
Il governo Conte2 ha iniziato il suo cammino. Il cammino, come si è visto in questi giorni, non si presenta per nulla facile. Quanto influirà la scissione renziana? Lo stile dialogico del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, avrà la meglio sulla politica degli ultimatum di Di Maio? Matteo Salvini radicalizzerà ancora di più lo scontro? Di tutto questo parliamo , in questa intervista, con il politologo Alfio Mastropaolo. Mastropaolo è Professore Emerito di Scienza della Politica all’Università di Torino.
Professore, sono passati poco più di un mese, da quando Matteo Salvini ha aperto la crisi, per chiedere agli italiani “pieni poteri”. Nel frattempo è nato il governo Conte 2, Matteo Salvini è all’opposizione e Matteo Renzi ha lasciato il PD. Insomma una serie di novità non da poco. E stando così le cose non si prevede una navigazione troppo tranquilla per il Governo. È così professore?
Si possono tirare in ballo un mucchio di spiegazioni. Siccome i problemi sono ricorrenti, sono ricorrenti pure le spiegazioni. Tre mi vengono in mente più di altre, scartando quella, insulsa, dell’inadeguatezza delle nostre istituzioni. La frammentazione politica è la prima. Il deficit etico di una parte cospicua della nostra classe politica è la seconda. La terza è l’entità dei problemi da affrontare. Quando il materiale umano è scadente, non ci sono santi. Quando si pretende troppo è inevitabile il disastro. Non bastasse, tutte le classi dirigenti occidentali si trovano da tempo di fronte a sfide difficilissime: quadrare il cerchio, diceva Dahrendorf. Ovvero conciliare crescita economica, coesione sociale e libertà democratiche. A quanto pare, pochi paesi ci riescono decentemente. L’Inghilterra, eterno modello per chi ne sa poco, è lacerata da una crisi sociale di cui il Brexit è solo il sintomo. Ci sono proteste populiste e razziste per ogni dove, fin nella Scandinavia felix. Ovunque, ahimé, si prospetta il sacrificio (soft) alla crescita di due degli ingredienti di Dahrendorf. Gli investimenti in coesione sociale sono in declino da tempo, il malessere cresce e suscita reazioni scomposte, si ricorre perciò alle maniere forti è possibile e la libertà è messa in dubbio. Da qualche parte la crescita ha tenuto, ma mai in maniera brillante, e la Grande recessione ha fatto danno dappertutto. Quindi c’è pure il rischio che il sacrificio della coesione sociale e della democrazia sia inutile. La qualità del personale politico è ovunque in declino. Si usa la politica per fare affari, o per farli fare agli amici. Oppure per ambizioni personali. Chi potrebbe far meglio è scoraggiato e fa un altro mestiere. Con differenze tra paese e paese. Quelli che all’inizio di questo ciclo stavano meglio hanno seguitato a star peggio. Quelli che stavano peggio, per ragioni storiche, hanno seguitato col peggio. Non navigano. Ben che vada galleggiano. Si aggiustano coi mezzi di cui dispongono. L’Italia galleggia da troppo tempo, imbarca troppa acqua. Il brutto è che non sappiamo come rimediare.
Così in Italia tra prima e dopo le elezioni sono emerse tre ricette. La prima, non so come definirla, forse continuista e europeista, era quella condivisa, con qualche variante, dal Pd renziano e da Forza Italia: attenzione ai mercati e accondiscendenza verso l’Europa. Contro è apparsa la ricetta sovranista-xenofoba. La terza ricetta la chiamerei l’illusione civica: prendiamo l’uomo della strada e facciamo di lui il protagonista della politica e dell’azione di governo: moralità e buon governo seguiranno. Gli elettori hanno fatto le loro scelte, ma ne è risultato un pasticcio. Come cavarne una maggioranza di governo? I 5 stelle si sono alleati col sovranismo, hanno perso la loro pretesa verginità morale e hanno permesso ai sovranisti di fare alle europee l’en plein dell’elettorato conservatore e moderato. Finché in un delirio di onnipotenza il leader sovranista, ha rotto la coalizione e se n’è formata una nuova. Più omogenea politicamente? Non direi, quanto a gruppi dirigenti, ma forse si, per gli elettorati. Una larga fetta degli elettori a 5 Stelle proviene dal Pd. C’era ovviamente da fare i conti con la diversità del personale politico. Le frizioni erano scontate. I programmi non sono proprio gli stessi. Comunque, si è fatto un nuovo governo. Con un programma di fedeltà europeista, ma anche con qualche innovazione prodotta sia da alcune sollecitazioni pentastellate, sia da qualche ripensamento in favore della coesione sociale entro il Pd. Renzi si è fatto promotore dell’operazione, togliendo la scomunica ai 5 Stelle, per calcoli a tutti ben noti. Zingaretti, che mi pare un mediano di quelli all’antica, non l’ha contraddetto più di tanto, ha neutralizzato il suo gusto di fare il bastian contrario e ne ha ricavato qualche profitto. Adesso l’ego di Renzi fa di nuovo le bizze, ma siccome si tratta di ego, a mio modesto parere, e non di un progetto politico, è inutile provarsi a fare previsioni serie. Lasciamolo contrattare un po’ di nomine e andiamo alla sostanza.
Veniamo all’ultimo avvenimento, da alcuni atteso, da altri temuto: la scissione di Matteo Renzi. Leggendo l’intervista di Renzi al quotidiano “La Repubblica”, ho fatto fatica a trovare un dato politico che potesse essere credibile per una scissione. Ho trovato molto ego… Del resto siamo nel tempo del l’egolatria… Che idea si è fatto della scissione? E quale l’obiettivo di Renzi?
Premetto di non avere una passione per Renzi. Per me la politica è una cosa diversa dalla leadership, dal personalismo, dal seguito osannante, dalle suggestioni mediatiche, dai colpi ad effetto (che poi suscita il gioco di buttare giù il leader dalla torre). Figurarsi se può sembrarmi seria la pretesa di un partito “allegro e divertente”, con corredo di capo carismatico che decide per tutti. Resto dell’idea che la politica è gioco di squadra: siamo in tanti e decidiamo di unire le nostre forze per fare qualcosa insieme. Ciò non toglie che il gesto di Renzi riproponga un problema serio e di assai più ampie dimensioni. Quello della ristrutturazione mai compiuta del sistema dei partiti e delle culture politiche. La confusione imperversa addirittura dal 1989, quando la politica italiana fu sconvolta dalla caduta del Muro e dalla mossa di Occhetto. Più tardi si aggiungerà il collasso della Dc, del Psi, dei partiti laici. Che in quella fase di grande rimescolamento di carte la tradizione socialista, a suo modo interpretata anche dal Pci, potesse trovare un punto d’incontro col solidarismo cattolico, era ragionevole. Era pure plausibile immaginare una revisione, anche profonda, ma coerente con lo spirito del tempo, segnato dal neoliberalismo: è successo in tutte le formazioni di sinistra europee. Ma un incontro di culture politiche è una cosa seria, su cui discutere, da preparare. Invece è stata, come dicono in tanti, una fusione a freddo. Una chiamata alle armi contro Berlusconi, che intanto aveva ricomposto, senza neanche lui ristrutturare granché, il centro-destra: solo la sapienza politica della Dc era riuscita a dare un senso al moderatismo nazionale. La chiamata alle armi si è risolta in assemblaggio di cordate dirigenti in cerca di collocazione, con in più alcuni (gli ex-Pci/Pds) smaniosi di liberarsi di un passato di cui, chissà perché, dovevano farsi perdonare. Racconta bene la storia l’ultimo libro di Antonio Floridia (Un partito sbagliato, Castelvecchi, 2019). Ne è venuto fuori un nido di vipere. In testa al Pd c’è un ceto politico eterogeneo, che ha buttato a mare la cultura del partito in quanto libera associazione dei cittadini e che si è lasciata affascinare dalla fiaba del partito personale, del Berlusconi di sinistra che andava scoperto, senza un progetto sul futuro del paese, dai costumi politici molto eterogenei e per nulla presente nella società italiana. È un partito incapace di darsi una qualche disciplina. In assenza della quale è da ultimo apparso Renzi, il più lesto a profittare della confusione. Ora Renzi lascia la compagnia. Quale progetto politico incarni lo sa solo lui. Aveva cominciato con Blair per riconvertirsi a Macron: dalla destra della sinistra alla destra e basta, che per antica ipocrisia chiamano centro. Chi sta peggio comunque sono gli elettori di centrosinistra, ricordiamolo, che hanno trascorso quasi trent’anni sulle montagne russe. L’elettorato popolare, soprattutto. La parte più consistente proveniva dal Pci. Ha sopportato stoicamente anche una conduzione fallimentare del governo del paese (colpa più di Berlusconi che del Pd). Finché la crisi economica e politica è divenuta culturale e morale. E se ne sono andati. Si astengono, o votano 5 Stelle, qualcuno anche Lega. Più o meno allo stesso modo, tra personalismi e divisioni, si sono consumati i tentativi di aprire spazi a sinistra del Pd. Vediamo se il bravo mediano di cui sopra saprà fare il miracolo. Certo l’avversione a Salvini, come già a Berlusconi, è un ben misero movente. Il fatto che un ben po’ di renziani sia rimasto dentro non aiuta. Per carità, le conversioni in politica sono all’ordine del giorno. Ma con quale animo sono rimasti? Saranno leali e contribuiranno col loro punto di vista a un ripensamento del partito, o faranno da quinta colonna? Comunque, dalle difficoltà in cui versa il Pd non si esce con le manovre di corrente, ma, come sottolinea Floridia, discutendo, pensando, studiando e elaborando un progetto politico.
Veniamo a Matteo Salvini. Il leader leghista, nonostante la sconfitta parlamentare, riesce a mantenere alto il consenso. E la sua collocazione all’opposizione lo favorisce. Il pericolo Salvini è ancora reale…
La radicalizzazione della destra promossa da Salvini è un problema gravissimo. È una destra del tutto incompatibile coi valori della Costituzione. Già lo era quella di Berlusconi, che almeno non era brutale. Questa lo è verbalmente e anche un po’ materialmente. Come sempre, però, la questione è complicata, perché questa nuova destra ha una testa e ha pure un corpo. La testa è Salvini, che è un tribuno, con suo seguito di tifosi, che lui ha messo in scena e aizzato a Pontida animando uno spettacolo indegno. Il corpo sono i suoi elettori, che sono per lo più elettori moderati, che hanno tutto il diritto di esserlo, anche se non siamo d’accordo con loro. In larga parte trasmigrati dal grande seguito berlusconiano. Ci sono quelli che votano col portafoglio: che è una motivazione molto seria. Al netto della propaganda xenofoba, Salvini promette loro meno tasse e meno vincoli burocratici. È un’alternativa sgangherata a ciò che servirebbe davvero e che non si riesce a ottenere: amministrazioni e servizi più efficienti, semplificazione delle procedure, spesso insopportabili, un fisco più rigoroso, ma anche meno esoso. C’è poi una quota di elettori conservatori, che sono soprattutto impauriti e faticano a sopportare le novità. Bisogna capirli. Il livello medio d’istruzione è modesto. Spesso sono anziani. C’è un fondo provinciale, che mal sopporta il femminismo, i matrimoni omosessuali e molte altre novità. Da ultimo si aggiunta l’immigrazione, spregiudicatamente strumentalizzata da Salvini e dai media. A suo tempo questi ceti li curava la Dc, che riusciva a mescolare abilmente tanti temi. Più tardi hanno votato Berlusconi, che li abbacinava. Adesso si rivolgono a Salvini. Forse non si accorgono nemmeno del suo stile. Era un’idea cretina che, morta la Dc, si sarebbe costituita una destra moderata e magari liberale, che in Italia è sempre stata minoritaria. Un pezzo di questi elettori impauriti li curava in alcune regioni pure il Pci. Il Pd nemmeno ci pensa. Ora, questo elettorato c’è e bisogna occuparsene seriamente, anzitutto informandolo meglio. Se la televisione pubblica facesse il suo mestiere, si potrebbero smussare certi eccessi, controllare molte paure. Anche se il compito è difficilissimo. Non ci riesce nemmeno papa Francesco (che peraltro si porta appresso il ricordo del papato muscolare di Giovanni Paolo II). Della religione ormai ci si serve à la carte. Mi è capitato in una magnifica chiesa da queste parti. C’era un cortesissimo signore che ne illustrava con competenza le bellezze artistiche. Ha concluso evocando la battaglia di Lepanto. Li fermeremo un’altra volta. Cosa vuoi dire?
Con la scissione “fredda” Matteo Renzi diventa il terzo azionista della maggioranza… A Conte fischiano le orecchie?
Conte è venuto fuori alla distanza. Bisogna capirlo. Prendi un professore universitario, spero non si offenda, che, come gran parte degli accademici, ha scarso uso di mondo, o meglio di mondo politico. È rimasto frastornato. Intanto dall’io debordante di Salvini e poi dall’ingenuità maldestra di Di Maio, che cercava di tenere il passo. Lui in mezzo. Sarei molto curioso di sapere come ha vissuto quest’esperienza. Non era anzi mai capitato. Per un capriccio del caso uno che non c’entrava né punto né poco si è ritrovato capo del governo, che, dopotutto, è un ruolo gratificante. Mi sono chiesto più volte quando un signore palesemente di buona cultura avrebbe reagito alle provocazioni. Finalmente ha imparato, ha capito che il ruolo chiave conferitogli dal caso e si è mosso abilmente per utilizzarlo. Adesso dispone di una maggioranza più omogenea, con priorità programmatiche più compatibili. Certo, se Renzi la finisse coi capricci sarebbe meglio. La sfida è far funzionare un governo tra gente che si è presa a sassate e che sappia usare quei sassi altrimenti: a me è piaciuta la citazione del Talmud di Franceschini. Fare funzionare il governo significa affrontare le priorità del paese. Che sono drammatiche. Il debito pubblico è un handicap, comunque lo si consideri. Le imprese devono essere messe in condizione di reggere la competizione globale, i lavoratori vanno protetti, il Mezzogiorno sta affogando. C’è un ritardo mostruoso nell’istruzione, a tutti i livelli, che spiega anche certi atteggiamenti: c’è un pezzo di paese che ha dimenticato cosa fu il fascismo. Un buon governo dovrebbe riuscire nella quadratura del cerchio, alla Dahrendorf, ardua per i tedeschi, difficilissima per gli italiani. Niente è impossibile. È stato ricostruito un paese distrutto dal fascismo e dalla guerra mondiale. Suvvia. Non sono ottimista, ma mantengo un barlume di speranza. Spesso succedono cose che non ci aspettiamo. Tanto più se un segmento di opinione pubblica si mobilita, capisce quanto alta sia la posta in gioco e preme sulla politica.
Nei giorni scorsi si è tornato a parlare di legge elettorale proporzionale. Non trova che sia un rischio di ritorno al passato?
Come si fronteggia Salvini? Prosciugando l’acqua in cui nuota. Non la prosciugheranno mai tutta. Comunque, non confiderei troppo nel cambiamento della legge elettorale, che servirebbe solo a nascondere la polvere sotto il tappeto. Il Rosatellum, d’accordo, è una schifezza. Decidono tutto i partiti. Era frutto di un accordo sottobanco tra Berlusconi e Renzi finalizzato a un’intesa postelettorale, magari all’ombra della solidarietà europea tra popolari e socialisti. Solo che il diavolo, che è specializzato in pentole, non fa i coperchi. Ora questa legge elettorale rischia di consegnare il paese a Salvini col 40 per cento dei consensi. Eppure non può essere questo il solo motivo per cambiarla. Bisogna cambiarla perché è una bruttissima legge e una legge elettorale decente richiede che gli elettori quando votano si sentano almeno un poco ascoltati. Il paese ne ha gran bisogno. E qui il ragionamento si complica. Perché vorrei augurarmi che i 5 Stelle, che sono frutto della frustrazione degli elettori, si fermino un attimo a riflettere su questa a mio avviso dissennata decurtazione dei parlamentari. Che servirebbe a allontanare sempre più la politica dai cittadini. Per quello che vale, direi a Di Maio, basta con la politica degli ultimatum. Cambiamo stile, discutiamo. Le leggi elettorali che hanno sostituito la proporzionale hanno tutte promesso di assicurare la stabilità governativa, come sappiamo con modesto successo, nonché di rendere la politica più trasparente e di ravvicinarla ai cittadini. Basta col filtro della partitocrazia. In realtà, hanno tutte conferito ai partiti un potere enorme di selezione degli eletti. Insisto con modestissimo successo, vista la qualità declinante del personale politico. Ma anche senza precludere la frammentazione, come ha per l’ennesima volta confermato la secessione di Renzi. Tutte hanno soprattutto cambiato il modo di far politica e il rapporto con gli elettori. Secondo me peggiorandolo rispetto al tempo delle preferenze, che potevano essere contrastate in altro modo. I parlamentari d’oggidì frequentano poco o nulla i collegi, tanto il loro destino è deciso dal partito. Quando invece i parlamentari servivano proprio come tramite con gli elettori. Non sempre erano un tramite clientelare e perciò perverso, erano per lo più un tramite prezioso. Vivevano il collegio, lo frequentavano, parlavano coi cittadini, contrastavano il sentimento di distanza che la divisione del lavoro tra elettori ed eletti produce. Sa lei chi sono i suoi rappresentanti? La mia opinione è che una nuova legge elettorale debba per prima cosa porsi questo problema. Lo si può risolvere con la proporzionale, o con collegi uninominale di piccole dimensioni In ogni caso, serve un numero congruo di parlamentari. I quali forse costeranno, ma sono soldi, direi ai 5 Stelle, molto ben spesi. Questo insegna l’esperienza. Se si risolvesse il problema del numero, si potrebbe sdrammatizzare l’eterna querelle tra maggioritario e proporzionale. Non esageriamo. Ciò che conta davvero è la politica. Anche se, qualora si replicasse la formula maggioritaria, suggerirei di rivedere i quorum per l’elezione del Capo dello Stato e dei giudici costituzionali. Sono cariche di garanzia, che vanno condivise. Saperle condivise, rasserena l’atmosfera. Non possiamo finire come in Polonia o in Ungheria. Per il resto, mi lasci spezzare una lancia hic et nunc a favore del proporzionale. Finiamola di evocare la governabilità. È una menzogna, almeno in Italia. Siamo un paese composito e per vincere si creano coalizioni larghissime, che poi, lo si è visto, sono logorate dai ricatti tra partners. Oggi ancor peggio, perché la frammentazione politica non è più un problema solo italiano. I tempi sono difficili, il mondo cambia e viviamo in società sempre più diversificate. Che, come mi pare confermi la politica inglese, non si prestano a essere governate da uno schieramento politico magari maggioritario (ma non sempre) tra i votanti, ma minoritario tra gli elettori. Macron in Francia è il presidente di una minoranza, che per giunta l’ha scelto non per amore, ma in odio alla sua antagonista. Alla fine i gilets jaunes hanno messo a soqquadro il paese. In tempi difficili, serve aggregare. Si pagherà un costo in mediazioni, ma è conveniente sopportare anche questo, perché aiuta a governare. Serve tuttavia rivedere il modo di pensare la politica. Va messa in discussione l’idea del duello in cui uno vince, uno perde, chi vince è padrone assoluto, chi perde stia nel suo angolo. Mi spiace contraddire Prodi, che è una personalità che rispetto. Ma in questo a mio avviso si sbaglia. Il mondo è pieno di sfumature, rifugge i dilemmi semplici. Abbiamo bisogno di rispetto dell’altro, di dialogo, di compromessi. La democrazia, a conti fatti, è una cosa molto piccola. È conduzione pacifica della contesa politica. Nient’altro. Squalificare come inciucio una cosa nobile come il compromesso tra diversi è una mistificazione. Alla luce della quale il paese ha accumulato troppi fallimenti. Nulla abbiamo guadagnato col maggioritario, che ha semmai avvelenato la cultura politica del paese, l’ha polarizzata, l’ha incattivita, filtrando nella vita collettiva. È troppo chiedere alla classe politica di rifletterci sopra? Rino Formica evocava qualche settimana fa il pericolo di una guerra civile. La mia modesta convinzione che un proporzionale ben temperato, aiuterebbe a scongiurarlo assai più del maggioritario.
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