Suicidio assistito: “Una sentenza liberale non libertaria”. Intervista a Stefano Ceccanti

Dj Fabo (Ansa)

 

Sta facendo discutere l’opinione pubblica, ed anche la politica, la sentenza della Corte Costituzionale sul suicidio assistito. Quali sono le ragioni di questa sentenza della Corte? Come evitare il “bipolarismo etico”? Ne parliamo, in questa intervista, con Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato del PD.

 

Onorevole Ceccanti, la Corte Costituzionale, con la sentenza di mercoledì, ha portato a termine la questione di legittimità dell’articolo 580 del Codice penale. La Corte ha dichiarato la non punibilità, a determinate condizioni, del “suicidio assistito”. Adesso bisogna attendere le motivazioni di una sentenza, che molti definiscono “storica”. Le chiedo, come costituzionalista, sulla base di quali principi costituzionali, secondo lei, la Corte ha emesso questa sentenza?

Con qualche necessaria cautela, perché stiamo in questo caso commentando un comunicato e non una sentenza definitiva, mi sembra che la chiave di lettura la possiamo capire sulla base di una ordinanza dell’anno scorso. La Corte legge senz’altro la dignità della persona in un quadro comunitario e quindi non considera un assoluto il valore dell’autodeterminazione dell’individuo singolo nella sua decisione di rompere il legame con gli altri, dando via libera a qualsiasi forma di aiuto. Non legge quindi in chiave libertaria, individualistica la Costituzione e si pone anche il problema della protezione delle persone più deboli e di un’effettiva volontà della persona, senza condizionamenti anomali. Tuttavia la Corte non adotta neanche un approccio unilaterale opposto, statalistico-paternalistico, che porterebbe a negare sempre e comunque qualsiasi valore dell’autodeterminazione individuale, che dissolverebbe l’autonomia della persona nella comunità. Diciamo, quindi, che ha adottato un approccio liberale: pur ritenendo il suicidio e l’aiuto al suicidio un ricorrere alle armi del diritto penale.

Quali sono i limiti posti dalla Corte, e perché non ha previsto l’obiezione di coscienza?

La Corte stabilisce che l’aiuto al suicidio vada depenalizzato nei confronti di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, come aveva già detto nell’ordinanza di un anno fa. Non ha parlato di obiezione di coscienza perché non si parla di un diritto soggettivo ad ottenere una prestazione, ma del riconoscimento a farsi aiutare in una scelta senza che nessuno possa essere condannato. Non essendoci un obbligo, almeno secondo quanto capiamo ora della sentenza, non c’è obiezione.

 

Lei ha definito la sentenza come “liberale” e non “libertaria”…Perché?

Perché è figlia di una concezione dello Stato che si ritrae, che si considera parziale, che a certe condizioni rinuncia a punire chi opera una scelta che considera comunque un disvalore e non un diritto. Peraltro è un linguaggio noto anche alla Chiesa: in materia di libertà religiosa la Dichiarazione del Concilio Vaticano II, pur non equiparando in materia relativistica le diverse scelte religiose, parla di immunità dalla coercizione, di autolimitazione dello Stato che non ha il monopolio del bene comune e che pertanto non deve esagerare con l’estensione del diritto penale.

La reazione, però, della CEI è stata negativa. La Conferenza Episcopale è preoccupata “per la spinta culturale implicita che può derivarne”: cioè che togliersi la vita è una cosa buona. Da cattolico democratico come risponde a questa preoccupazione?

In linea generale bisogna sempre capire che i vescovi ragionano soprattutto da educatori, non da giuristi o da politici. In questa chiave capisco il senso della preoccupazione. Ciò detto, mi sembra che presa alla lettera questa affermazione fraintenderebbe la sentenza che rinuncia appunto a punire in alcuni casi limite, non che riconosce un diritto al suicidio. Credo però che l’affermazione non vada intesa in senso letterale, ma che invece alluda a scelte che possano nascere sulla deriva di questa soluzione, col cosiddetto pendio scivoloso. Allora, se è così, l’argomento obiettivamente non fraintende la sentenza e come tale, in astratto, potrebbe avere una sua plausibilità. Però se il pericolo che si vuole sventare è questo, invece che polemizzare con la sentenza, che è comunque vincolante, e proporre di nuovo soluzioni impossibili tese ad eluderla (leggi che ripristinino una pena, che sarebbero sicuramente incostituzionali), sarebbe bene pensare a limiti seri che circoscrivano la depenalizzazione, che interpretino in modo rigoroso le indicazioni della Corte. Tanto più se si considera un altro fatto: vedremo la sentenza finale, ma in assenza di limiti di legge, dopo la certa assoluzione di Cappato, dato che un principio di non punibilità è stato comunque affermato, non è chiaro con quale latitudine il principio potrebbe essere applicato in via giudiziaria. Se invece si continuasse a polemizzare con la Corte, si renderebbe più difficile il varo condiviso e non troppo lontano da limiti seri.

Adesso il Parlamento dovrà, finalmente , legiferare…. Non sarà facile evitare il bipolarismo etico…Come evitarlo? La destra sovranista è pronta alle barricate… Quali potranno essere i punti di mediazione?

In realtà, se si capisce bene la sentenza che taglia le posizioni estreme, ossia da un lato l’approccio libertario assoluto e dall’altra quello statalistico-paternalistico, la scrittura di una legge risulta ora molto semplificata perché la questione è diventata chiaramente quella di quale depenalizzazione sia sensata e non più sull’opportunità di depenalizzare che ha paralizzato il Parlamento nei mesi passati. A dir la verità si sarebbe già potuto capire anche solo con l’ordinanza, ma va comunque bene se si parte anche ora con questa consapevolezza. Il Parlamento può ben individuare in questa chiave il bene possibile oggi, senza volontà di vittorie unilaterali di nessuno, senza affermare un dannoso bipolarismo etico.