La rete suprematista che inneggia alla guerra razziale. Intervista a Giovanni Tizian

Giovanni Tizian (LaPresse)

Giovanni Tizian (LaPresse)

La strage avvenuta pochi giorni fa in Germania, ad Hanau, dove sono morte undici persone e quattro sono rimaste ferite, aveva una matrice politica di estrema destra ed è stata compiuta sotto la spinta dell’odio xenofobo. L’attentatore Tobias Rathien, 43 anni, un lupo solitario dalle tendenze paranoiche, che in un messaggio, folle e criminale, lasciato su Internet , aveva espresso opinioni di estrema destra dove si affermava che “c’è bisogno di sterminare le popolazioni che non si riescono a espellere dalla Germania”. Ma non c’è solo la Germania ad essere teatro macabro di questi folli. Anche in Italia abbiamo avuto, negli anni scorsi, lupi solitari autori di stragi a sfondo razziale. Così come vanno ricordati i gravi episodi di antisemitismo e xenofobia avvenuti, nelle settimane scorse, nel nostro Paese. Ma dove si alimentano questi Lupi solitari? Quali sono i gruppi suprematisti che operano su Internet alla ricerca di Lupi solitari? Com’ è la situazione in Italia? Lo abbiamo chiesto, in questa intervista, a Giovanni Tizian. Giovanni Tizian è giornalista d’inchiesta del settimanale l’Espresso.

Giovanni, sull’Espresso di qualche giorno fa è uscita la tua inchiesta sulla “rete dei suprematisti”. Ovvero dei gruppi neonazifascisti che inneggiano alla violenza razziale e alla xenofobia nei confronti di cittadini ebrei e immigrati. Innanzi tutto puoi spiegare cos’è il “suprematismo”: Dove nasce e chi è il suo “ideologo”?
Il suprematismo è un’ideologia che si basa sul razzismo. Sull’idea che la razza bianca sia superiore alle altre. Il suprematismo recluta militanti trai movimento neonazisti e neofascisti. Giovani militanti che vogliono passare all’azione e che non si riconoscono più nei movimenti o partiti dell’estrema destra tradizionale. Il suprematismo ha avuto molti ideologi soprattutto negli Stati Uniti. Già il Ku Klux Klan affondava le sue radici nel suprematismo. Oggi uno dei più quotati nel mondo giovanile di questa marea nera è l’americano James Mason.

C’è un legame tra propaganda sovranista e suprematisti?
Entrambi chiedono frontiere chiuse, muri che dividono culture e paesi. La differenza sta nell’istituzionalizzazione dei sovranisti, ormai partii di governo o di opposizione, mentre i movimenti suprematisti restano nel sottobosco dell’estrema destra. I sovranisti raccolgono il consenso nei campi in cui i suprematisti fomentano l’odio.

Secondo te il livello della violenza politica a destra è alimentata da un clima politico di guerra all’immigrazione?
Non lo dico io, ma i fatti. In Italia Luca Traini ha ferito a colpi di pistola sei migranti africani a Macerata per vendicare una ragazza uccisa brutalmente da spacciatori stranieri. Traini era un leghista e ancor prima un neofascista.

Grazie alla tua inchiesta sappiamo che il web è lo strumento prediletto per alimentare questo veleno ideologico. Quali sono gli strumenti che vengono usati per fare propaganda?
Forum di discussione privati e chat su Telegram. Ma anche social network come VKontakte, piattaforma che ha ricevuto iscrizioni dei gruppi neofascisti espulsi da Facebook.

Tu hai scoperto i gruppi neonazifascisti che propagandano odio e inneggiano alla violenza. Esiste una rete internazionale?
Esiste un network ma molto più fluido rispetto ai movimenti classici. Gruppi che si autofomentano sul web e si preparano all’azione individuale nei vari territori.

Qual è il più pericoloso dei gruppi?
Atomwaffen Division: ritenuta dall’Fbi uno dei gruppi suprematisti più pericolosi che si sta espandendo anche in Europa.

Hai affermato che il loro modello organizzativo è simile a quello dell’isis. In che senso?
Le azioni le compiono i cosiddetti lupi solitari. Ma questo era già accaduto in Norvegia con Brevik, che uccise 77 persone con una vera e propria azione militare. Luca Traini, un altro lupo solitario. E poi Brenton Tarrant, l’attentatore della Nuova Zelanda che sul fucile aveva scritto il nome di Traini, quasi a omaggiare la sua azione terroristica.

Sul piano “sociologico” : chi è che frequenta queste chat?
Giovani soprattutto. Studenti e lavoratori. Con una convinzione politica nettamente nazi-fascista.

In Italia qual è la situazione?
L’Italia come la Germania corre un rischio grosso. I suprematisti, lupi solitari, hanno già colpito due volte: nel 2011 e nel 2018. Più cresce l’odio più qualcuno di loro matura la convinzione che la vendetta contro ebrei o immigrati sia l’unica strada. Inoltre ci sono molti italiani che su Telegram si sono improvvisati ideologi e professano la rivoluzione immediata, per “purificare la società dalla razze non bianche”.

Ultima domanda: come sta reagendo la politica di fronte a questo fenomeno del suprematismo?
Minimizza, soprattuto la destra sovranista. Del resto sul piano ideologico il collante è la xenofobia.

Vittorio Bachelet a quarant’anni dal 1980. Intervista a Guido Formigoni

Nel quarantesimo anniversario della sua morte, venne ucciso in maniera feroce dalle Br, ripercorriamo, con lo storico Guido Formigoni, i tratti salienti del grande giurista cattolico. Formigoni è professore Ordinario di Storia Contemporanea all’Università IULM di Milano Il suo campo di ricerca  spazia dalla storia della guerra fredda al movimento politico dei cattolici italiani.
 Professore Sono passati 40 anni dal quel giorno, il 12 febbraio 1980, in cui venne ucciso, all’interno della Facoltà di Scienze politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, il professor Vittorio Bachelet. Gli assassini furono i terroristi delle Brigate Rosse. Due anni prima, le stesse BR, avevano ucciso Aldo Moro. Successivamente le BR uccideranno il politologo Roberto Ruffilli, anche lui cattolico democratico. Al di là della specificità delle vittime, c’è un filo rosso che lega questi morti?
Non so se le Br avessero un piano preciso o una visione di lunga scadenza: sul piano conoscitivo non ne abbiamo ancora molto chiara consapevolezza. L’impressione generale però che si ricava scorrendo i casi citati (quelli forse politicamente più rilevanti tra le vittime) è che fossero tra gli esponenti di un riformismo non verbale ma sostanziale, che cioè lavorassero attivamente per consolidare la democrazia italiana in momenti difficili. In questo il carattere cattolico-democratico è una componente (non l’unica, certo). Per questo è anche logico pensare che la furia brigatista li identificasse come i peggiori ostacoli, nella logica esasperata di un “partito rivoluzionario della guerra civile” che avrebbe preferito scontrarsi con un regime più reazionario e impresentabile, per favorire i propri sogni distorti.
Veniamo alla mite figura di Vittorio Bachelet. Che tipo di formazione religiosa e civile è stata la sua?

 

Bachelet è nato in una famiglia cattolica piemontese molto tradizionale, con due fratelli gesuiti. Si è formato nella Federazione degli universitari cattolici, alla luce della cultura religiosa montiniana che aveva impostato per il cattolicesimo il compito di incontrare criticamente la cultura moderna. In particolare, egli fu esponente (con gli amici Alfredo Carlo Moro e Leopoldo Elia, ma anche Piero Pratesi e Raniero La Valle), di una generazione che arrivò all’università alla fine del fascismo e rispetto ai fratelli maggiori fu meno coinvolta direttamente e immediatamente nella politica: ragionava soprattutto sulla “moralità professionale del cittadino” nella società civile e nelle professioni.

Bachelet è stato l’uomo della Costituzione, permeato di quei valori. Un uomo che si è battuto per l’attuazione della Costituzione. In quale punto di elaborazione giuridica c’è stato il suo contributo originale all’approfondimento costituzionale?

 

Egli si specializzò nell’apparentemente arido orizzonte del diritto amministrativo, ma cercò sempre di collegare il funzionamento pratico delle istituzioni ai valori costituzionali, con una solida opera di proposta riformatrice. Questo in particolare su temi come gli enti pubblici economici, la disciplina militare, la giustizia amministrativa. Questioni legate alla crescita del ruolo pubblico dello Stato nella vicenda collettiva, tipica del dopoguerra, che egli voleva sempre ricondurre verso l’allargamento democratico della basi dello Stato, quello che chiamava “un più vasto compito positivo di elevamento non solo economico, ma anche sociale e spirituale delle popolazioni”. Non interpretava certo il senso del diritto come immobilismo.

Vi è nel suo pensiero civile l’attenzione alla comunità internazionale, qui ci sono elementi interessanti: il superamento della visione di “Patria” e una apertura all’Europa. Si può ben dire che riflessione di Bachelet contrasta con la cultura della destra nazionalista?
Certo è una visione di patria profondamente in sintonia con la tradizione nazionale cattolica (è una favola quella dei cattolici antinazionali perché legati a una visione universalistica…). “Noi amiamo la patria come la nostra casa che abbiamo imparato a volere solida e confortevole piuttosto che sontuosa. […] Per questo non amiamo la retorica della patria: dell’amore di patria ha detto qualcuno che più se ne parla meno ce n’è”. La realtà umana della patria era collegata all’idea che le identità nazionali sono un bene fin quando aiutano a costruire comunità collaboranti tra loro. L’orizzonte europeo fu in questo senso per lui sorgivo e precoce (si preoccupava di precisare, non di un “nazionalismo europeo”…). Si occupò spesso pubblicisticamente del tema della pace, che leggeva come obiettivo di un impegno culturale prima ancora che politico. “I giovani di oggi sanno che solo con la pace tutto può essere salvo: sanno che il servizio alla pace  è più duro e deve essere più generoso del servizio della guerra”. Il credente non poteva odiare nemmeno i nemici, per cui i conflitti potevano sempre trovare una via risolutiva. Il suo era quindi un anti-nazionalismo convinto.
Bachelet è ricordato come il Presidente rinnovatore dell’Azione Cattolica italiana. La famosa “scelta religiosa” del dopo Concilio Vaticano II. Quali erano le coordinate di quell’Azione Cattolica? Ha ancora qualcosa da dire oggi alla “Chiesa in uscita” di Francesco?

 

Egli riconobbe che l’espressione forse non fu felicissima, ma la sostanza era molto chiara. Si trattava di rinnovare l’Ac secondo il modello conciliare, per farne un laicato “ponte” tra Chiesa e società (l’espressione che lui fece propria era di Paolo VI). Il che implicava una concentrazione sull’essenziale del crescere come cristiani, staccandosi da una certa idea di influenza diretta sulla politica che l’Ac degli anni Cinquanta aveva coltivato. Ma non per abbandonare a sé stesso l’impegno civile dei cristiani: anzi, per alimentarlo meglio con un contributo educativo, culturale, di mentalità. Un contributo che fosse vivo e genuino, all’altezza di un enorme “cambiamento d’epoca” che egli vedeva nel mondo degli anni ’60 e ’70, e che chiedeva proprio di distinguere tra l’essenziale e il caduco: intuizione che papa Francesco sta riprendendo sempre più chiaramente.

Il suo impegno istituzionale più alto fu come Vice presidente del Consiglio superiore della magistratura. Un ruolo fondamentale per lo sviluppo costituzionale dell’Italia. Come si svolse quel ruolo?
Fu un po’ particolare: egli lasciò la presidenza nazionale dell’Ac nel 1973 e fu chiamato da Moro per dare un servizio istituzionale. Dopo l’elezione del 1976 la Dc scelse per la prima volta di mandare al Csm con il voto parlamentare dei professori qualificati più per competenza che per vincolo partitico. La sua vicepresidenza scaturì – dopo qualche conflitto iniziale – come punto di mediazione in un consiglio molto pluralistico, in cu la magistratura esprimeva vivacità correntizia, ma anche preoccupazioni per un ruolo civile tutt’altro che scontato e banale. Erano anni di critiche e contestazioni. Egli lavorò per l’unità e l’indipendenza della magistratura senza apparire troppo, con mitezza e intelligenza, come di consueto. E in questo ebbe riconoscimenti anche da chi inizialmente l’aveva poco sostenuto.
Dalla memoria viva di Vittorio Bachelet possono venire degli stimoli per comprendere un mondo radicalmente cambiato?

 

Naturalmente quarant’anni sono tanti, e il suo mondo è molto lontano dal nostro, ma in termini di metodo ci sono elementi ancora molto eloquenti per l’oggi. Penso ad esempio alla sua idea di una società ricca e articolata, rispettosa del pluralismo delle aggregazioni con i loro compiti diversi (anche l’Ac doveva appunto riscoprire il proprio specifico…): oggi in tempi di facile enfasi sulla disintermediazione e sull’individualismo metodologico, che porta le persone sole di fronte a poteri mediatici e politici verticistici, andrebbe riscoperta questa idea. La sua visione delle nazioni come un bene per gli esseri umani contrasta radicalmente con il nazionalismo risorgente e grezzo delle destre dei nostri giorni. E poi si può segnalare l’attitudine al dialogo civile e alla comprensione, radicalmente diversa dal linguaggio dominante dell’odio e della contrapposizione. Come anche è straordinariamente attuale l’esperienza di una comunità cristiana che non solo insista sui valori (Bachelet affrontò la delicata questione del divorzio con posizioni molto nette), ma si ponga sempre in aiuto e rispetto verso coloro che si pongono il problema complicato di ottenere la migliore realizzazione possibile di questi valori. La spiritualità che accompagnava queste scelte era chiara. Egli ebbe occasione di dire a un convegno della Cei nel 1968: ““[Il] mondo […] fra venti anni sarà assai più diverso da quello di oggi, quanto non lo sia quello di oggi rispetto al mondo di venti anni fa. Questo vortice sembra sopraffarci, farci sfuggire di mano ogni ragionevole programma. Il cristiano, se fosse veramente ricco di fede, di speranza, di amore, non sarebbe mai stato libero come ora, proprio per questa evidenza della provvisorietà della sua condizione umana, che lo spinge sì all’azione, ma nell’abbandono fiducioso alla Provvidenza”.

“Querida Amazonia è un testo aperto alla creatività ecclesiale”. Intervista ad Andrea Grillo

Con il teologo Andrea Grillo, docente di Teologia al Pontificio Istituto Teologico Sant’Anselmo di Roma, facciamo il punto sull’Esortazione Querida Amazonia di Papa Francesco. Il documento, uscito ieri in Vaticano, sta creando un grosso dibattito all’interno della Chiesa Cattolica.

Professore, ieri è uscita l’esortazione post sinodale di Papa Francesco Querida Amazonia. Proviamo a fare un piccolo bilancio. Per cominciare partiamo dalla mancata considerazione della proposta, presente nel documento finale del Sinodo Amazzonico di Ottobre, riguardo

l’ordinazione di viri probati, o comunque di diaconi permanenti sposati, al sacerdozio per risolvere il problema della mancanza di clero in molte comunità ecclesiali della Amazzonia. La proposta aveva ricevuto una larga maggioranza nei padri sinodali. Ma aveva anche suscitato polemiche e attacchi da parte conservatrice e di Cardinali di curia. Come spiega questo comportamento del Papa,? Pensa che abbia subito pressioni forti?

Vi sono diversi aspetti da valutare. Da un lato assistiamo ad una sorta di “mutazione del magistero sinodale”. Il fenomeno era già cominciato con il sinodo duplice sulla famiglia, ma ha assunto da ieri una sorta di versione accelerata: il documento papale non “recepisce” solo in parte il documento finale, ma intende esplicitamente “non sostituirlo” e introdurlo direttamente e con il suo tenore integrale nell’esercizio della autorità magisteriale. Dunque non è esatto dire che vi sia una “mancata considerazione” di ciò che il Sinodo aveva elaborato. E’ giusto dire, invece, che il Sinodo ha come esito un duplice livello di pronunciamento, che dal papa è indicato come doppiamente normativo. Questo è una cosa nuova e che crea anche un certo imbarazzo, comprensibile soprattutto sul piano “operativo”. Infatti il documento finale non ha, diremmo per essenza, “intenzioni operative”, mentre la Esortazione, che potrebbe averle, non ritiene di doverle assumere. E il rimando tra i due testi potrebbe generare un grande conflitto di interpretazioni. Ma è certo che questo modo di procedere sta cambiando il modo di funzionare del Sinodo e la stessa funzione del Sinodo dei Vescovi. Potrei dire che ne sovverte quella logica, che si era affermata a partire dagli anni 70, e nella quale il Sinodo era destinato a non riservare mai sorprese. Ora, forse, ne riserva anche troppe! Ma questo è un segno di vitalità e di movimento, anche se ancora non codificato e non immediatamente efficace.

Parliamo ancora delle dinamiche ecclesiali. Per il card Muller, ex prefetto della Congregazione, questo documento è un documento di riconciliazione (nel senso che pone fine al conflitto ecclesiale), per altri invece non chiude a possibili soluzioni future, per altri ancora è una sconfitta di Francesco. Per lei?

E’ inevitabile che molti si siano lasciati trascinare dalla foga: da un lato, si è letto, “non cambia nulla”. Dall’altro “tutto può ancora cambiare”. Oppure “il papa ha fallito”. Io direi che la impressione di “paralisi”, che certo può sorgere alla lettura del testo, deve far spazio a due considerazioni diverse. In primo luogo, il “dispositivo di blocco” al quale eravamo abituati da decenni, si è interrotto. Proprio perché la parola definitiva di “impotenza” e di “impossibile mutamento” non è stata detta. Le questioni più brucianti “restano sul tavolo”, come ha detto il Card. Czerny. E questo è promettente, anche se non risolutivo. In secondo luogo, il mutamento linguistico, il tono poetico e profetico di 3/4 delle pagine del testo (almeno fino al n.85) dice una ripresa potente del linguaggio conciliare, che caratterizza tutto il pontificato di Francesco e che si è fatto udire fin dalle prime parole del marzo 2013. Tutto questo è tutt’altro che un dettaglio irrilevante. E qualifica quella “mutazione del magistero” che alcuni addetti stampa, anche della sala stampa del Vaticano, fanno fatica a capire del tutto e a presentare correttamente.

Nell’Esortazione, riprendendo il Documento finale del Sinodo Amazzonico, si parla con parole bellissime del sogno ecclesiale del Papa di sviluppare una Chiesa dal volto amazzonico, con grande spirito missionario. Però la soluzione alla mancanza di sacerdoti nell’area amazzonica, secondo il documento, è quello  di inviare più missionari nell’Amazzonia. Insomma una soluzione classica. Come reagiranno i vescovi dell’Amazzonia?

Questa domanda, come è giusto, mette a paragone il tono ispirato e profetico della prima parte con le soluzioni “di piccolo cabotaggio” dell’ultima parte. Ma queste soluzioni, appunto, vengono dalla “foresta curiale”. La foresta amazzonica, lo si dice chiaramente, deve elaborarne diverse, a partire da una cultura e da una esperienza ecclesiale diversa, dello stesso cattolicesimo “romano”, ma che vive lontano da Roma, a 10.000 Km. Su questo Francesco è stato molto onesto nell’ammettere che le soluzioni devono essere trovate e assunte dagli esperti “in loco”, non dal papa o dalla curia romana. Questo è molto bello e importante. E consente di guardare con un occhio più sereno e indulgente a quei numeri in cui la “foresta curiale” sembra restare del tutto estranea alla “foresta pluviale” e si ferma alle piccole categorie che sistemano tutto per bene: il prete, la donna, Gesù, Maria, la messa e la confessione. Ma qui si resta senza poesia e senza profezia. Come se non ce ne fosse bisogno.

Anche sui laici e sulle donne si auspica un maggior protagonismo, e c’è il riconoscimento ruolo forte delle donne nelle comunità cristiane amazzoniche, però il papa si scaglia contro la clericalizzazione delle donne. E con questo chiude all’ordinazione delle donne. L’argomento della clericalizzazione è un argomento forte. Dov’è il limite del Papa?

Sicuramente il testo è capace di poesia anche nel pensare diversamente la Chiesa. E in questo dipende profondamente dalla tradizione conciliare. Ma quando riflette su questi profili “istituzionali” il discorso utilizza un linguaggio che pare non del tutto all’altezza della sfida. Anche lo stesso termine “laici”, che pure viene usato con vera determinazione e grande apertura, è un termine troppo limitato. Soprattutto nel momento in cui diventa speculare e reciproco a “chierici”. La insistenza sui laici in un certo modo legittima quella lettura clericale dei chierici e della donna, del sacerdozio e dei sacramenti, che in QA appare stanca e datata. Lì il sogno si spegne, resta solo una “insonnia preoccupata”, che rischia la paralisi. Qui è anche evidente come, rispetto al tono di Amoris Laetitia, la Chiesa fa fatica a condividere una teologia del ministero davvero aggiornata e comune. Una teologia dinamica è oggi più facile per pensare la famiglia che per pensare il sacerdozio. Su questo anche i teologi portano la loro bella responsabilità. D’altra parte come si potrebbe concepire una Commissione che studia il possibile diaconato femminile, se fosse solo un modo di esporre le donne al rischio di clericalismo? Dovremmo forse proteggere le donne dal contagio del ministero ordinato? Queste argomentazioni sono fragilissime in sé, e sicuramente non aiutano a comprendere la foresta amazzonica. Ma, lo ripeto, è bello che non pretendano di chiudere il discorso, perché lasciano aperto il testo del documento di fine sinodo, che su questi temi parla con la competenza della vita, della sofferenza e della passione.

Al di là di questi “limiti” c’è comunque un messaggio positivo per la Chiesa universale?

Su questo punto vorrei dire due cose diverse. La prima riguarda la natura “speciale” del Sinodo sulla Amazzonia. Spesso dimentichiamo che questo sinodo ha avuto, fin dall’inizio, carattere non universale, ma speciale. D’altra parte il cattolicesimo, negli ultimi secoli, sperimenta una certa difficoltà a fare i conti seriamente con la particolarità e la specialità delle questioni. Il testo, almeno nei suoi primi tre sogni, è molto ricco di questa “specializzazione” e pensa davvero a fondo le esigenze di “inculturazione” che scaturiscono da questo approccio. La seconda cosa, legata a questa prima, è proprio che a livello universale dobbiamo scoprire il valore “particolare” delle esperienze ecclesiali che viviamo. E dobbiamo poter concepire forme ministeriali, forme di esercizio del sacerdozio, forme di servizio alla Chiesa, riconosciute nel loro esercizio da parte di uomini sposati e di donne, che non siano pensati soltanto dalla logica un pochino ossessiva della conformità con la “foresta curiale”, che misura tutta la realtà tra via della Conciliazione e Piazza S. Pietro. Dal Concilio Vaticano II in poi, l’universale fa i conti con le culture, con le lingue e con i sogni di 5 continenti diversi. Ormai anche il Papa sa di far parte, già con il suo corpo, di questa complessità interculturale e continentale.

Veniamo ora agli aspetti sociali, culturali ed ecologici dell’esortazione. Per ciascuno di questi il Papa ha “disegnato” un sogno. “Sogni” che formano una via amazzonica allo sviluppo integrale della società. Che tipo di conseguenze politiche avrà l’esortazione?

Penso che questo aspetto del testo, che proprio in prospettiva “speciale” suona come del tutto prioritario, possa essere valutato come una spinta formidabile alla difesa della dignità e delle culture che la regione panamazzonica vive con incertezza e con trepidazione. Qui non mi sembra che il testo mostri incertezze.

Una battuta finale sulla Sinodalità. Pensa che questo sviluppo del Sinodo Amazzonico influenzerà il Sinodo tedesco?

Non ci sono “sinodi speciali o locali o nazionali” che possiamo leggere come “dispute accademiche” su temi universali. Viceversa ci sono Chiese che, in Amazzonia o in Germania, riflettono sulla tradizione e assumono orientamenti, indirizzi e decisioni. Questa è la tradizione sinodale. Il fatto che ci siano queste possibilità riconosciute e istituite è già il frutto di un cammino di trasformazione che dobbiamo riconoscere come positivo.  Una possibilità di trasformazione del ministero ecclesiale, ordinato o non ordinato, è nella logica della tradizione e delle cose. Non credo che vi sia, immediatamente, una influenza tra sinodi locali, visto che, pur all’interno della medesima tradizione, si deve rispondere a e di storie e forme ecclesiali tra loro assai diverse. Come ha detto un bravo commentatore, il documento di Francesco non si intitolava: “Amazzonia in veritate”, o “De virginitate in Amazzonia”, ma “Querida Amazonia”. Della logica sinodale è costitutiva una “contingenza” che non si lascia dominare da alcuna universalità astratta. Prendersi cura, con passione, delle Chiese particolari e locali esige la elaborazione di procedure nuove, che stanno nascendo lentamente in Amazzonia, in Germania ed anche a Roma, ossia in una città che talvolta appare come “foresta oscura”, ma che sa essere anche bosco ameno, prato ridente e comunità viva.

La preziosa eredità di San Giovanni Paolo II vive nella Chiesa di Francesco. intervista a Giacomo Galeazzi

Chi ha paura, ancora oggi, di Papa Giovanni Paolo II?

A questa domanda cerca di rispondere un libro, uscito proprio all’inizio dell’anno del centenario della nascita di Karol Wojtyla, scritto da due importanti vaticanisti: Giacomo Galeazzi e Gianfranco Svidercoschi. Il titolo del libro è emblematico: “Chi ha paura di Giovanni Paolo II. Il Papa che ha cambiato la storia” (Ed. Rubbettino). Con Giacomo Galeazzi,   vaticanista della Stampa, in questa  intervista mettiamo in evidenza i punti strategici del pontificato di Wojtyla.

Giacomo Galeazzi, il vostro libro (scritto insieme all’amico Gian Franco Svidercoschi) esce proprio nell’anno del centenario della nascita di Karol Wojtila. Allora proprio, come prima domanda, dal titolo : chi ha paura di Giovanni Paolo II?

 “Gli ambienti permeati dal peggior clericalismo. Parto da un esempio. L’accusa al recente Sinodo dei vescovi sullAmazzonia è arrivata da settori tradizionalisti: autorizza riti pagani in Vaticano e nella parrocchia di Santa Maria in Transpontina, oltre a legittimare eresie dottrinarie. Nel 1986 dagli stessi ambienti ultraconservatori arrivarono gli attacchi allincontro interreligioso di Assisi: consente agli animisti di sgozzare polli sullaltare della chiesa di Santa Chiara per compiere i loro riti, oltre a favorire il sincretismo religioso. Ieri ad essere criticato era San Giovanni Paolo II, oggi Jorge Mario Bergoglio. Veniva da lontano, lidea di una via religiosa alla pace”.A lanciarla, per primo, era stato Dietrich Bonhoeffer. Infuriava il nazismo e leroico pastore luterano, fatto più tardi uccidere da Hitler, aveva proposto unAssemblea mondiale delle Chiese cristiane che gridasse “la pace di Cristo al mondo impazzito e teso ad autodistruggersi“.  Ad aver paura di Wojtyla. sono sempre stati coloro che per spirito di conservazione del loro potere hanno cercato di boicottarlo e fraintederlo. Tre mesi dopo lelezione, in Messico, Giovanni Paolo II pronunciò delle parole rivoluzionarie. “La Chiesa vuole mantenersi libera di fronte agli opposti sistemi, così da optare solo per luomo”. Abituati, dai tempi di Costantino, a combattere o a cercare lalleanza della Chiesa, a seconda che la Chiesa si opponesse ai loro interessi o li sostenesse, Stati e regimi politici si trovarono spiazzati – e impauriti” – a scoprire una Chiesa che si liberava definitivamente dal fardello delle collusioni ideologiche e politico-economiche. 130 Tentarono di volta in volta di appiccicargli le etichette più diverse. Ma Giovanni Paolo II – parlando di pace, di giustizia e in difesa della vita – non fece altro che rivendicare la verità di Dio. E, per ciò stesso, la verità sulluomo”..

Sappiamo quanto sia imponente la personalità di Wojtila. Il vostro libro è un tentativo, autorevole, di riproporre all’opinione pubblica (non solo cattolica) gli elementi strategici del Pontificato wojtiliano. Partiamo dal primo: il suo Cristocentrismo. Ricordiamo la sua prima omelia : “Aprite, spalancate le porte a Cristo”…. È un Cristocentrismo vissuto in maniera “apocalittica” (in senso positivo ovviamente). È così?

Cristo è al centro. Traccio un identikit del sacerdozio secondo Wojtyla. Un prete impegnato in prima linea nel sociale che al tempo stesso però difende la vita e la famiglia, i migranti e le fragilità. Per capirci, una figura simile a don Aldo Buonaiuto, il sacerdote anti-tratta della Comunità Papa Giovanni XXIII. fu papa Wojtyla a dare una poderosa spallata a quella che una volta aveva criticato come «lantica unilateralità clericale»; ma fu poi la realtà” profonda del cattolicesimo, sotto lazione dello Spirito, a emergere alla superficie, a imporre nuovi protagonisti – i giovani, i movimenti, le donne – e nuove vie – il passaggio da una Chiesa gerarchica, clericale, a una Chiesa più comunitaria, più laicale, più popolo di Dio. Ma va anche ricordato che, questo progetto di Chiesa, si imbatté in forti resistenze, subì ritardi e addirittura correzioni di rotta”, e, in genere, andò incontro a molte incomprensioni. E non sempre a causa di una vera e propria opposizione, ma anche, non di rado, per pigrizia”, per timore delle novità. Fu quanto accadde, con diverse intensità, sia nella Curia romana, sia in non poche diocesi, e perfino in numerose parrocchie. Dove spesso – per la persistenza di un autoritarismo clericale, quello del parroco-padrone – i laici continuavano a essere esclusi da qualsiasi responsabilità. Ma già Giovanni Paolo II, per primo, aveva messo in conto tutto questo. Sapeva bene come le rivoluzioni, specialmente quelle spirituali, avessero bisogno di tempi lunghi, prima di riuscire a entrare nelle coscienze e, più ancora, nelle strutture. Infatti, il Papa non si preoccupò più di tanto, quando venne a sapere dellesistenza di un fronte del no”. A lui importava seminare, e cioè che, nellhumus profondo del cattolicesimo, si depositasse questa immagine di una Chiesa rinnovata. Più che un uomo di governo, Wojtyla si sentiva fondamentalmente un pastore, un vescovo, e non era ossessionato dal fare-per-fare, o dal vederne subito i risultati”.

Il secondo elemento strategico, che ho colto dalla lettura del vostro libro è la critica antropologica alle ideologie: prima al comunismo e poi al capitalismo imperante. Come si sviluppa questa via “antropologica” nel discorso sociale di Giovanni Paolo II?
C’è un episodio che trovo rivelatore. Wojtyla era convinto che la Chiesa fosse credibile nella sua voce esterna solo dopo un processo di revisione e di purificazione interna. Per parlare alluomo e delluomo la Chiesa deve emendare le proprie colpe storiche. essere Finito il Giubileo del 2000, condensando e commentando il tutto nella sua splendida lettera apostolica, Giovanni Paolo II verso la fine se ne uscì con quellincredibile passaggio: «Ho chiesto alla Chiesa di interrogarsi sulla ricezione del Concilio. È stato fatto?». Un interrogativo che, non essendo poi seguito da una risposta, aveva un che di estremamente critico o di provocatorio, o tutti e due. Voleva dire che nessun vescovo – nessuno! – aveva toccato largomento. Nessuno aveva fatto sapere come fosse andata, nella propria diocesi, lattuazione dei documenti conciliari. Si sarebbe tentati di chiedersi: ma come fa un Papa, con un episcopato così, a cambiare ciò che non va nella Chiesa? Papa Wojtyla sapeva bene che il cammino che aveva scelto sarebbe stato lastricato di ostacoli e di incomprensioni. E che avrebbe suscitato inevitabilmente un certo malessere in non pochi credenti: disorientati di fronte alla prospettiva – erronea, certo, ma più che comprensibile – che la storia della Chiesa non fosse altro che una serie ininterrotta di colpe, di ombre oscure. E molto probabilmente, proprio a motivo di queste preoccupazioni, Giovanni Paolo II decise di percorrere la strada dei mea culpa”, come vennero poi chiamati, sostanzialmente da solo”.

Questa critica “antropologica” fa da supporto al suo disegno geopolitico. E su questo bisogna essere molto chiari: Nel pensiero di Giovanni Paolo II non c’è spazio per i nazionalismi e i sovranismi. È così?

Nulla è più lontano da Wojtyla della prospettiva suprematista. Chi oggi cerca strumentalmente di arruolarlo tra i suprematisti non conosce il suo pensiero. Al tempo stesso il suo sguardo era rivolto al mondo senza essere mai mondialista. Giovanni Paolo II era convinto della necessità di riformare in profondità lOnu e, in diversi Angelus, richiamò esplicitamente il personale diplomatico delle organizzazioni internazionali a cambiare strada sui temi bioetici. «Nel Consiglio di sicurezza, per esempio, serve una migliore rappresentatività. La composizione a quindici membri è stata ritoccata negli anni 60 e in mezzo secolo i membri delle Nazioni Unite sono arrivati a quasi duecento: la Santa Sede esorta a fare una riforma», sottolinea il cardinale Martino. E quella di Wojtyla contro il mondialismo è stata «una illuminante strategia per lazione, presente e futura, della Chiesa nella società, a partire dallattenzione ai diritti umani e dalla proposta di un umanesimo integrale, aperto al trascendente». Quello di Giovanni Paolo II è stato un attivismo morale più vigoroso di quello dei sui predecessori, teso a far accettare la legittimità della questione morale in seno ai dibattiti secolari. E, sottolinea il cardinale Martino, contro Karol Wojtyla «hanno agito potenti lobbies culturali, economiche e politiche mosse prevalentemente dal pregiudizio verso tutto quello che è cristiano: nuove sante inquisizioni piene di soldi e di arroganza perché contro la Chiesa cattolica e i cristiani ogni metodo è lecito se serve a zittirne la voce; dallintimidazione al disprezzo pubblico, dalla discriminazione culturale allemarginazione». Ne è un esempio la disinvolta e allegra maniera con cui queste lobbies promuovono tenacemente la confusione dei ruoli nellidentità di genere, sbeffeggiano il matrimonio tra uomo e donna, sparando addosso alla vita, fatta oggetto delle più strampalate sperimentazioni”

 Una parola bisogna dirla sulla visione di Europa che aveva Giovanni Paolo II. Come dimenticare il discorso a Strasburgo, al Parlamento Europeo, nel 1988. Il sogno di una Europa riconciliata… Est e Ovest, i due polmoni, ma anche con l’ambiente. Un Papa europeista. È così?

Si. E per capirlo compiutamente scorriamo rapidamente, come in un documentario, i fotogrammi di questa storia. Cominciamo dalla Seconda guerra mondiale, dai due totalitarismi di segno opposto ma di uguale ferocia che si erano succeduti. E, proprio per la conoscenza diretta che ne aveva dovuto fare, in Wojtyla – e sarà uno dei princìpi ispiratori del suo pontificato – si era rafforzata «la sensibilità per la dignità di ogni persona e per il rispetto dei suoi diritti, a partire dal diritto alla vita». Quindi, riprendendo il filo della storia, la spaventosa vicenda della Shoah, i campi di sterminio e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, lEuropa tagliata in due dalla cortina di ferro”, la Guerra fredda… Finché, sul quadrante della storia, era scoccata unaltra data fondamentale: il 9 novembre del 1989. Una data che aveva segnato la fine della divisione del continente europeo. «Una delle più grandi rivoluzioni della storia», aveva commentato Giovanni Paolo II. Anzi, inquadrandola in una dimensione di fede, laveva accolta come un intervento divino: «Come una grazia». In pochissimi anni, era cambiato il corso della storia. Era caduto un impero che sembrava incrollabile. Erano falliti i messianismi politico-economici, avvelenati dalle loro stesse false ricette. E tuttavia, non aiutato”, non sostenuto, e anche non capito da un certo mondo politico, convinto che labbattimento di un sistema” significasse automaticamente il trionfo del sistema” opposto, quel cambiamento – perché, comunque, fu un grande cambiamento – durò poco; o, almeno, non si sviluppò come si sarebbe sperato. Ricominciò la via crucis del mondo contemporaneo. Centinaia di milioni di donne, uomini, e specialmente bambini, ridotti alla fame, alla miseria. Oppure costretti a subire le tragiche conseguenze della esplosione di nazionalismi, di razzismi, di fondamentalismi, di conflitti armati, e infine di un terrorismo, quello islamico, diffuso su scala planetaria. E, nello stesso tempo, una serie infinita di orrori, di veri e propri genocidi. Le pulizie etniche” nellex Jugoslavia. La prima guerra del Golfo. L11 settembre. La strage in Afghanistan. La seconda, ancora più inutile e devastante, guerra del Golfo. E i tanti attentati, dallEuropa allAfrica, allAsia”.

Anche sull’America Latina il Papa Giovanni Paolo II ha ancora qualcosa da dire. Sappiamo, però, quanto fu complicato il suo rapporto con quel continente…

Nel rapporto con lAmerica Latina va fatta piazza pulita di alcuni fraintendimenti. Nella concezione integralmente umana e cristiana di Karol Wojtyla, in ogni economia e in ogni società andavano garantite la destinazione universale dei beni della terra, la garanzia della proprietà privata come condizione indispensabile dellautonomia individuale, il rifiuto di considerare il lavoro come mera merce, la promozione di una ecologia umana, il ruolo sociale dello Stato, la necessità di una democrazia basata sui valori. Nellintervista concessa a Jas Gawronski il 2 novembre 1993 e pubblicata da «La Stampa», Giovanni Paolo II precisò che «il comunismo ha avuto successo in questo secolo come reazione ad un certo tipo di capitalismo eccessivo, selvaggio, che noi tutti conosciamo bene: basta prendere in mano le encicliche sociali, e soprattutto la prima, la Rerum Novarum, nella quale Leone XIII descrive la situazione degli operai a quei tempi». E, proseguì Karol Wojtyla, «lha descritto a suo modo anche Marx e la realtà sociale era quella, non cerano dubbi, e derivava dal sistema, dai princìpi del capitalismo ultraliberale». Quindi «è nata una reazione a quella realtà, una reazione che è andata crescendo e acquistando molti consensi tra la gente, e non solo nella classe operaia, ma anche fra gli intellettuali».Insomma, secondo il Papa cera un «nocciolo di verità nel marxismo e questa non è una novità, è stato sempre un elemento della dottrina sociale della Chiesa, lo diceva anche Leone XIII e noi non possiamo che confermarlo. Del resto è anche quello che pensa la gente comune. Nel comunismo c’è stata una preoccupazione per il sociale, mentre il capitalismo è piuttosto individualista”.

Un altro punto strategico, come hai ricordato prima, è quello dell’incontro di Assisi. Impressionante fu quell’incontro. Un incontro che alcuni, nella Chiesa, tentarono di ridimensionare. Ma che oggi, a distanza di anni, si può ben considerare una pietra miliare per il dialogo e la fraternità tra le religioni. È così?

La Giornata mondiale di preghiera per la pace (onorata dalla sospensione delle guerre in tutto il mondo, non una sola vittima) fu certamente liniziativa più audace, più coraggiosa, più “nuova” di Giovanni Paolo II, ma anche la più contestata. Lo stesso Wojtyla, seppure in tono scherzoso, raccontò di come per poco non lo scomunicassero”. Alcuni cardinali e non pochi curiali protestarono per il presunto sincretismo, per laver messo le religioni tutte sullo stesso piano. Ma non era stato così. Invece, quella Giornata rappresentò come uno spartiacque nella storia dei rapporti tra le religioni, dopo secoli di divisioni, di contrasti, di incomprensioni. Ed è stato un grande merito della Comunità di santEgidio, laver tenuta accesa la fiaccola” di Assisi e averla portata in giro in tutto il mondo. Giovanni Paolo II aveva maturato la convinzione che la sapienza” di Dio, anziché riservata solamente ad alcuni, fosse una porta spalancata a tutti gli uomini. Un punto di convergenza in cui i credenti delle diverse religioni avrebbero potuto riconoscersi come figli di uno stesso Padre e, addirittura, come fratelli . Una preghiera mondiale per la pace In più, cera da tener conto del continuo aggravarsi della situazione internazionale”. Alla fine, Giovanni Paolo II ebbe un quadro preciso, e ruppe ogni indugio: Una preghiera di tutte le religioni per la pace, ecco che cosa ci vuole”. E decise che la città di san Francesco fosse la sede più adatta per un evento del genere. E così fu così. Per la prima volta, il 27 ottobre del 1986, ad Assisi, i rappresentanti di tutte le religioni, ossia di più di quattro miliardi di donne e di uomini, si trovarono a pregare nello stesso luogo, nello stesso momento, per chiedere allAltissimo il dono della pace”. Le preghiere erano diverse. Diverso il modo di pregare. Diverso anche il destinatario”, alcuni rivolgendosi a un Dio unico, altri a un Assoluto impersonale, senza nome”.

E da ultimo il Papa del no alla guerra in Iraq e del dialogo con l’Islam. Cosa resta di questo insegnamento?
Resta limpostazione di fondo. Già nel 1991, in occasione della prima guerra del Golfo, Giovanni Paolo II, proponendo di metter mano a una riforma del diritto internazionale, aveva opposto un rifiuto assoluto al ricorso alle armi come strumento per regolare i rapporti tra gli Stati. «La guerra – diceva – è unavventura senza ritorno».«Non è una fatalità; essa è sempre una sconfitta dellumanità». E, tale convinzione, il Papa laveva immediatamente ribadita al profilarsi del secondo conflitto del Golfo (o guerra dIraq), per il quale non cera più nemmeno l’“attenuante” etica di dover porre rimedio a una invasione, quella del Kuwait. In più, nel giudizio di Wojtyla, questa operazione militare internazionale – per le motivazioni stesse che ne erano allorigine – portava in sé un carico enorme di pericolosità. Per il rischio di nuovi estremismi, e di «tremende conseguenze» sia per le popolazioni dellIraq sia per lequilibrio geopolitico dellintera regione mediorientale. Papa Wojtyla comunque non si era limitato a mettere in guardia i diretti responsabili, Saddam Hussein, presidente Usa e membri del Consiglio di Sicurezza. Si era anche adoperato – con i suoi strumenti”, sia spirituali che diplomatici – per una vasta opera di prevenzione. 113 Aveva proclamato una Giornata di digiuno e preghiera per la pace in Medio Oriente. Aveva parlato di quel gravissimo argomento con molti capi di Stato. E aveva inviato due suoi personali ambasciatori, a Baghdad e a Washington, per un estremo tentativo. Era stato il cardinale Roger Etchegaray, a incontrare i governanti iracheni. I quali, per la verità, si erano detti disposti a collaborare con gli ispettori delle Nazioni Unite (incaricati di verificare che venisse eliminato «ogni motivo di intervento armato»); ma si erano mostrati assai reticenti circa le accuse di possedere le cosiddette«armi di distruzione di massa», e di sostenere il terrorismo islamico. Atteggiamento non proprio negativo, ma fortemente ambiguo e, quindi, pericoloso. Laltro inviato pontificio, il cardinale Pio Laghi, aveva parlato con il presidente americano, George W. Bush. Il quale, senza neppure leggere la lettera inviatagli da Giovanni Paolo II, aveva risposto che comprendeva perfettamente le ragioni morali del Papa (secondo alcune fonti, invece, si sarebbe detto addirittura convinto che fare la guerra allIraq fosse la «volontà di Dio»), ma non poteva ormai tornare indietro. Anche perché aveva imposto un ultimatum di quarantotto ore a Saddam Hussein”.

Ultima domanda : alcuni circoli di cattolici di destra, supportati dai sovranisti, mettono in contrapposizione Giovanni Paolo II e PAPA FRANCESCO. Mi sembra unoperazione scorretta. Per te? 

Euna strumentalizzazione di corto respiro. Chi attacca oggi Bergoglio, criticava ieri Wojtyla. Torno allesempio iniziale. Per la prima volta nella storia, il 27 ottobre 1986, i leader delle grandi religioni mondiali si incontrarono per dialogare e pregare per la pace. Si aprì una nuova stagione di dialogo, che ha contribuito a superare incomprensioni, diffidenze e chiusure. “La pace è un cantiere aperto a tutti”, disse Giovanni Paolo II in un mondo segnato dalle tensioni della guerra fredda. 33 anni dopo Francesco ha chiuso in Vaticano il Sinodo dei vescovi sullAmazzonia. Una coincidenza di date che ha scatenato dietrologie negli ambienti ultra-trazionalisti che accomunano Giovanni Paolo II e Jorge Mario Bergoglio nellaccusa di eresia, sincretismo religioso e negazione del Magistero tradizionale della Chiesa”.