I “calcoli” di Donald Trump sull’Iran. Intervista a Marina Calculli

Dopo l’uccisione del generale iraniano Soleimani il Medioriente ha vissuto giorni di grande tensione. Con le parole pronunciate, dopo il simbolico bombardamento iraniano, dal Presidente americano siamo in una fase di “tregua armata”. “Il precipizio non si è allontanato”, come ha scritto oggi su Repubblica,  Bernardo Valli, grande inviato di guerra. Le tensioni, infatti, nel mondo arabo sono  altissime (vedi Libia, Siria e Yemen). Ma quali sono stati i “calcoli” di Donald Trump sull’ Iran? Ne parliamo con la politologa, esperta di relazioni internazionali. Marina Calculli è Lettrice di “Middle East Politics”  all’Università di Leiden.

Marina Calculli  partiamo dall’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani – per ordine di Trump. Un uccisione che destabilizza ancora di più un’area che è piena di tensioni e di guerre. Le, “ragioni”, secondo gli USA, sono, da una parte, la rappresaglia verso le milizie che si sono rese responsabili dell’assalto alla ambasciata di Baghdad e dall’altra la prevenzione verso  possibili futuri attacchi. Una risposta, quella americana, non credibile. Qual è stato, secondo te, il vero “calcolo” di Trump?

L’idea di una guerra contro l’Iran è ben radicata in una parte dell’establishment neo-con di Washington che è lì da prima che arrivasse Trump alla Casa Bianca. Però mi sembra che nella contingenza Trump abbia preso una decisione ‘autoritaria’, dettata in buona parte dall’esigenza di distrarre l’opinione pubblica dalla questione domestica dell’impeachment. E’ in chiara polemica con il Congresso, che non era stato informato dell’attacco, la cui presidente Nancy Pelosi, è in prima linea sul fronte di coloro che vorrebbero l’impeachment di Trump. Per aggirare il Congresso Trump ha dovuto usare l’argomento, politicamente e soprattutto legalmente poco difendibile, dell’autodifesa contro un attacco imminente – poco credibile dato che Soleimani era in Iraq per incontri ufficiali ed è stato ucciso in un aeroporto civile.

E’ stata anche una decisione poco astuta, a giudicare sia dalle reazioni immediate domestiche sia da quelle degli alleati mediorientali degli Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita in primis, tutt’altro che giubilanti e che hanno evidentemente contribuito a spingere Trump alla moderazione, almeno per ora. Questo perché, nonostante gli amici-clienti di Trump in Medio Oriente abbiano in passato spinto Trump a far saltare il JCPOA, l’accordo nucleare firmato da Obama nel 2015, e a riprendere la politica classica di isolamento dell’Iran, una guerra contro l’Iran non è uno scenario ideale per nessuno nella regione. Persino Netanyahu ha detto che l’uccisione di Soleimani era una cosa ‘tutta americana’ e che ‘Israele non c’entrava nulla’. Nella visione cinica della destra israeliana e della casa reale saudita, molto meglio sarebbe la prosecuzione della cinica strategia che Trump stava già perseguendo: strozzare l’Iran lentamente con le sanzioni e indebolire contemporaneamente il Levante arabo. Una guerra potrebbe avere invece conseguenze disastrose soprattutto per i paesi del Golfo che l’Iran è certamente in grado di colpire.

Nella guerra all’Isis, il generale e gli americani erano dalla stessa parte…. E poi che è successo?

Erano tecnicamente, non politicamente, dalla stessa parte, anche se è vero che in molte occasioni gli americani hanno collaborato sul terreno con le milizie sostenute dall’Iran in Siria e in Iraq. Il problema centrale a mio parere è che, al di là della guerra all’ISIS, nessuno dei due ha mai pensato che questo potesse tradursi in un concreto riavvicinamento. E’ possibile che l’Iran sperasse di rendere l’ostilità di Washington più costosa sbandierando il proprio impegno contro l’ISIS – che è d’altronde un’arma che tutti hanno usato per cercare di ottenere credito presso le opinioni pubbliche internazionali per poi tradurlo in un vantaggio politico. Anche i curdi ci hanno provato però, come è noto, con scarso successo… Il problema dell’Iran però è più profondo per Washington. E’ intanto storico: l’odio americano contro l’Iran che trapela per esempio nelle minacce di Trump (seppur smorzate successivamente) di distruggere 52 siti culturali iraniani, simbolo dei 52 americani presi in ostaggio all’ambasciata americana nel 1979, mostra come l’impero americano abbia vissuto in modo traumatico la ribellione di uno stato che ai tempi dello scià era un fermo alleato degli Stati Uniti e che dalla rivoluzione del 1979 è diventato il principale sfidante della loro strategia mediorientale. Poi ci sono questioni più recenti: dopo l’invasione dell’Iraq del 2003, l’America puntava a indebolire il regime iraniano e potenzialmente anche a provocare un cambio di regime a Teheran, cosa che G.W. Bush rese peraltro esplicita. Ma il risultato è opposto: l’Iran si è rafforzato nella regione, non solo contro le aspettative dell’America ma soprattutto capitalizzando sui limiti della ‘guerra al terrorismo’ americana in Medio Oriente. E’ questo che rende una parte dell’establishment di Washington, quello che rappresenta meglio la mentalità imperiale degli Stati Uniti, fanatica nelle manifestazioni di odio anti-Iran, almeno quanto fanatici possono essere i falchi anti-americani del regime iraniano.

Qasem Soleimani è stato definito, da qualche osservatore, come il “Machiavelli del Medioriente”. Trovi giusta questa definizione?

Le guardie rivoluzionarie iraniane e i loro alleati, come Hezbollah, hanno dedicato molte energie nell’elaborazione di un pensiero strategico militare. Certamente questo ha pagato, se si guarda agli indiscutibili vantaggi militari che l’Iran, anche grazie al suo principale alleato libanese Hezbollah, ha ottenuto nel Levante arabo e in Iraq, soprattutto dopo il 2003. Ma questa strategia militare ha delle falle politiche profonde, soprattutto perché a farne le spese sono state le popolazioni civili e in particolar modo i movimenti sociali nella regione: penso ai siriani anti-Asad in Siria, schiacciati direttamente e indirettamente dalla strategia iraniana in Siria. Penso alle recenti rivolte in Libano e in Iraq che rivendicano la fine delle ingerenze esterne, sia quella iraniana sia quella americana, che hanno sistematicamente impedito il consolidamento di un ordine politico domestico, sottoponendolo alle rispettive politiche di potenza.

Guardiamo la cosa dal punto di vista iraniano. Per la Repubblica islamica, l’omicidio di Soleimani, è una perdita grave. Che tipo di conseguenze politiche potrà avere per l’Iran?

Come diceva Conrad in Lord Jim, ‘nessuno è indispensabile’. Tanto più in un regime come l’Iran in cui, seppur ancora in grado di sfruttare la retorica della ‘guerra eroica’ e dei ‘martiri’, le transizioni vengono accuratamente pianificate. La forza dell’Iran nella regione non dipendeva da Soleimani, ma dalla strategia complessiva del regime e delle guardie rivoluzionarie in particolare. Per fare un parallelo, nel 1992 gli israeliani assassinarono Abbas al-Musawi, il segretario generale di Hezbollah in Libano, sperando così di sbaragliare tutta l’organizzazione. Il risultato fu l’elezione di Hassan Nasrallah, ancora oggi segretario generale di Hezbollah, forse persino più carismatico di al-Musawi, che ha portato avanti esattamente la linea che aveva prevalso nel 1992.

Teheran aveva detto che la vendetta sarà pesante…. E la risposta è stata il lancio di missili ballistici su una base americana in Iraq. Dopo il bombardamento sono arrivate le parole di Trump di ieri pomeriggio che rivendicando, ovviamente dal suo punto di vista, la giustezza della uccisione di Soleimani, si è detto disponibile a trattare un accordo di pace con l’Iran. Come giudichi le parole di Trump?

L’Iran ha voluto dimostrare simbolicamente e politicamente di non voler entrare in una guerra che comunque non potrebbe vincere, ma anche di poter dare filo da torcere all’America nel caso di escalation. L’attacco molto preciso alle due basi americane colpite in Iraq ha svolto questa funzione. Trump è tra due fuochi: da una parte, ha pensato di poter sfruttare una guerra contro l’Iran a suo vantaggio nell’anno cruciale delle elezioni, macchiato dal rischio di impeachment. Dall’altra sa bene che proprio un’ennesima e costosa avventura militare potrebbe alienare parte del suo elettorato che il presidente americano ha conquistato anche con la promessa di un ritiro dal Medio Oriente.

Donald Trump (Ap)

 

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *