Vittorio Bachelet a quarant’anni dal 1980. Intervista a Guido Formigoni

Nel quarantesimo anniversario della sua morte, venne ucciso in maniera feroce dalle Br, ripercorriamo, con lo storico Guido Formigoni, i tratti salienti del grande giurista cattolico. Formigoni è professore Ordinario di Storia Contemporanea all’Università IULM di Milano Il suo campo di ricerca  spazia dalla storia della guerra fredda al movimento politico dei cattolici italiani.
 Professore Sono passati 40 anni dal quel giorno, il 12 febbraio 1980, in cui venne ucciso, all’interno della Facoltà di Scienze politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, il professor Vittorio Bachelet. Gli assassini furono i terroristi delle Brigate Rosse. Due anni prima, le stesse BR, avevano ucciso Aldo Moro. Successivamente le BR uccideranno il politologo Roberto Ruffilli, anche lui cattolico democratico. Al di là della specificità delle vittime, c’è un filo rosso che lega questi morti?
Non so se le Br avessero un piano preciso o una visione di lunga scadenza: sul piano conoscitivo non ne abbiamo ancora molto chiara consapevolezza. L’impressione generale però che si ricava scorrendo i casi citati (quelli forse politicamente più rilevanti tra le vittime) è che fossero tra gli esponenti di un riformismo non verbale ma sostanziale, che cioè lavorassero attivamente per consolidare la democrazia italiana in momenti difficili. In questo il carattere cattolico-democratico è una componente (non l’unica, certo). Per questo è anche logico pensare che la furia brigatista li identificasse come i peggiori ostacoli, nella logica esasperata di un “partito rivoluzionario della guerra civile” che avrebbe preferito scontrarsi con un regime più reazionario e impresentabile, per favorire i propri sogni distorti.
Veniamo alla mite figura di Vittorio Bachelet. Che tipo di formazione religiosa e civile è stata la sua?

 

Bachelet è nato in una famiglia cattolica piemontese molto tradizionale, con due fratelli gesuiti. Si è formato nella Federazione degli universitari cattolici, alla luce della cultura religiosa montiniana che aveva impostato per il cattolicesimo il compito di incontrare criticamente la cultura moderna. In particolare, egli fu esponente (con gli amici Alfredo Carlo Moro e Leopoldo Elia, ma anche Piero Pratesi e Raniero La Valle), di una generazione che arrivò all’università alla fine del fascismo e rispetto ai fratelli maggiori fu meno coinvolta direttamente e immediatamente nella politica: ragionava soprattutto sulla “moralità professionale del cittadino” nella società civile e nelle professioni.

Bachelet è stato l’uomo della Costituzione, permeato di quei valori. Un uomo che si è battuto per l’attuazione della Costituzione. In quale punto di elaborazione giuridica c’è stato il suo contributo originale all’approfondimento costituzionale?

 

Egli si specializzò nell’apparentemente arido orizzonte del diritto amministrativo, ma cercò sempre di collegare il funzionamento pratico delle istituzioni ai valori costituzionali, con una solida opera di proposta riformatrice. Questo in particolare su temi come gli enti pubblici economici, la disciplina militare, la giustizia amministrativa. Questioni legate alla crescita del ruolo pubblico dello Stato nella vicenda collettiva, tipica del dopoguerra, che egli voleva sempre ricondurre verso l’allargamento democratico della basi dello Stato, quello che chiamava “un più vasto compito positivo di elevamento non solo economico, ma anche sociale e spirituale delle popolazioni”. Non interpretava certo il senso del diritto come immobilismo.

Vi è nel suo pensiero civile l’attenzione alla comunità internazionale, qui ci sono elementi interessanti: il superamento della visione di “Patria” e una apertura all’Europa. Si può ben dire che riflessione di Bachelet contrasta con la cultura della destra nazionalista?
Certo è una visione di patria profondamente in sintonia con la tradizione nazionale cattolica (è una favola quella dei cattolici antinazionali perché legati a una visione universalistica…). “Noi amiamo la patria come la nostra casa che abbiamo imparato a volere solida e confortevole piuttosto che sontuosa. […] Per questo non amiamo la retorica della patria: dell’amore di patria ha detto qualcuno che più se ne parla meno ce n’è”. La realtà umana della patria era collegata all’idea che le identità nazionali sono un bene fin quando aiutano a costruire comunità collaboranti tra loro. L’orizzonte europeo fu in questo senso per lui sorgivo e precoce (si preoccupava di precisare, non di un “nazionalismo europeo”…). Si occupò spesso pubblicisticamente del tema della pace, che leggeva come obiettivo di un impegno culturale prima ancora che politico. “I giovani di oggi sanno che solo con la pace tutto può essere salvo: sanno che il servizio alla pace  è più duro e deve essere più generoso del servizio della guerra”. Il credente non poteva odiare nemmeno i nemici, per cui i conflitti potevano sempre trovare una via risolutiva. Il suo era quindi un anti-nazionalismo convinto.
Bachelet è ricordato come il Presidente rinnovatore dell’Azione Cattolica italiana. La famosa “scelta religiosa” del dopo Concilio Vaticano II. Quali erano le coordinate di quell’Azione Cattolica? Ha ancora qualcosa da dire oggi alla “Chiesa in uscita” di Francesco?

 

Egli riconobbe che l’espressione forse non fu felicissima, ma la sostanza era molto chiara. Si trattava di rinnovare l’Ac secondo il modello conciliare, per farne un laicato “ponte” tra Chiesa e società (l’espressione che lui fece propria era di Paolo VI). Il che implicava una concentrazione sull’essenziale del crescere come cristiani, staccandosi da una certa idea di influenza diretta sulla politica che l’Ac degli anni Cinquanta aveva coltivato. Ma non per abbandonare a sé stesso l’impegno civile dei cristiani: anzi, per alimentarlo meglio con un contributo educativo, culturale, di mentalità. Un contributo che fosse vivo e genuino, all’altezza di un enorme “cambiamento d’epoca” che egli vedeva nel mondo degli anni ’60 e ’70, e che chiedeva proprio di distinguere tra l’essenziale e il caduco: intuizione che papa Francesco sta riprendendo sempre più chiaramente.

Il suo impegno istituzionale più alto fu come Vice presidente del Consiglio superiore della magistratura. Un ruolo fondamentale per lo sviluppo costituzionale dell’Italia. Come si svolse quel ruolo?
Fu un po’ particolare: egli lasciò la presidenza nazionale dell’Ac nel 1973 e fu chiamato da Moro per dare un servizio istituzionale. Dopo l’elezione del 1976 la Dc scelse per la prima volta di mandare al Csm con il voto parlamentare dei professori qualificati più per competenza che per vincolo partitico. La sua vicepresidenza scaturì – dopo qualche conflitto iniziale – come punto di mediazione in un consiglio molto pluralistico, in cu la magistratura esprimeva vivacità correntizia, ma anche preoccupazioni per un ruolo civile tutt’altro che scontato e banale. Erano anni di critiche e contestazioni. Egli lavorò per l’unità e l’indipendenza della magistratura senza apparire troppo, con mitezza e intelligenza, come di consueto. E in questo ebbe riconoscimenti anche da chi inizialmente l’aveva poco sostenuto.
Dalla memoria viva di Vittorio Bachelet possono venire degli stimoli per comprendere un mondo radicalmente cambiato?

 

Naturalmente quarant’anni sono tanti, e il suo mondo è molto lontano dal nostro, ma in termini di metodo ci sono elementi ancora molto eloquenti per l’oggi. Penso ad esempio alla sua idea di una società ricca e articolata, rispettosa del pluralismo delle aggregazioni con i loro compiti diversi (anche l’Ac doveva appunto riscoprire il proprio specifico…): oggi in tempi di facile enfasi sulla disintermediazione e sull’individualismo metodologico, che porta le persone sole di fronte a poteri mediatici e politici verticistici, andrebbe riscoperta questa idea. La sua visione delle nazioni come un bene per gli esseri umani contrasta radicalmente con il nazionalismo risorgente e grezzo delle destre dei nostri giorni. E poi si può segnalare l’attitudine al dialogo civile e alla comprensione, radicalmente diversa dal linguaggio dominante dell’odio e della contrapposizione. Come anche è straordinariamente attuale l’esperienza di una comunità cristiana che non solo insista sui valori (Bachelet affrontò la delicata questione del divorzio con posizioni molto nette), ma si ponga sempre in aiuto e rispetto verso coloro che si pongono il problema complicato di ottenere la migliore realizzazione possibile di questi valori. La spiritualità che accompagnava queste scelte era chiara. Egli ebbe occasione di dire a un convegno della Cei nel 1968: ““[Il] mondo […] fra venti anni sarà assai più diverso da quello di oggi, quanto non lo sia quello di oggi rispetto al mondo di venti anni fa. Questo vortice sembra sopraffarci, farci sfuggire di mano ogni ragionevole programma. Il cristiano, se fosse veramente ricco di fede, di speranza, di amore, non sarebbe mai stato libero come ora, proprio per questa evidenza della provvisorietà della sua condizione umana, che lo spinge sì all’azione, ma nell’abbandono fiducioso alla Provvidenza”.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *