delle preferenze, che potevano essere contrastate in altro modo. I parlamentari d’oggidì frequentano poco o nulla i collegi, tanto il loro destino è deciso dal partito. Quando invece i parlamentari servivano proprio come tramite con gli elettori. Non sempre erano un tramite clientelare e perciò perverso, erano per lo più un tramite prezioso. Vivevano il collegio, lo frequentavano, parlavano coi cittadini, contrastavano il sentimento di distanza che la divisione del lavoro tra elettori ed eletti produce. Sa lei chi sono i suoi rappresentanti? La mia opinione è che una nuova legge elettorale debba per prima cosa porsi questo problema. Lo si può risolvere con la proporzionale, o con collegi uninominale di piccole dimensioni In ogni caso, serve un numero congruo di parlamentari. I quali forse costeranno, ma sono soldi, direi ai 5 Stelle, molto ben spesi. Questo insegna l’esperienza. Se si risolvesse il problema del numero, si potrebbe sdrammatizzare l’eterna querelle tra maggioritario e proporzionale. Non esageriamo. Ciò che conta davvero è la politica. Anche se, qualora si replicasse la formula maggioritaria, suggerirei di rivedere i quorum per l’elezione del Capo dello Stato e dei giudici costituzionali. Sono cariche di garanzia, che vanno condivise. Saperle condivise, rasserena l’atmosfera. Non possiamo finire come in Polonia o in Ungheria. Per il resto, mi lasci spezzare una lancia hic et nunc a favore del proporzionale. Finiamola di evocare la governabilità. È una menzogna, almeno in Italia. Siamo un paese composito e per vincere si creano coalizioni larghissime, che poi, lo si è visto, sono logorate dai ricatti tra partners. Oggi ancor peggio, perché la frammentazione politica non è più un problema solo italiano. I tempi sono difficili, il mondo cambia e viviamo in società sempre più diversificate. Che, come mi pare confermi la politica inglese, non si prestano a essere governate da uno schieramento politico magari maggioritario (ma non sempre) tra i votanti, ma minoritario tra gli elettori. Macron in Francia è il presidente di una minoranza, che per giunta l’ha scelto non per amore, ma in odio alla sua antagonista. Alla fine i gilets jaunes hanno messo a soqquadro il paese. In tempi difficili, serve aggregare. Si pagherà un costo in mediazioni, ma è conveniente sopportare anche questo, perché aiuta a governare. Serve tuttavia rivedere il modo di pensare la politica. Va messa in discussione l’idea del duello in cui uno vince, uno perde, chi vince è padrone assoluto, chi perde stia nel suo angolo. Mi spiace contraddire Prodi, che è una personalità che rispetto. Ma in questo a mio avviso si sbaglia. Il mondo è pieno di sfumature, rifugge i dilemmi semplici. Abbiamo bisogno di rispetto dell’altro, di dialogo, di compromessi. La democrazia, a conti fatti, è una cosa molto piccola. È conduzione pacifica della contesa politica. Nient’altro. Squalificare come inciucio una cosa nobile come il compromesso tra diversi è una mistificazione. Alla luce della quale il paese ha accumulato troppi fallimenti. Nulla abbiamo guadagnato col maggioritario, che ha semmai avvelenato la cultura politica del paese, l’ha polarizzata, l’ha incattivita, filtrando nella vita collettiva. È troppo chiedere alla classe politica di rifletterci sopra? Rino Formica evocava qualche settimana fa il pericolo di una guerra civile. La mia modesta convinzione che un proporzionale ben temperato, aiuterebbe a scongiurarlo assai più del maggioritario.

UNA NUOVA STAGIONE NEL DIALOGO TRA POLITICA E SINDACATO? Intervista a Giuseppe Sabella

 Dopo il voto di fiducia del Parlamento, il governo Conte 2 si avvia alla sua attività ordinaria che ci permetterà di capire quali misure saranno messe in campo per effettuare quegli investimenti che possano consentire “crescita economica, maggiore occupazione e sviluppo sostenibile”, per citare le parole usate dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Entriamo in una fase che probabilmente vedrà più protagoniste di ieri le organizzazioni di rappresentanza di lavoro e impresa. Di questo abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Sabella, dalle elezioni europee è emersa una commissione che sembra più aperta della precedente a politiche di sviluppo. Parallelamente in Italia, dopo la crisi d’agosto aperta da Matteo Salvini, è nato un governo che sembra trovarsi piuttosto allineato alla compagine guidata da Ursula Von der Leyen. È così?

Si, mi ritrovo nella sua analisi dei rapporti che intercorrono oggi tra Roma e Bruxelles aggiungendo un particolare: se consideriamo ciò che sta avvenendo in Gran Bretagna, non possiamo non dire che – per via diverse – il sovranismo inglese e quello italiano stanno sbattendo contro il muro. È presto per dare per morto il nazionalismo ma è evidente che, da questo nuovo ciclo che si sta avviando, la democrazia europea si sta rivelando più forte e longeva di quello che pensavamo. Aver fermato l’ascesa del nazionalismo italiano a trazione Salvini – che ci ha messo molto del suo – è fattore importante: è, insieme alla Brexit che si inceppa forse definitivamente, un colpo per l’intero movimento sovranista europeo. Dall’Europa devono però arrivare risposte concrete per le persone e per il lavoro, onde evitare che i movimenti nazionalisti tornino a rinsaldarsi. In questo quadro, la ripresa italiana è determinante.

E questo governo sarà in grado di dare la spinta a questa ripresa?

Benché non vi siano personalità di spicco, vi sono elementi che mi inducono a pensare che l’esecutivo Conte 2 può farsi male solo con le sue mani. La Commissione così ben disposta nei nostri confronti – e Gentiloni agli affari economici è il segno di una considerazione importante per il nostro Paese – è presupposto importante per questa spinta. E le organizzazioni di rappresentanza di lavoro e impresa possono giocare un ruolo nuovo, per ragioni diverse.

A cosa si riferisce?

Lavoro e sviluppo economico sono guidati da due ministri a cinque stelle. Il sindacato in particolare, per quanto un po’ lento e macchinoso, è soggetto robusto ove c’è consapevolezza piuttosto diffusa su bisogni e risposte da dare oggi al lavoro. Credo che il sindacato possa essere un interlocutore importante per questo governo. In secondo luogo, sono sicuro che sia M5s che Pd vedano nel sindacato quel soggetto utile anche per finalità politiche: per i due azionisti del Conte 2, il bisogno di allargare il proprio consenso è forte, lavorare bene con il sindacato significa – anche indirettamente – aiutare il governo a essere più popolare.

Maurizio Landini, che guida la Cgil, sembra piuttosto contento di questo nuovo governo. Non vi è pericolo che la Cgil torni a essere in modo nuovo “cinghia di trasmissione” di una parte della politica?

Sono in molti a chiederselo e, del resto, il consenso di cui godeva la candidatura di Vincenzo Colla alla segreteria generale – che fino all’ultimo ha tenuto testa a Landini – aveva proprio questa forte propensione: quella dell’autonomia del sindacato dalla politica. Sono tuttavia convinto che, oggi, per Landini sia più importante l’unità del sindacato che il ponte con la politica. E credo che, all’interno del sindacato, siano tutti consapevoli del fatto che il loro destino si gioca sull’unità sindacale.

Possiamo dire che siamo all’inizio della fine della disintermediazione?

È presto per affermarlo in modo così netto, anche perché mentre la politica ha fortemente accelerato sui processi decisionali – al di là del bene e del male – il sindacato ha sicuramente fatto progressi su questo punto ma il passo va velocizzato. Ad ogni modo, è evidente che sta avvenendo qualcosa per cui politica e sindacato stanno tornando nuovamente a cercarsi: del resto, i cantieri aperti in particolare su salario minimo e reddito di cittadinanza – misura che va assolutamente perfezionata se non vogliamo continuare a sprecare denaro – chiedono risposte intelligenti. La questione del salario minimo, in particolare, esprime tutta la complessità del nostro sistema lavoro e solo in modo condiviso si possono evitare danni: la soluzione passa attraverso la validazione dell’efficacia erga omnesdei contratti e la fissazione dei criteri di misurazione della rappresentatività. Si può scrivere una pagina importante a cinquant’anni dall’autunno caldo.

Si parla anche del taglio del cuneo fiscale…

Si. E onestamente credo che anche questo sia un aspetto da considerare con molta attenzione. Innanzitutto, parliamo di taglio del cuneo fiscale a vantaggio dei lavoratori, come – oltre ai sindacati – chiede la stessa Confindustria. In Italia, gli stipendi sono da 25 anni fermi e, come ci ha detto il rapporto Coop in questi giorni, lavoriamo mediamente 360 ore in più all’anno dei tedeschi con stipendi inferiori del 30% e, praticamente, lo stesso livello di cuneo fiscale. In questo momento non favorevole per l’economia, la leva fiscale è l’unico strumento che può riportare equilibrio nello scambio lavoro-salario, anche se qualcosa dovrà migliorare nel nostro modello contrattuale: senza la contrattazione territoriale, in tutte quelle aziende dove non vi sono accordi di secondo livello, vi sono forti limiti di distribuzione della ricchezza che, nella migliore delle ipotesi, avviene in modo unilaterale e del tutto arbitrario.

Proprio il taglio del cuneo fiscale, insieme a forme di incentivi annunciati per le imprese green e industria 4.0, è provvedimento piuttosto oneroso per le casse dello stato. È sicuramente interessante questa (per il momento apparente) virata di Bruxelles e Italia su politiche di sviluppo, ma con quali risorse può avvenire tutto questo?

Questo naturalmente è un aspetto fondamentale. Vedremo quali scelte concrete farà il governo. Detto questo, è chiaro che molto dipende anche da come i soldi vengono spesi: se sforando il deficit si scelgono misure di mero assistenzialismo, evidentemente non vi è nessun ritorno dal circuito dell’economia; se invece le stesse risorse vengono investite in un piano infrastrutturale, non solo si porta efficienza al nostro sistema produttivo ma si creano effetti positivi su occupazione e consumi. Credo che un paese come il nostro, che eccelle nell’industria e nella manifattura, debba fortemente innovarsi nelle sue infrastrutture che oggi creano un gap in termini di competitività.

E questo riavvicinamento di politica e sindacato, a che tipo di “autunno” prelude?

È sicuramente un fatto positivo che, se passa attraverso i giusti interventi, può essere preludio di una nuova stagione. Naturalmente ce lo auguriamo tutti anche se non sarà semplice. Le variabili sono diverse e molto dipenderà anche dalle politiche che l’Europa deciderà di mettere in campo. Da questo punto di vista, l’annuncio della BCE di far ripartire il Quantitative Easing, va visto con molta attenzione: il QE è strumento prezioso per un Paese come il nostro. E non solo per noi. Tuttavia, l’auspicio più grande è che tra il nazionalismo e la burocrazia possa esistere una terza via. E continuo a pensare che questa terza via è quella della democrazia liberale di cui l’Europa è terra d’origine. O, per usare parole di Karl Popper care a me e a Giulio Giorello, della “società aperta”.

“Per durare il Conte2 dovrà creare un amalgama per la coalizione”. Intervista a Fabio Martini

Con il voto di ieri sera al Senato il governo ha ottenuto la Fiducia. Si conclude, così in modo imprevisto, la crisi politica scatenata da Matteo Salvini poco più di un mese fa. Quali sono i nodi politici dell’inedita coalizione “5 Stelle – PD”? Come si svilupperà la navigazione del “Conte 2”?
Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, il Conte 2 ha ottenuto la fiducia. Sappiamo quanto il parto sia stato complicato. A questo riguardo facciamo un passo indietro. La crisi nasce dalla decisione di Salvini di “capitalizzare il consenso elettorale” della Lega. E scatena la crisi dopo l’approvazione da parte del parlamento del decreto sicurezza 2 e della TAV. Due risultati positivi per la Lega. È un Salvini che ha il vento in poppa, euforico a dismisura (chiede i “pieni poteri”. E qui comincia il disastro…. La hubris si è manifestata con effetti imprevisti per lui: da dominus assoluto del governo si ritrova all’opposizione…. Cosa non ha funzionato nel calcolo di Salvini?
Il capo della Lega non ha fatto bene i conti con i numeri in Parlamento, con la volontà quasi disperata dei Cinque stelle di evitare la distruzione personale e politica di capi e parlamentari nelle elezioni, a quel punto imminenti. E non ha calcolato quanta poca presa il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, avesse sui propri gruppi parlamentari. Come si può notare troppi errori in una volta sola. Anche se un errore più degli altri, agli occhi di Salvini, deve risultare imperdonabile: non aver capito la psicologia politica dei Cinque stelle con i quali ha convissuto per quasi un anno e mezzo.

Stando agli ultimi sondaggi, per quello che possono valere, la Lega ha pagato il pegno per questo errore politico di Salvini: perde punti percentuali, così come la fiducia in Salvini diminuisce. Ti chiedo, è strutturale questo calo?
Nessuno può dirlo. Il calo c’è, ora Salvini tenterà di fermarlo. Magari attenuando la propria natura guascona. Non si può affatto escludere, come segnala il suo intervento in Senato, un profilo diverso: tosto ma non distruttivo. Certo, si proporrà come capo dell’opposizione. E curiosamente anche come punto di riferimento per i fautori di una democrazia governante. Se, come pare, torna il sistema proporzionale, la politica torna in mano a quattro capi, pronti a fare e disfare come meglio credono. Che Salvini riprenda la battaglia di Romano Prodi, di Mario Segni, di Achille Occhetto e del primo Berlusconi è un paradosso, uno dei tanti di questa stagione.

Veniamo al Presidente Conte, indubbiamente ha dimostrato abilità. È un nuovo Zelig o l’Italia ha scoperto un nuovo statista?
Un po’ Zelig lo è, ma nessuno come lui incarna come lui questa stagione così cangiante e così indifferente ad un minimo di coerenza. Nessuno meglio di lui, perché nei 14 mesi della prima stagione da presidente del Consiglio ha dimostrato di saper maneggiare bene la dimensione di governo, i dossier, la macchina amministrativa. Di statisti l’Italia ne ha avuti pochissimi e secondo qualcuno bisogna tornare a De Gasperi per trovarne uno degno di questo nome. E comunque sia chiaro: senza il decisivo appoggio di Sergio Mattarella, nelle ore del veto espresso dal Pd su di lui, Conte non sarebbe più a palazzo Chigi. Si scrive Conte-2, ma si legge Mattarella-1.

Parliamo di alcuni protagonisti di questa “pazza crisi”. Il governo “giallo-rosso” ha tanti “padri”. Incominciamo dalla “coppia” inedita: Gríllo-Renzi. Per motivi opposti hanno sbloccato il percorso. Ti chiedo : che ruolo giocheranno? Si dice che il premier Conte temi Renzi. Per te?
Beppe Grillo sembrava confinato nell’irrilevanza, ogni tanto emetteva le sue sentenze, ma nessuno dei suoi lo ascoltava più. E invece ha giocato un ruolo decisivo, nel far pendere la bilancia a favore del nuovo governo e contro, decisamente contro, gli orientamenti della Casaleggio e di Luigi Di Maio. Ora tornerà nel suo ruolo di profeta, con la  differenza che ogni volta che si sveglierà dal suo silenzio, gli altri saranno costretti ad ascoltarlo. Renzi ha compiuto quel che ogni politico dovrebbe avere nel suo vademecum: in ogni azione tentare di conciliare l’interesse generale e quello personale. Se ci fossero state elezioni anticipate, Renzi sarebbe stato ulteriormente ridimensionato. Ora può giocarsi la sua partita del partito moderato e decidere lui quando chiudere la legislatura. Da questa visuale, Conte dovrà scrutare sempre con la massima attenzione le mosse di Renzi.

Altra coppia inedita : Di Maio – Zingaretti. I due capi partito hanno giocato una partita parallela. Il risultato, forse mi sbaglierò, è che tra i due il più “caldo” nei confronti di questa esperienza governativa sia Zingaretti…. Di Maio è ancora “orfano” di Salvini?
E’ vero il più caldo appare Zingaretti, che inizialmente puntava ad elezioni anticipate. Ora si è “accomodato” bene nel nuovo scenario e lo incoraggia con aggettivi entusiastici, che oggettivaente stridono con gli anatemi e i “mai e poi mai” scagliati per mesi contro i 5 stelle. Il leader di un partito, una volta gettato il cuore oltre l’ostacolo e una volta entrato in un governo, non può che diventarne un paladino. Quanto a Di Maio, una volta escluso il fattore affettivo, di chi si potrebbe sentire “orfano” di un altro leader, la prossima decisione veramente strategica riguarda le elezioni regionali: se in una, o più di una delle Regioni dove si vota, i Cinque stelle accederanno ad un’alleanza organica col Pd, allora la mutazione genetica del M5s avrà segnato il passaggio decisivo: da forza anti-sistema a forza dentro il sistema. In un’alleanza di sinistra.

Uno sguardo alle opposizioni. Quello che emerge è una accentuata radicalizzazione sovranista del “centrodestra” (molto più destra che centro). Dove andranno i “moderati” di Forza Italia?
I moderati di Forza Italia confluiranno in una nuova formazione moderata, che si farà sicuramente ma non ha ancora contorni precisi

Pensi che questa radicalizzazione della Destra possa creare un nuovo bipolarismo?
Avremo un sistema a quattro poli, dunque diverso dal tripolarismo del post-2011: allora c’era il centro-sinistra, il centro-destra e il grillismo. Ora si va verso quattro poli: Pd, 5 stelle, nuovo Centro, destra-centro.

Comunque sia al di là dell’antisalvinismo, che non è sufficiente per creare una amalgama governativa (intesa come “anima”, “respiro”). Pensi che l’orizzonte europeo possa creare questo?
Anima e respiro se ne vedono pochi, siamo alla sopravvivenza pura. Per tutti. Certo, l’anti-salvinismo non basta, ma per ora non c’è Europa che possa aiutare: il coraggio se non ce l’hai, non te lo regala nessuno. E neanche lo spessore politico. Si navigherà alla giornata
Il premier Conte guarda al suo governo, come ad un governo di legislatura.

Proprio per la mancanza di una amalgama profonda non mancheranno le difficoltà di navigazione. Quando si manifesteranno?
Questo governo nasce per prendere tempo e per impedire a Salvini di prendersi il Paese. Probabilmente per arrivare all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica nel 2022, la ricetta “migliore” sarà quella di mettere in cottura il minor numero di cose possibile. Per non lacerarsi. Non decidere per durare.

Le elezioni amministrative in Emilia, Toscana e Umbria costituiranno un pericolo per il governo?
In Umbria il Pd rischia molto e se non ci saranno alleanze col M5s, una sconfitta in una Regione rossa non sarebbe un buon viatico per il governo. In Emila e Toscana i  rischi sono assai relativi per il Pd. Il governo? Molto dipenderà dalle alleanze Pd-M5s, che in troppi danno per scontate. Se ci saranno, il governo non rischierà nulla, se non ci saranno i rischi aumentano ma non di molto.

Chi rischia di più in questa esperienza governativa? Il PD o il M 5stelle?
Entrambi. Una ragione di più per abbandonare lo schema del precedente governo, ognuno con la sua bandiera e puntare invece su riforme condivise e non soltanto finalizzate al consenso breve.

“La devastazione dell’Amazzonia è una conseguenza dell’avidità di denaro e dell’ ambizione sfrenata di profitto”. Intervista a P. Roberto Jaramillo S.J

 

Con questa seconda intervista, dopo quella al teologo brasiliano Leonardo Boff, concludiamo il nostro
approfondimento dedicato all’Amazzonia e al Sinodo sull’Amazzonia, convocato nel mese di Ottobre, a
Roma, da papa Francesco. Oggi il dialogo è con Padre Roberto Jaramillo Bernal, gesuita colombiano,
Presidente della Conferenza dei Provinciali gesuiti dell’America Latina e dei Caraibi.

 

 

 

 

Cosa può fare la comunità internazionale per difendere l’Amazzonia?
Due settimane fa abbiamo assistito a un momento unico di consapevolezza planetaria sull’importanza dell’Amazzonia: dopo 17 giorni di incendi, quando nella grande città di San Paolo (Brasile) il pomeriggio si è oscurato dalla densità del fumo proveniente dagli incendi dall’Amazzonia, il mondo intero ha iniziato a spaventarsi; e solo allora (seconda settimana di agosto) i grandi “media” e i governi iniziarono a pronunciarsi. L’azione efficace ha richiesto molto più tempo e in alcuni casi non si è nemmeno verificata. Tuttavia, dopo due settimane di dibattiti, accuse, foto scandalose e dichiarazioni di buona volontà, oggi le notizie che destano preoccupazione nello “spazio sociale” sono altre. Nonostante ciò, la nuova coscienza planetaria è piena di speranza; ma la preoccupazione comune per la “casa in cui viviamo” dovrebbe essere non solo promettente, ma anche riparativa. Ed è qui che credo che la comunità internazionale debba – contrariamente alla manipolazione effimera delle notizie (e non sto esprimendo un giudizio morale) – lavorare su due compiti fondamentali: in primo luogo pressione globale dei cittadini sui governi che hanno responsabilità diretta nella cura e conservazione delle foreste tropicali del mondo, ovvero: l’Amazzonia, il bacino del Congo e le foreste dell’Asia meridionale e orientale; e quando dico “pressione” non mi riferisco solo ai governi di quei paesi, ma anche a coloro che sfruttano o hanno sfruttato secolarmente quei territori e quei popoli a loro vantaggio. In secondo luogo, abbiamo la sfida – che a volte sembra impossibile – di generare e sviluppare un compito educativo attraverso il quale gli abitanti della terra assumono abitudini di consumo responsabile nel consumo del cibo, nell’igiene, nell’industria, nella estetica, nell’edilizia, nei trasporti e nei campi più svariati. Il compito sembra essere solo all’inizio e ha molti nemici.

 

Sappiamo che le irresponsabili politiche del governo di Bolsonaro sull’Amazzonia si basano su un’ideologia “estrattiva”. Ma esiste anche la pericolosa ideologia “sovranista”, ovvero “l’Amazzonia appartiene al Brasile”. Questo dice Bolsonaro. È così?
Bolsonaro non è altro che l’espressione di metà di un paese che lo ha eletto presidente, come è accaduto in altri paesi potenti: Stati Uniti, Israele, India, Russia, Cina. Il nazionalismo non è una malattia tropicale o brasiliana, ma un’arma politica per difendere gli interessi egoistici e meschini, sempre più monopolizzati a livello internazionale. Il problema di questo dibattito sull’internazionalizzazione dell’Amazzonia non è geografico ma politico; di più, non è nemmeno geopolitico ma geo-economico (e non solo per il governo brasiliano): ciò che viene difeso non sono gli interessi nazionali ma quelli economici delle imprese!Questo è il motivo per cui è così importante sviluppare quella coscienza universale riguardo alla “casa comune” e che si traduce in pratiche concrete di consumo sempre più responsabile (austero) e nell’esercizio di una cittadinanza universale che non dovremmo lasciarci portare via (ricerca, dibattito, pressione, organizzazione). 

 

Oltre a queste ideologie, quali sono le altre “strutture di peccato” che stanno devastando l’Amazzonia?
Devastare è una parola piuttosto pesante; penso, in verità, che la devastazione delle foreste tropicali del mondo – dall’Indonesia e dalla Malesia, dalle foreste del Congo alla Panamazonia – sia una diretta conseguenza dell’avidità di denaro e dell’ambizione di guadagni egoistici e senza misura.Dietro quella pulsione che vende come “naturale” il sistema attuale vi è un enorme , un tremendum vuoto: e questo tremendum ha a che fare con lo spirituale e il religioso. Esistono alcune “strutture di peccato” (per continuare con l’espressione della tua domanda) che avvelenano la testa e il cuore di persone e gruppi: famiglie, corporazioni, compagnie, partiti, nazioni e che rendono l’umanità veramente cieca: cammina verso la propria distruzione. Come ha ripetuto Greta Thungber nei suoi discorsi: i nipoti dei “Bolsonaros della vita” – per quanto ricchi possano essere – non avranno né acqua pura, né acqua potabile né cibo sano. Questo è ciò che stiamo lasciando alla prossima generazione. 

 

Come si muove la Chiesa cattolica per difendere l’Amazzonia?
Anche la Chiesa si sta svegliando lentamente. Storicamente non siamo stati un esempio per nessuno: sia i conquistatori che i colonizzatori di ieri e di oggi sono stati principalmente il frutto del cristianesimo: questo tipo di umanità devastante che in cinquecento anni ha messo a rischio il frutto di milioni di anni di evoluzione.Tuttavia, all’interno di questo cristianesimo ci sono molte persone, e anche persone della Chiesa cattolica, che iniziano a pensare e agire in modo personale e istituzionale in un modo nuovo. Ad esempio, l’accoglienza straordinaria che l’enciclica Laudato Sì ha avuto negli ambienti universitari dell’America Latina, specialmente tra le persone che non confessano di essere credenti praticanti, è un chiaro segno che la Chiesa è in grado di ascoltare e sintonizzarsi con i desideri più profondi dell’umanità: quelli con i quali “lo Spirito geme al suo interno come per i dolori del parto” (Rom. 8, 22-23).Le chiese della regione amazzonica hanno una speciale sensibilità spirituale che si rivela essere un dono per il corpo universale. E il suo più grande contributo è l’affermazione, la difesa e la promozione di risorse umane, etiche e spirituali, che sostengono una visione globale, attenta e compassionevole della creazione. 

 

Sappiamo dalla storia che esiste un legame profondo tra la Compagnia e la causa degli indios. Come si sviluppa concretamente l’azione di promozione umana della Compagnia nei confronti degli indios?
Nella cosiddetta panamazzonia, condivisa da 9 paesi sudamericani, i gesuiti hanno una presenza significativa per noi e per la Chiesa (anche se piccola) nel lavorare con le popolazioni e le culture native: nell’alta giungla del Perù, nelle pianure di Moxos in Bolivia, nella Guyana inglese occidentale, nelle savane del sud dell’Orinoco, nella foresta pluviale dell’Ecuador, e da Leticia (Colombia) a Belem do Pará (Brasile) alla foce dell’Amazzonia; Ci sono circa 45 gesuiti che lavorano a tempo pieno.Una priorità apostolica è lavorare e sostenere le iniziative di organizzazione e difesa culturale delle molte popolazioni indigene che abitano secolarmente in questi luoghi: compiti pastorali ed educativi, difesa e promozione dei diritti umani individuali e collettivi, promozione delle loro culture, comprese le loro visioni politiche e religiosi, sostegno nella difesa dei loro territori e progetti di vita, tra gli altri, sono opere realizzate dai Compagni di Gesù insieme a molti altri religiosi e laici con i quali collaboriamo.Insisto sul fatto che è un lavoro significativo per noi (e forse per le chiese locali) ma che di fronte all’immenso territorio umano e geografico che abbiamo di fronte è molto piccolo: come un fermento nel mezzo della massa. Stiamo imparando insieme a molti altri che sono lì e che sono rimasti per secoli al servizio dei popoli nativi dell’Amazzonia. 

 

Papa Francesco, come sappiamo, ha convocato, per il prossimo ottobre, il Sinodo sull’Amazzonia. Nell’Instrumentum laboris, molto denso e profondo, c’è la proposta di promuovere una “ecologia integrale” in Amazzonia. Cosa significa questo?
È forse il concetto più originale che Papa Francesco abbia avuto la grazia di coniare e far circolare nella discussione anche teologica dell’umanità di oggi. Non è facile dire tutto quello che significa il concetto di “ecologia integrale” perché in ogni specifica situazione di discussione e analisi è necessario considerare variabili eco-logiche che in un’altra situazione non sarebbero contemplate.Ma l'”integrale” ha, oltre a quel senso di complessità, un altro senso ancora più carico della propria forza e che il Papa esprime quando dice: “Tutto è collegato a tutto”, tutto è interconnesso. L’enfasi non è più posta sugli elementi integrabili e sulla loro complessità, ma nel complesso che gli elementi costituiscono, il che, credo, è ciò che rende peculiare la discussione che propone il papa. È un paradigma di particolare conoscenza, molto diverso da quello che il genericamente chiamato “mondo occidentale” ha prodotto, coltivato e diffuso, e che ha dimostrato il suo fallimento nei risultati che dice che desidera: uguaglianza, fraternità, libertà. Un paradigma diverso molto più vicino a quello dei popoli originali e alla visione spirituale (mistica religiosa) della realtà nel suo insieme e dell’essere umano in essa. 

 

Pensa che il Sinodo avrà conseguenze politiche favorevoli per il popolo dell’Amazzonia?
Le conseguenze politiche che il Sinodo avrà sicuramente hanno a che fare principalmente con l’ascolto dei popoli amazzonici e quindi con “far sentire la loro voce” a livelli sempre più ampi e decisivi; e, in secondo luogo, con le dinamiche della partecipazione popolare (ecclesiale) che erano già state generate in questo periodo di preparazione dall’annuncio del sinodo a Puerto Maldonado (2018), nonché con quelle che possono essere generate e promosse grazie alla conversione delle chiese amazzoniche (che dipendono in gran parte dai vescovi sinodali) nelle chiese locali di vera comunione.Si tratta di recuperare, valorizzare e promuovere comunità aperte e inclusive, dove la povertà personale e sociale è bandita e la responsabilità e la condivisione reciproca sono reali, dove il vangelo di Gesù è una fonte di ispirazione non solo per celebrare la Messa in modo autoctono (fonte e culmine della vita ecclesiale), ma rendere la vita ordinaria un’Eucaristia permanente dove ognuno ha cibo, terra, educazione, salute, “voce e tempo”, come di solito cantano in Brasile; e un clero che è veramente al servizio del popolo di Dio (più simile al figlio molto piccolo della mangiatoia, che all’Altissimo della Gloria).Niente di più politico che vedere sempre più chiese più evangeliche. Il sinodo promette di alimentare questo processo; sebbene ci siano ostacoli e nemici. 

 

Nuovi percorsi pastorali sono proposti per la Chiesa in Amazzonia. Ad esempio, una parte del documento può portare a una nuova visione dei ministeri. In particolare, il ministero ordinato. I conservatori stanno attaccando su questo punto. Pensa che il Sinodo sarà in grado di resistere?
Una cosa importante è sapere, comprendere e accettare che si tratta di un “sinodo speciale” per l’Amazzonia (terza modalità di un sinodo, che non è la stessa di un “terzo sinodo” come alcuni vorranno vederlo a seconda delle loro conclusioni). Personalmente, mi sembra che sia una tentazione e che faccia del male al sinodo far finta che parli “come ex catedra”, cioè: che i padri sinodali convocati per discernere i nuovi percorsi che le chiese amazzoniche pretendono (o aspettano loro) danno lezioni a tutta la chiesa (speriamo di non essere contaminati da questa “ideologia”, i mass media certamente la forzeranno).Nello specifico, quel punto sui ministeri necessari per la vita delle chiese amazzoniche deve essere messo in quella prospettiva. Non credo che il Sinodo dirà o chiederà di attuare tutto ciò che non è già stato detto e rivendicato dal Concilio Vaticano II, che ha affermato con tutta l’autorità della Chiesa (in lettere maiuscole TUTTI) la ministerialità propria del popolo di Dio, la centralità e l’urgenza della comunione eucaristica nella costruzione e realizzazione della comunità ecclesiale e la funzione clericale come uno tra molti altri servizi possibili e necessari per la missione di tutto il corpo ecclesiale. Molti cattolici non hanno letto né conosciuto l’ultimo concilio.

 

 Ultima domanda: Papa Francesco sta dando alla Chiesa una svolta nel segno della “Chiesa uscente” e della sinodalità. Sappiamo che i nemici di Francesco, che non sono solo ecclesiastici, stanno facendo tutto il possibile per limitare la forza delle sue riforme. Pensa che il percorso intrapreso da Francisco sia irreversibile?
L’elezione del cardinale Bergoglio come papa è stata una sorpresa assoluta per lo Spirito e lo abbiamo vissuto in questi anni come un dono straordinario, non solo per la Chiesa ma per il mondo intero. Nonostante le paure che possono sorgere e persino giustificare una semplice analisi sociologica della Chiesa come istituzione mondiale, ho una profonda convinzione – non solo una credenza ma una fiducia basata sulla fede – che è lo Spirito Santo che ci guida, ora con Francesco in testa e che quando arriverà il momento continuerà a mostrarci la strada da percorrere.

 

(Ha collaborato Alberto Cuevas)