La macchina dell’odio che inneggia al contagio. Intervista a Nello Scavo 

Il giornalista de l’Avvenire Nello Scavo (Ansa)

C’è una “macchina” dell’odio che si sta “armando”, in questi giorni per diffondere il contagio. Un contagio mirato contro poliziotti, le comunità di immigrati, gli ebrei e i musulmani. Chi sono questi “accelerazionisti”? Ne parliamo, in questa intervista, con Nello Scavo giornalista d’inchiesta e inviato di guerra del quotidiano cattolico Avvenire

 

Nello, nemmeno di fronte alla drammatica situazione (con migliaia di morti e contagiati dal “coronavirus”) la “macchina dell’odio” si ferma. Chi sono questi folli? Dove si collocano?
E’ un’accozzaglia, ma sarebbe sbagliato sottovalutare questa strana armata. Ci sono gli spodestati dalla politica desiderosi di tornare in sella, i suprematisti travestiti da sovranisti, i neonazisti che indossano la felpa, forse più presentabile, dei cosiddetti “identitari”, i neofascisti di casa nostra sempre in cerca di un’arena, gli svalvolati del web che si prestano a fare da cassa di risonanza. Insomma mondi non necessariamente in contatto, tra loro ma con una consonanza di scopi.

Chi sono gli “accelerazionisti”? Contro chi mirano?
Si tratta di gruppi suprematisti e neonazisti nordamericani che secondo diverse fonti hanno pianificato, nel caso qualcuno di essi venisse contagiato, di entrare poi volontariamente in contatto con gruppi etnici e categorie di persone che vorrebbero far sparire, vuoi per fanatismo ideologico vuoi per interesse criminale. In particolare suggeriscono di contagiare agenti di polizia, e poi comunità di ebrei e islamici. Incuranti del fatto che il virus non conosce certo alcuna barriera etnica.

La loro presenza nel web è diffusa, tanto da preoccupare l’ FBI. È così?
Un recente rapporto dell’Fbi diffuso dall’emittente Abc descrive questi gruppi e le loro intenzioni. Sono anche state specificate le modalità con cui suggeriscono di accelerare il contagio diventando di fatto untori.

In Italia com’è la situazione? Le autorità sono al corrente di questa rete?
Nel nostro Paese prevale la coalizione dell’odio, che usa le fake news come propellente e coagulante. Per alcuni gruppi è una scelta ideologica. Per altri solo un mezzo come un altro per costruire e consolidare il consenso. Quello che sperano è che il clima di paura per il contagio e di incertezza per il futuro possano fare da amplificatore.  Infatti, per tutti questi gruppi il Coronavirus è diventato un’altra potente arma di disorientamento di massa. Così spariscono dal dibattito i diritti umani, i diritti civili, i campi di prigionia per migranti da noi finanziati in Libia, l’inferno dei profughi in Grecia, la rotta balcanica. E se questi argomenti entrano nel dibattito è solo nella chiave del rischio contagio, dunque per giungere alla solita conclusione: il male arriva da fuori, e noi dobbiamo chiuderci dentro. Secondo quella sinistra “pedagogia della chiusura” che ha fatto la fortuna di molti leader politici, oggi terrorizzati da una evidenza: il contagio si affronta insieme, in comunità tra i popoli, l’esatto contrario del settarismo identitario.  Una modalità di pensiero, quella dell’odio e della chiusura, che ha finito per alimentare quella che Papa Francesco chiama “cultura dello scarto”, come del resto sentiamo dire da chi vorrebbe conviverci che se a morire di Coronavirus sono anziani, disabili, senza tetto, in fondo si tratterebbe del male minore”.

Come si sa, appunto, la macchina dell’odio si alimenta delle Fake news. Purtroppo, in questi giorni, anche autorevoli giornalisti hanno diffuso questo veleno. Mi riferisco a quello contro l’impegno delle Ong. È così Nello?
Quello contro le Ong si sta rivelando un clamoroso boomerang. Tanto più che molti volontari delle organizzazioni (come medici e infermieri) sono già dipendenti del Servizio sanitario nazionale, e che periodicamente prestano la loro opera in attività umanitarie in Italia, all’estero o sulle navi di salvataggio. A voler concedere l’attenuante della buona fede, si direbbe che chi si è fatto portavoce della campagna dell’estrema destra internazionale, fosse quantomeno disinformato. Proprio ciò di cui l’informazione non ha bisogno in questi giorni.

Ultima domanda: Vogliamo ricordare Come si sta sviluppando l’impegno delle Ong contro terribile virus?
Organizzazioni come Medici senza frontiere, Emergency, Mediterranea, Open Arms, Intersos e numerose altre hanno già loro loro specialisti sul campo, che si assommano alle migliaia di volontari del Terzo settore. A questo proposito nei giorni scorsi proprio il Forum del Terzo Settore, che rappresenta decine di associazioni e organizzazioni, segnalava come l’altissimo numero di volontari impegnati negli ambiti più disparati e meno noti (come il servizio di baby sitter offerto gratuitamente ai sanitari impegnati giorno e notte in corsia) sia esposto a rischi altissimi senza neanche ricevere le mascherine. Insomma, l’Italia migliore è in prima linea o a dare una mano nelle retrovie. E merita di essere raccontata.

Emergenza Coronavirus: necessario ripensare la sanità e la difesa. Intervista a Mao Valpiana

Il reparto di terapia intensiva dell’Ospedale papa Giovanni XXIII

La battaglia contro il terribile virus sarà lunga. I dati diffusi dalla protezione Civile, ieri sera, fanno segnare un piccolo rallentamento. Ma, come ha affermato Borrelli, Commissario all’Emergenza,  “I contagiati ufficiali a ieri sera erano 63 mila. Ma il rapporto di un malato certificato ogni dieci non censiti è credibile”. I 63 mila, quindi, sono la punta di un iceberg. La guardia deve restare alta. Gli esperti dicono che questa settimana sarà cruciale per capire se il rallentamento sarà “strutturale”. Quindi bisogna continuare, assolutamente, a rispettare le regole di sicurezza. Ed è in questo quadro che si inserisce la richiesta del mondo del lavoro di chiudere la produzione di “beni non necessari” per garantire la salute dei lavoratori.

Ed è in questo filone, per la sicurezza nel lavoro, che si inserisce la richiesta della  Campagna Sbilanciamoci!, Rete della Pace e la Rete Italiana per il Disarmo per l’immediato blocco in tutte le fabbriche che producono sistemi d’arma.

“È incomprensibile – scrivono nel loro comunicato – come sia considerato “strategico” e necessario continuare a far montare un’ala ad un cacciabombardiere o un cingolo ad un carro armato, con il rischio di far contagiare i lavoratori addetti a queste attività. Riteniamo inaccettabile chiedere ai lavoratori un sacrificio così alto per una produzione che, oggi, non ha nulla di strategico ed impellente e costituisce solamente un favore all’industria bellica e al business del commercio di armamenti.

Non è in questione il funzionamento operativo del settore della Difesa nazionale in questo momento così delicato, funzionamento che deve essere sempre garantito nei limiti e nelle forme previste dalla nostra Costituzione e del nostro ordinamento.

 Il tema è perché si debbano tenere aperte fabbriche – in cui i lavoratori rischiano ogni giorno il contagio – che producono armi di cui oggi non abbiamo nessuna necessità, o che vengono vendute ad altri Paesi o – come nel caso degli F35 – che fanno parte di un Programma a lungo termine e che potrebbe senza problemi prendersi una pausa di qualche settimana (anche se va ricordato come le nostre organizzazioni da anni ne chiedano la chiusura a causa degli enormi

costi, dei problemi tecnici e ritardi e dell’inutilità rispetto ad altri investimenti).

Per questo motivo chiediamo al Governo di rivedere subito l’elenco dei settori produttivi esclusi dal blocco, fermando il lavoro in tutte le fabbriche che producono sistemi d’arma, con la sola eccezione di quegli stabilimenti in grado di riconvertire la produzione di macchinari e forniture per rispondere ai bisogni del servizio del sistema sanitario”. In questa intervista a Mao Valpiana, Presidente nazionale del Movimento Nonviolento, associazione aderente a Rete Italiana Disarmo e Rete della Pace, approfondiamo l’argomento di una possibile riconversione della politica di difesa.

Mao Valpiana, stiamo vivendo giorni difficili a causa del virus COVID-19. Giorni che ci fanno riflettere su un possibile ripensamento delle nostre priorità. Quello che sta avvenendo è la riscoperta del valore immenso della salute e sanità pubblica. È così Valpiana?

Sì, ora che l’intero popolo italiano, e tutti gli europei, gli asiatici, e persino grande parte degli americani, sono in quarantena chiusi nelle loro case, grandi o piccole, ricche o povere, ognuno, singolarmente e collettivamente,  si trova a confrontarsi con il primo valore assoluto: la propria salute. Domani, sarò sano o contagiato? Tutti, ma proprio tutti, capiscono che “quando c’è la salute, c’è tutto”. Per la prima volta, forse, con il nuovo mondo nato dopo il conflitto mondiale che ha sconfitto il nazismo, e fatto nascere l’ONU, ci si rende conto che persino l’economia mondiale, viene dopo la salute individuale. È una rivoluzione impensabile fino a qualche settimana fa. E tutti capiscono che per tutelare la salute propria e delle persone care, figli, nipoti, amici, è assolutamente indispensabile avere un sistema sanitario pubblico che funzioni. In Europa, nel bene e nel male, ce l’abbiamo, con pregi e difetti; là dove, invece, la sanità è considerata una merce come altre, chi ha i soldi se la compera, chi non li ha deve rinunciarci, capiscono il dramma che deriva da una pandemia che colpisce chiunque, ricco o povero, democratico o repubblicano, bianco o nero. Ecco, ora, finalmente e purtroppo, siamo davvero tutti uguali avanti al Virus.

Ma insieme a questo, voi come Rete italiana per il Disarmo, affermate che proprio questa crisi può portare ad una rimessa in discussione del concetto di difesa. In che senso?

Certo. Il punto è quello dell’idea di “difesa della Patria”, che la Costituzione, all’articolo 52, definisce come “sacro dovere” e la affida al “cittadino”. Quindi siamo noi cittadini, società civile, i veri difensori della Patria, non l’esercito. Da cui se ne deduce che la patria può (deve?) essere difesa non con le armi, ma con i valori costituzionali. Lo dicono anche alcune sentenze dalla Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato, della Cassazione, che hanno riconosciuto e parificato le forme di difesa armata e nonviolenta della patria. A quarantotto anni dalla Legge 772/72, che riconosceva la possibilità dell’obiezione di coscienza al servizio militare e la concessione della possibilità del “servizio civile sostitutivo”, ed a diciannove dalla Legge 64/2001 che istituiva il Servizio civile nazionale finalizzato a “concorrere, in alternativa al servizio militare obbligatorio, alla difesa della Patria con mezzi ed attività non militari”, quattro anni fa il governo ha approvato, in via definitiva, il decreto legislativo che disciplina il Servizio civile universale relativo alla riforma del Terzo settore, come “progetto finalizzato alla difesa, non armata e nonviolenta della Patria, all’educazione, alla pace tra i popoli e alla promozione dei valori fondativi della Repubblica italiana, con azioni concrete per le comunità e per il territorio”. Ce n’è abbastanza per capire come il concetto di difesa oggi debba essere completamente ripensato, e l’emergenza sanitaria ce lo impone.
Questi sono i giorni del dolore e della cura. Ci hanno fatto conoscere ancora di più la grande bravura dei nostri medici e infermieri. Il nostro Sistema ha retto, ma ha anche evidenziato limiti (carenza di personale e macchinari). Segnalate la diminuzione della spesa sanitaria. Quali sono i numeri?

Il valore e l’abnegazione di medici, infermieri, e tutto il personale sanitario (anche di chi sanifica e pulisce ospedali e camere dei pazienti, anche dei portantini, anche di chi lava lenzuola e camici), è fuori discussione. La spesa sanitaria ha subìto una contrazione complessiva rispetto al PIL passando da oltre il 7% a circa il 6,5% previsto dal 2020 in poi, la spesa militare ha sperimentato invece un balzo avanti negli ultimi 15 anni con una dato complessivo passato dall’1,25% rispetto al PIL del 2006 fino a circa l’1,40% raggiunto ormai stabilmente negli ultimi anni (a partire in particolare dal 2008 e con una punta massima dell’1,46% nel 2013). Nel settore sanitario sono stati tagliati oltre 43.000 posti di lavoro e in dieci anni si è avuto un definanziamento complessivo di 37 miliardi con numero di posti letto per 1.000 abitanti negli ospedali sceso al 3,2 nel 2017 (la media europea è del 5). Le drammatiche notizie delle ultime settimane dimostrano come non siano le armi e gli strumenti militari a garantire davvero la nostra sicurezza, promossa e realizzata invece da tutte quelle iniziative che salvaguardano la salute, il lavoro, l’ambiente (per il quale l’Italia alloca solamente lo 0,7% del proprio bilancio spendendone poi effettivamente solo la metà).
Puntate il dito anche sulle spese militari. Non è un po’ troppo meccanicistico?

No, è come l’esempio classico della coperta. Se la tiri da una parte, si accorcia dall’altra. Senza dimenticare che l’impatto di questa epidemia è reso ancora più devastante dal continuo e recente indebolimento del Sistema Sanitario Nazionale a fronte di una ininterrotta crescita di fondi e impegno a favore delle spese militari e dell’industria degli armamenti. Non siamo cosi sprovveduti da pensare che tutti i problemi sanitari dell’Italia si possano risolvere con una riduzione della spesa militare (anche per il diverso ordine di grandezza: 5 a 1), ma è del tutto evidente che una parte della soluzione potrebbe risiedere proprio nel trasferimento di risorse dal campo degli eserciti e delle armi a quello del sistema sanitario e delle cure mediche, tenendo conto che le tendenze degli ultimi anni dimostrano una strada diametralmente opposta.
Pensate che la spese militari aumenteranno a scapito degli investimenti in favore della salute?

Il nostro impegno, da anni, è quello per una riduzione drastica delle spese militari, a favore di quelle sociali. Questo è l’obiettivo politico principale della nostra Campagna per la “Difesa civile, non armata e nonviolenta”. Quando diciamo “Un’altra difesa è possibile”, vogliamo di invertire la rotta.

L’unica difesa legittima è quella nonviolenta. Ci occupiamo da anni di sottolineare la problematicità e gli sprechi delle spese militari, che drenano molte risorse del nostro Paese verso strutture incapaci di risolvere i conflitti a livello internazionale. Non è però solo una problema di fondi ma di impostazione generale ed è ora quindi che il nostro Paese, con una scelta coraggiosa ed innovativa, si doti di strumenti migliori per affrontare le problematiche mondiali del nostro tempo. Finché non sarà a disposizione delle nostre istituzioni anche una scelta possibile di azione non armata e nonviolenta sarà facile il ricatto di chi chiede soldi per le strutture militari e per le armi”.
Quali sono i progetti di difesa, i sistemi d’arma che possono essere abbandonati e riconvertiti?

Oggi è evidente a tutti. Abbiamo bisogno di caschi per la respirazione ventilata, non di caschi per i piloti degli F35. Abbiamo bisogno di posti letto di terapia intensiva, non di posti di comando in caserme. Ci sono fabbriche, come a Cameri in provincia di Novara, che producono armi di cui oggi non abbiamo nessuna necessità, o che vengono vendute ad altri Paesi o  – come nel caso degli F35 – che fanno parte di un Programma a lungo termine e che potrebbe senza problemi prendersi una pausa di qualche settimana (anche se va ricordato come le nostre organizzazioni da anni ne chiedano la chiusura a causa degli enormi costi, dei problemi tecnici e ritardi e dell’inutilità rispetto ad altri investimenti). L’industria bellica non è un settore essenziale e strategico: questa può essere l’occasione per un ripensamento e una riconversione necessaria (in primo luogo verso produzioni sanitarie).
Quindi proponete una riconversione integrale della nostra economia. Ma è realistica?

Non solo è realistica, ma è assolutamente necessaria, e sarà l’unico modo per riprendere quando usciremo dall’emergenza. Da un’economia di guerra, ad un’economia di pace.

 

“Governo e Confindustria, attenzione al conflitto imprese – lavoratori”. Intervista a Giuseppe Sabella

Com’è noto, il presidente del consiglio Conte ha firmato il decreto “chiudi Italia” che sospende le produzioni non essenziali in tutto il Paese e che contiene la lista delle attività consentite. La firma è arrivata però dopo una giornata di tensione e molte ore dopo l’annuncio di sabato sera del fermo alle attività, anche con alcune differenze rispetto a quanto era trapelato. Ciò che è successo è ormai noto, ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Sabella, come vede questo nuovo decreto di Conte?

Lo vedo pasticciato, non solo per colpa sua. Nel Paese c’è confusione e, come al solito, nei momenti di emergenza non riusciamo a definire delle strategie.

A cosa si riferisce in particolare?

Innanzitutto, qualcosa non sta funzionando sul piano sanitario. In Veneto stanno controllando egregiamente il problema, così anche in Emilia Romagna. In Lombardia molto meno: emerge un ruolo del sistema sanitario territoriale che in Veneto ed Emilia sta funzionando e in Lombardia no. Si è deciso di intervenire sul contagio col ricovero, intasando così gli ospedali e rendendo più vulnerabili le persone colpite dal covid-19 quando non necessitanti di terapia intensiva. E poi, sul piano del lavoro, ma che senso ha tenere “tutti a casa” e le fabbriche aperte?

Sta dicendo che bisognava fermare più produzioni?

Vedo due pericoli in questa situazione. Il primo è quello di un’azione non efficace del contenimento del contagio. Dall’altro vi è un problema che se non controlliamo da subito rischia di esplodere: come si deve sentire chi deve andare al lavoro pur non facendo parte delle filiere essenziali? Vi è un elenco lunghissimo e, oltre all’agroalimentare e al farmaceutico, tutto il resto è molto opinabile.

Qual è il secondo rischio sociale a cui alludeva?

Come in ogni situazione di crisi, a livello sociale matura sempre un risentimento che questa volta ha caratteristiche molto peculiari. I politici in prima linea, anche per il loro impegno che la gente avverte, godono di fiducia nonostante i loro errori. Qualcosa non ha funzionato in questa situazione e l’irrigidimento di Confindustria – che nemmeno in modo riservato ma con una lettera che ha fatto il giro del mondo – rischia di resuscitare un conflitto sociale che pensavamo relegato ai libri di storia: tra i lavoratori sta crescendo un’idea che le imprese, pur di produrre, non siano interessate al rischio che corrono gli operai. Non a caso, in particolare nel chimico, nel tessile, e nella gomma plastica vi sono scioperi, oltre che dei metalmeccanici lombardi. E ve ne saranno altri. Del resto, coloro che lavorano in produzione sono gli unici che non possono farlo in smart working.

E come si poteva gestire questa situazione?

Innanzitutto con più accortezza. Faccio notare che vi sono aziende che hanno chiuso senza aspettare decreti: la prima preoccupazione è stata per le persone. Certo dobbiamo anche tener presente che molte imprese non saranno in grado di reggere il contraccolpo. Ad ogni modo, più che una trattativa serrata alla luce del sole su attività che scopriamo oggi essere “essenziali” – sono un centinaio le voci nell’elenco – forse era il caso di essere molto rigidi su chi è in grado di garantire standard di sicurezza e chi no. E poi, ma possibile che non si comprenda che non può finire tutto sui giornali? Rimpiango i tempi delle segrete stanze…

Come si può procedere secondo lei?

Penso che dobbiamo capire come si muove il virus, la situazione in Lombardia è molto critica e al Sud è tutta da capire. Ad ogni modo, probabilmente si tratterà di intervenire ancora per fermare qualcosa ma mi piacerebbe innanzitutto che i vertici di sindacato e impresa lavorassero in modo riservato e definissero una strategia per il Paese insieme al governo, non solo di contenimento ma anche per una ripresa che deve iniziare a preoccuparci.

Ma, nel concreto, quale strategia?

L’Europa sta mettendo a disposizione una montagna di denaro, non solo con il quantitative easing. Questo, intanto, dovrebbe dirci che non è vero che l’Europa non sta facendo nulla. Il punto è, saremo in grado di cogliere l’occasione? Il denaro va intercettato e investito nel modo giusto. Qui non si tratta di salvare il salvabile, si tratta di capire laddove si possono generare fattori di sviluppo e di competitività per il sistema Italia: c’è qualcosa che avrà un futuro e qualcosa che inevitabilmente non lo avrà. Bisogna investire su ciò che sappiamo ci permetterà domani di competere nel mondo, mi riferisco in particolare alla componentistica ad alto valore aggiunto, alla chimica, all’agroalimentare, alla moda, ma le eccellenze in Italia sono tante e distribuite. Vanno utilizzate per creare lavoro e sviluppo. Come fare? Condividendo un piano di innovazione e di trasformazione delle nostre produzioni e delle nostre risorse umane, spostando il lavoro dove vi sono queste condizioni. Le competenze e la formazione delle persone avrà un ruolo fondamentale ma prima di tutto vanno individuati dei buoni precettori e dei buoni dirigenti. Ci attende una fase di ricostruzione del Paese e la politica deve smetterla di litigare. Tutti stiamo perdendo qualcosa a questo giro e, quindi, dobbiamo tutti essere disponibili al cambiamento. Per il bene nostro e di tutti.

C’è chi parla di una nuova IRI. È questa la strada giusta?

No, però è fuori discussione che con la fine dell’IRI è morto un gruppo dirigente che sapeva interfacciarsi con l’impresa e con l’industria. Va ricreata una task force con funzionari che hanno queste competenze. Calenda sarebbe un ottimo dirigente capo.

Alla ricerca di un senso a questi giorni… Intervista a Ivo Lizzola

Ivo Lizzola è un professore universitario, è ordinario all’Università di Bergamo, ha riflettuto molto sui percorsi dedicati alla “cura” delle persone. Ha elaborato un’etica della cura che tocca molteplici aspetti della persona (dai giovani drop out, ai carcerati). A lui chiediamo, in questa intervista, una riflessione sul “senso” di questi giorni tragici. A partire dalla sua esperienza in una zona tremendamente colpita come il bergamasco.

Oggi ancora pagine intere di necrologi su L’Eco di Bergamo. Dodici, come da due settimane. Che fanno numeri di certo più alti di quelli ufficiali. Un rosario di volti, di sguardi, di sorrisi; e  costellazioni di famiglie, di prossimità. Storie, relazioni, progetti di vita, memorie, speranze, promesse, unicità… che quasi scivolano via in uno sciame. Come inghiottiti in un cielo che si è fatto stretto.

In una rapidità del finire che quasi nessuno spazio e possibilità lascia a racconti, consegne, lasciti, gesti, congedi. Bruciati. E ognuno spera siano almeno un poco serbati nella carezza sconosciuta di un infermiere, un medico, sfinito, sfinita. Pure lei o lui lontano e separato dai suoi cari, a loro protezione.

Cosa resta alfine, cosa regge di queste morti “affollate”, affidate, disperse? Altri popoli e luoghi del mondo hanno continuato a conoscere fino ad oggi nelle guerre e nelle carestie, siamo noi che le reincontriamo dopo generazioni, attoniti. Restano forse il segno, la traccia d’amore, le dedizioni e le promesse: poco più d’un seme.

Professore, in questi giorni, la pandemia che ha colpito l’Italia, in modo particolare la sua Bergamo, sta facendo interrogare in profondità l’ opinione pubblica italiana. Tra questi anche teologi e filosofi. Siamo alla ricerca di un senso a questi giorni. Nel giro di pochi giorni il nostro vivere è cambiato. Viviamo sospesi in momenti in cui fa da padrona l’incertezza sul futuro..

L’incertezza ci è entrata dentro, prima ci preoccupavamo del progetto e della previsione sul futuro, del possibile e del controllo. Affaccendati per assicurarlo, svilupparlo, sperimentare innovazioni, nuovi incontri. C’era scontatezza, diritto, merito, per alcuni anche successo … Vita dalle emozioni e dalle novità… scontate. Era il mio tempo, il futuro mio, frutto delle mie avventure   e delle mie intenzionalità.

Bastava non stare troppo vicini alle realtà umane e sociali dove non si può che provare a vivere, nei margini e nei vuoti dei paesaggi  interiori, nelle fratture esistenziali: l’illusione per molti era servita.

Ma la vita è precaria, flottant scriveva Paul Ricoeur, incerta e titubante. Ci si trova in vita prima d’ogni esercizio di volontà. E in una “certa necessità di esistere“ – scrive il filosofo. Ma la vita “poi sfugge, si sottrae al controllo”: non si regna su di essa”. Sí, occorre continuare a volerla, sceglierla, la si deve curare, coltivare, anche se poi, in qualche modo, ti lascia.

Stanno morendo tanti anziani e tanti grandi anziani. Le memorie, le continuità di tante storie locali, a volte la tenuta delle relazioni. Muoiono tante donne e tanti uomini comunitari, volontari, persone cariche di saperi e racconti. Testimoni.

Tanti, tutti insieme. Senza avere tempo di celebrarli, di narrarli, di tenerli un po’ nei rosari dei ricordi, dei debiti, delle Ave Maria tra persone raccolte attorno a loro. Come se una generazione venisse decimata. Di una comunità si strappassero radici. Come riseminare riprendendone le consegne?

Sono, anche, i giorni cui si fa esperienza della “distanza” : la distanza di un metro, il divieto di “toccare, di baciare , di abbracciare”. Paradossalmente per mostrare attenzione all’altro devi stare ben lontano. Gabriel Marcel diceva che il “corpo ricorda”. Stiamo sperimentando un’ altra “corporeità”?

C’è una distanza che è nei corpi e che è dei corpi che noi siamo. La sentiamo mordere, radicale: ci sono corpi sommersi e corpi salvati. Corpi esposti, tremanti; corpi in mani d’altri. Corpi rinchiusi e che si sentono vite senza riparo.

In questi giorni molti si sentono sommersi, presi dalla malattia non conosciuta e dagli apparati sanitari. Sentono di non appartenersi più. Gli altri, per ora salvati, da un lato temono di scivolare nel gorgo, dall’altro sentono il peso di una ingiustizia e di una colpa non imputabile.

Con studentesse e studenti, fascia d’età un po’ più protetta oggi, abbiamo riletto I sommersi e i salvati di Levi, le pagine sulla zona grigia, utili a leggerci dentro. Anche a trovare forme di disposizione e dedizione, semplici gesti buoni e giusti. Come quelli di Silvia che mi scrive: “Grazie per la lezione a distanza di ieri. Non ho preso parola perché ero un po’ in lotta con me stessa. Mi capita in questi giorni di sentire un po’ il peso della mia sensibilità, e un po’ di colpa. Come se fossi arrivata al limite, come se non potessi più sopportare di “sentire” o di “compatire”. Per uscirne mi sono dovuta inventare un modo per essere presente. Così mi sono svegliata presto, ho impastato le sfoglie e il pane e ho portato pane fresco ai miei anziani vicini e i croissant ad una mia amica che lavora al Pronto Soccorso, nel reparto Covid.

Mi sono sentita viva, bene. Credo lo farò anche domani”.

Il gesto “inutile” di Silvia che prova a stare presso l’angoscia dei vicini, e l’esposizione rischiosa dell’amica, mi ha ricordato  la figura di Lorenzo, l’operaio italiano che Primo Levi ricorda in Se questo è un uomo. Gli aveva portato un pezzo di pane e avanzi di rancio per alcuni mesi, a lui, intoccabile.

“Con il suo modo piano e facile di essere buono”, scrive Levi, raccontava che esisteva un mondo altro, una possibilità di bene, di speranza , “ per cui metteva conto di conservarsi”. Distanza, profondo legame. Sì, il corpo ricorda!

Ma c’è un altro elemento di cui facciamo esperienza : quello della prossimità e della cura. Vengono in mente le parole di Albert Camus scritte nel suo romanzo un capolavoro, La Peste :”Ma lei sa, io mi sento più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”. Oltre ai medici e infermieri, anche giovani che si offrono di portare la spesa agli anziani del proprio condominio o del proprio quartiere anche in zone altamente rischiose… È una bella picconata alla cultura dei muri e della indifferenza. È così?

In questi giorni nei quali la vulnerabilità e la fatica della speranza paiono lasciarci sospesi tra caso e necessità, in cui le domande sul vivere e sul morire restano aperte, pare restino solo degli esili fili della tessitura del mistero dell’incontro. Di un operoso, solidale e sollecito incontro tra le donne e gli uomini.

Dentro le “zone del rispetto” di questa inedita distanza-vicinanza, la cura di sé è cura dell’altro: qui resistono fili di senso, di sogni buoni, di dignità, di giustizia, di gratuità fraterna. Certo nulla ci garantisce che domani sperdimento, rescissione delle radici, cattive nostalgie, ricerca di nuovi idoli rilegittimino l’esercizio della forza tra le donne e gli uomini. Ma ricordiamo le parole di Simone Weil: “ Sembra di trovarsi in un impasse da cui l’umanità possa uscire solo con un miracolo. Ma la vita umana è fatta di miracoli”.

Per far fronte al sottile e intimorito insinuarsi della distanza serve lucidità, cura del sentire l’altro, attenzione a chi stiamo diventando. Se così, allora non possiamo che accettare di chinarci di nuovo, con cura e con intelligenza attenuta, sulla vita, sui legami, sul lavoro, e sulle forme della vita comune che resiste e nasce. Sulla vita che a volte muore.

Tante e tanti si chinano, a volte intervenendo e più spesso impotenti tenendo viva una danza di sguardi più che di tocchi e carezze. “Eppure ho già visto tanta sofferenza in passato- mi dice Beppe, un amico medico- ma è come non avessi mai vissuto… qui c’è silenzio, ci si guarda”. Tenerci negli occhi: uno a uno, una a una. Come salvare il nome proprio di ognuno.

Il dono, la gratuità sono dimensioni proprie d’ogni gesto nostro, nella professione, sul lavoro, a casa, negli incontri, nel gioco … lí o ci offriamo o ci serbiamo solo per noi stessi, per la nostra recita. La prossimità e la cura sono degli umili, dei debitori, dei provati; sono dimensioni di donne e uomini non innocenti, non perfetti, solo riconoscenti.

C’è anche, tragicamente, l’esperienza del dolore assoluto: la morte. Purtroppo tocca chi è già fragile. Il portare il proprio caro sulla soglia delle terapia intensiva e non vederlo più… Uno strazio assoluto, un senso di abbandono non oso immaginare cosa passa nella mente di quelle persone

All’inizio del corso di laurea magistrale, normalmente faccio due dediche: quest’anno, neppure si parlava ancora della Cina, una l’ho fatta raccontando ai ragazzi del barbiere di Wuhan: avevo letto  di quest’uomo che alla fine del suo turno di lavoro andava in quell’ospedale che hanno costruito in dieci giorni a fare un gesto semplicissimo: tagliare i capelli. Dicevo che dovremmo essere come il barbiere di Wuhan, senza sapere che quello in cui saremmo piombati poche settimane dopo. Quel gesto che gli permetteva di vivere, era prima di tutto il suo mestiere, improvvisamente significava di più, ritrovava il suo senso e la sua origine. I gesti della nostra quotidianità, che spesso “distruggiamo” nelle logiche dello scambio e del mercato, hanno dentro comunque il segreto di una cura che questa crisi sta portando in evidenza. Forse potremo riscoprire la profondità dell’affidamento e dell’offerta reciproci.

Certo si muore sempre soli. Ci si lascia, ma ci si può lasciare accanto, in mani care, sentendosi di qualcuno. In questi giorni madri e padri sono morti senza aver più visto figli e figlie, da loro separati. Quanto è vero quel desiderio di ognuno di sentire ancora, infine, il tocco di quando siamo nati, accolti dal palmo di una mano, che ci ha sorretti, puliti, dondolati. Così siamo stati “messi al mondo”. Speriamo di sentire quel palmo sul volto morendo. Oggi per molti, per troppi non si dà.

Non ci resta che sperare, ed è struggente pensare che qualcuno là in una stanza di una Terapia intensiva si ricordi di quella cura e che porti il suo palmo sul nostro, pure se è sconosciuto. Che lo faccia in nome di quella concreta umanità che si è manifestata proprio in quella persona, nella sua vita che adesso finisce. Non possono esserci i parenti? Però ci sei tu, e allora carezzalo, tienigli la mano. Solo questo può lenire la fatica, per chi lo ha amato, della distanza. Quando noi fossimo sicuri di questo, potremmo ringraziare comunque la vita, il fatto che siamo gli uni dagli altri.

È possibile che la solitudine inevitabile non sia un abbandono straziante ma un affidamento; non sia la solitudine dell’abbandono ma un incontro tra poveri.

Anche la Chiesa è colpita dalla Pandemia. Da credente che effetto le fa la domenica senza messa?

“Viene il tempo, ed è questo, in cui si adorerà il Padre in spirito e verità” (Gv, 4) dice Gesù alla Samaritana vicino al pozzo di Giacobbe. È il Vangelo di tre giorni fa. Al di là delle contese su quale tempio, quale monte… Vivere una sorta di pulizia dello spirito, di ritorno alla Parola, d ritrovamento nell’interiorità è il tempo che ci è dato. Che è sempre tempo opportuno.

Quando i riti, i luoghi comunitari, i gesti e le parole scambiate, cantate e “danzate “ insieme, torneranno, forse saranno più capaci (capax: accoglienti, recettive, piene) di serbare e risuonare del dolore e della gioia, dell’ombra e della tenerezza, della fatica e della speranza, della morte e della vita nelle quali la Promessa del Padre si è mantenuta, ha resistito.

La pandemia che entra e scuote coscienze e scelte, pensieri e relazioni, i modi del vivere insieme, e del vivere soli con se stessi, forse chiederà alla Chiesa di aprire al suo interno e sui suoi confini (quelli dove incontra e dialoga con attese, speranze e disorientamenti di tanti uomini) una stagione di riflessione, ascolto, scelta: un Sinodo?. Come una preghiera, corale ed aperta.

Per la fede che sfida porta questa pandemia?

Scriveva Etty Hillesum nel settembre del ’42 “Non potremmo insegnare alle persone che è possibile ‘lavorare  e continuare ad avere una vita interiore produttiva e fiduciosa andando al di là delle angosce e dei rumori di fondo che ci assalgono?” Occorre lasciare maturare dentro l’essenziale, mentre tanti, tante cercano in cosa avere fede in questo passaggio. In cosa confidare? Da dove i sostegni per la speranza? Quali gesti e presenze ci si offrono come dono e fraternità? A cosa siamo chiamati?

In noi e tra noi “c’è dell’altro, oltre il bisogno di credere. Si dice, in noi e tra noi, una parola della vita… quasi un sussurro, che può cogliere forse chi vive una fede nuda. Ricordi le pagine di Romano Guardini?

Quando il gesto si accompagna alla charis, alla grazia, l’uomo diviene “un pertugio attraverso il quale Dio e la creazione si guardano”. Così Weil.

Provi davvero la debolezza del credere, credito aperto, speranza di speranza, convincimento non certificabile. Abbandono che attende braccia.

Per l’occidente questa pandemia mette in crisi i suoi miti basati sull’individualismo invincibile.. È così?

Chissà se toccare l’inutile, l’incerto, l’inefficace ci preparerà a tornare a sentire  più in profondità il gratuito. La sua energia delicata e decisiva.

È stato recentemente pubblicato (da Castelvecchi) un piccolo testo di Walter Benjamin Esperienza e povertà. È utile per un tempo in cui riuscire così a cominciare da capo, cominciare dal nuovo; a cavarsela con poco, a costruire dal poco, mentre i saperi di prima o toccano il limite o si rivelano futili, se non menzogneri.

Occorrerà, in qualche modo, forse “liberarsi dalle esperienze” quelle ricche, che parevano solidi edifici che tutto spiegavano e garantivano (anche le ingiustizie, i cinismi e le disponibilità) per provare a creare una vita comune in cui fare risaltare una certa povertà ”quella esteriore e alla fine anche interiore, con tanta purezza e nitore che ne esca fuori qualcosa di decente”.

Donne e uomini che sentono “un’esistenza che in ogni piega basta a se stessa, nella maniera più semplice”. Dall’indigenza – toccata nella soffocante ricchezza di cose e opportunità e disponibilità per alcuni, nell’esclusione di molti – alla “povertà” di nuove narrazioni, di inizialità essenziali perché capaci di serbare il cuore di consegne antiche e la cura per il futuro di altri. In un esodo esigente, dai cammini non scontati.

Lì potremo riseminare il bisogno di credere, che in questo tempo è così provato, viene così sfibrato, si tende come la corda di un arco sul punto di rottura. E legando, il bisogno di credere, al desiderio e al compito di sapere, di conoscere, d’essere responsabili.

La politica cerca di rispondere con i suoi mezzi a questa crisi. E le risposte in Europa sono state di due tipi: quella italiana, seguita poi da altri paesi, e quella cinica e sostanzialmente menefreghista di Johnson (che ora sta cambiando idea), il premier inglese. Quale lezione sta dando questa pandemia alla politica?

Parto da lontano. Riflettevo in questi giorni in cui il futuro pare entrato in dissolvenza sul fatto che il sentimento del futuro (e del tempo) ce lo eravamo già giocati. Nella festa del “consumatore globale”, futuro, sogno, mito e rito sono sciolti: lo dice bene Bauman ne Il teatro dell’immortalità. Nulla nasce, non si cerca inizio, non si sperano ci lei nuovi e terre nuove. Al più si “innova”.

La politica si trova ora di fronte alla questione del futuro, non del riparo del presente, alla necessità di un ripensamento profondo, di un riorientamento radicale. Deve pensare alla vita, a partire dalla salute, e a una convivenza che la curi, la coltivi, la faccia fiorire. Accorgendosi che ogni vita è vita comune, è vita gli uni degli altri, di uni dagli altri. Ed è chiaro che le politiche sono efficaci quando si appoggiano, interpretano, orientano scelte e pratiche di vita attente e responsabili, capaci di dedizione e di offerta (anche se oggi si dice sacrificio, e si dice male, ha ragione Luigino Bruni ).

La politica oltre al linguaggio dovrà cambiare sguardo: non si tratterà di chiudere una parentesi, ma di sapere insieme ridisegnare una convivenza nuova, nella quale sobrietà, veglia reciproca, coltivazione di ciò che vale, attenzione alle fragilità, uso dei saperi e dei poteri, siamo ritessuti tra le generazioni, tra le culture. Cura della vita comune, della vita nuova. Progettare e costruire come coltivazione della promessa: di dignitá, di riconoscimento, di cura, nessuno escluso. Inizio, l’iniziare è sempre gesto generoso, è offerta, è incontro. Sull’a venire.

Serviranno politici capaci d’essere umili, con il senso della realtà, con capacità di visione e di ascolto. Capaci di richiamo e orientamento. Testimoni e con cura genitoriale.

Ultima domanda Professore. torniamo al punto di partenza : siamo alla ricerca di un senso a questi giorni… Esiste?

C’è chi ha evocato l’inevitabilità di una certa “selezione naturale” dei fragili, dei vecchi, dei disabili. Che spesso sono anche poveri e marginali. Usando toni che Julia Kristeva definirebbe da “derattizzatori del terzo millennio”, nuovi promotori del merito, della eccellenza, del vitalismo, della purezza.

C’è anche chi ha ripreso le immagini del “flagello di Dio”, della punizione e del castigo, della purificazione: il resto dei perfetti resterà intoccato. I messianismi capovolti che tante vittime hanno già fatto si appropriano del virus.

Ma l’umanità ha già mostrato, anche attraversando catastrofi, che  ha reagito alla logica della selezione naturale con la fraternità e la pietà, quella feriale e semplice dei tanti operatori sanitari e della cura oggi. Una umanità che alla sofferenza dura e “ingiusta” accosta la attenzione alle vittime, anche degli altri, lontana.

Nel tempo della paura e dell’angoscia non emergono solo le tensioni fraterne e solidali. Nell’emergenza sembrano cavarsela meglio gli indifferenti, ci dicono gli antropologi e gli psicologi delle crisi. La stessa Zambrano in L’agonia dell’Europa , annota che “ogni disastro consente alla gente di manifestarsi nella sua cruda realtà: è strumento di rivelazione”. Rivela anche la forza del risentimento, della separazione dall’altro. Eppure da lì si svela anche come l’uomo (e lei parla proprio dell’uomo europeo) sia una creatura a cui non basta nascere una sola volta: può, anzi “ha bisogno di essere riconcepito” la speranza è “il suo fondo ultimo”, la nuova nascita.

Dobbiamo ancora pensare, sentire l’esperienza che la vita sta disegnando dentro di noi, tra noi, del nostro tempo. Fare attenzione, dobbiamo fare attenzione: “l’educazione all’attenzione è la cosa più importante” scriveva Simone Weil; e ancora “che cos’è la cultura? Educazione all’attenzione” Anzitutto attenzione allo sventurato.”

Ci sono esperienze che possono essere risvegli. Esperienze limite, immaginali e di scelta, di intuizione conoscitiva e di conversione, e durano un passaggio. Per aprire un nuovo inizio  quel passaggio deve diventare una soglia, che introduca a un nuovo viaggio, sorretti dalla speranza in una “ulteriorità”, in un nuovo inizio

 

Quell’Italia salvata dalle startup. Intervista ad Antonino Caffo

Valvole per i respiratori stampate in 3D, mascherine in microfibra e lavabili in lavatrice: quando al fianco della creatività si affianca la tecnica.

Non è difficile capire il momento di crisi in cui ci troviamo e non solo per quanto riguarda i macrotemi, dagli economici ai sociali. Anche l’emergenza nella quotidianità sta avendo il suo da fare. Basti pensare all’assenza delle mascherine nelle farmacie o al paventato esaurimento delle sale rianimazione negli ospedali di tutta Italia. Se, per alcuni scenari, gli unici interventi possibili sono quelli del governo, con le dovute misure a supporto delle operazioni maggiori, un aiuto sostanziale può arrivare anche da settori alternativi, impregnati di tecnica, che stanno dando un contributo essenziale nel mitigare gli effetti del Covid-19. Ne abbiamo parlato con Antonino Caffo, giornalista esperto di tecnologia, che sta seguendo approfonditamente il panorama nazionale delle cosiddette startup.

 

«Davanti agli occhi abbiamo la dimostrazione che, come italiani, sappiamo andare ben oltre gli slogan e gli hashtag. Solo un paio di giorni fa, leggevamo la notizia dell’ospedale di Chiari, in provincia di Brescia, che si è ritrovato nell’impossibilità di utilizzare alcuni macchinari nelle sale di rianimazione per la necessità di sostituire delle valvole rotte. Viste le tempistiche dei fornitori abituali, una realtà imprenditoriale locale, Isinnova, è riuscita a realizzare circa 100 valvole sostitutive in più o meno sei ore, peraltro rischiando anche di incorrere in una denuncia per violazione del brevetto, visto che il modello di base del pezzo è partito da quello del fornitore originale, che non poteva assicurare un hardware di ricambio in tempi brevi (per i motivi di riduzione e blocco del lavoro che sappiamo)».

 

In che modo Isinnova ha costruito le valvole specifiche?

 

«Grazie alla stampa 3D. Analizzando il pezzo da cambiare, i ragazzi hanno realizzato un file buono da essere dato in pasto ad una stampante. Ovviamente ciò comporta dei costi, probabilmente inferiori a quelli della fornitura tradizionale ma pur sempre presenti. Ad ogni modo, è la dimostrazione che, nel piccolo di una azienda che conta solo 14 collaboratori, le soluzioni per aggirare problemi che possono costare la vita alle persone ci sono e alla portata di chiunque abbia gli strumenti tecnologici adeguati; di certo non più solo grosse aziende e multinazionali».

 

Qualcosa si può fare anche nell’ambito delle mascherine, sempre più ricercate in tutto il paese?

 

«Sicuramente. Online da pochissimo c’è Save Italy, altra idea nostrana, che mira a produrre mascherine in scala, lavabili in lavatrice. Trattandosi di un tessuto nato con procedimento tramite interlacciamento ad acqua, senza utilizzo di alcun legante sintetico né chimico, composto al 100% di microfibra, si ha un prodotto che rispetta l’ambiente e ancora utile. Non saremo a livello di una mascherina FP2 ma almeno andiamo leggermente oltre quelle di carta che si vedono in giro oppure alle soluzioni fai-da-te casalinghe».

 

Non è un caso se l’aiuto delle startup sia stato ben accolto anche da Bruxelles…

«Esatto. Bruxelles ha lanciato un bando-lampo da 164 milioni di euro per startup innovative. L’obiettivo è quello di individuare più rapidamente possibile tecnologie e strumenti per trattare, testare, monitorare l’epidemia. Il tutto ruota attorno all’acceleratore di idee EIC, che sta già supportando una serie di piccole imprese nel Regno Unito e in Norvegia, proprio contro il Coronavirus. Tra queste ci sono il progetto EpiShuttle (3,5 milioni di euro) per la realizzazione di unità di isolamento specializzate; m-TAP (2,8 milioni di euro) per filtrare le particelle nell’aria e purificarla e Mbent (1,6 milioni di euro), che sfrutta il cloud e l’intelligenza artificiale per migliorare il segnale del Wi-Fi, prevenendo le interferenze, soprattutto adesso che siamo, o dovremmo essere, tutti a casa».